CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 luglio 2020, n. 14888
Licenziamento per giusta causa – Violazione in modo consapevole dei doveri d’ufficio Lesione del rapporto di fiduciario
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Firenze, in riforma della sentenza del Tribunale di Pistoia, ha – con sentenza n. 717 depositata il 5.9.2018 – respinto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da P.I. s.p.a., in data 25.6.2014, a C.I., per aver effettuato – in qualità di portalettere con uso di autovettura aziendale e in diversi giorni – ampi ritardi nel rientro in ufficio dopo la consegna della posta dovuti a soste presso luoghi non attinenti al servizio (casa, circolo ricreativo, macelleria, bardi sua proprietà) nonché percorrenze chilometriche ben superiori all’itinerario previsto.
2. La Corte riteneva che i fatti contestati al lavoratore, pacificamente sussistenti, rientrassero nella previsione di cui all’art. 54, comma 6, lett. a) e c) del CCNL di settore, disposizione relativa alle ipotesi di licenziamento senza preavviso per “illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di spettanza o di pertinenza della società o ad essa affidati…” e per “violazione dolosa di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o che abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi”, osservando che il dipendente aveva reiteratamente utilizzato l’autovettura di servizio per proprie esigenze così violando in modo consapevole svariati doveri d’ufficio, ingenerando un forte pregiudizio al datore di lavoro sia sul piano dell’organizzazione del lavoro (sovvertendo le regole dettate dalla società con ripercussioni sulla regolarità del servizio e nei rapporti con i colleghi) sia sul piano dell’immagine nei confronti dei terzi-utenti del servizio e in genere dell’affidamento riposto dal pubblico nell’efficienza del servizio di consegna della posta; la condotta aveva, pertanto, leso irrimediabilmente il rapporto fiduciario né potevano ritenersi integrate le previsioni dell’art. 54 del CCNL concernenti sanzioni conservative in quanto contemplavano condotte del tutto “sottodimensionate” rispetto alla fattispecie concreta che, anche in considerazione dell’art. 80 lett. e) del CCNL (che rinvia all’art. 2119 cod.civ.) e della previsione della “particolare gravità altrimenti sanzionabile”, ben poteva essere punita con la sanzione più severa in caso di particolare gravità.
3. Per la cassazione di tale sentenza lo I. ha proposto ricorso affidato a due motivi, illustrati da memoria. La società ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 17, comma 2, e 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, 54 e 80 del CCNL Poste 4.4.2011 anche alla luce dei canoni ermeneutici previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c., 2119 c.c. (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, espresso un giudizio di legittimità del licenziamento su fatti (aver consumato più carburante del dovuto e aver consegnato la posta in ritardo) mai contestati nonché interpretato erroneamente le clausole contrattuali le quali, lette nella loro interezza e nella loro reciproca relazione, non consentivano la sussunzione del comportamento contestato nella sanzione espulsiva bensì nelle sanzioni conservative ivi previste (nella specie, art. 54, commi da 1 a 4), in assenza di distrazione di beni della società “di non lieve entità” (dovendosi applicare l’art. 54, comma 2, lett. f) che prevede la “sottrazione di materiale o beni strumentali di tenue valore”) e di “forte pregiudizio”. La disamina complessiva delle ipotesi esemplificate dimostra che sarebbe irrogabile esclusivamente una sanzione conservativa in caso di lavoratore che abbia arrecato pregiudizio alla sicurezza del servizio, che abbia danneggiato le cose della società, che abbia non solo avuto un vantaggio per sé nell’eseguire atti contrari ai suoi doveri, ma abbia anche o in alternativa danneggiato la società o che abitualmente operi con negligenza o comunque che abbia operato in generale in spregio di regolamenti, al fine di procurare indebiti vantaggi a sé o a terzi.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia vizio di motivazione (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto provata la circostanza che il normale percorso del lavoratore fosse pari a 135 km, mentre i modelli aziendali 44/R (riprodotti in copia) non contenevano alcun dato a riguardo, nonché ritenuto sussistente un disservizio nonostante il testimone Biondi non ne avesse mai fatto alcun cenno e la lettera di contestazione disciplinare riportasse specificamente gli orari di uscita mattutina dall’ufficio dello I.
3. Il primo motivo del ricorso non è fondato.
3.1. Preliminarmente – pur non potendosi esimere dal rilevare che la censura non investe la violazione dei canoni ermeneutici con riguardo alla lettera di contestazione disciplinare comunicata dal datore di lavoro – dalla sentenza impugnata emerge che sia il Tribunale di Pistoia che la Corte territoriale hanno ritenuto provati i fatti contestati ossia che lo I., avente mansioni di “portalettere addetto alla zona di recapito n. 22 (servita mediante auto di servizio)”, “è stato colto in diverse occasioni, nei giorni 18, 25, 28 febbraio e 24, 26, 31 marzo 2014 effettuare soste non previste per il recapito della corrispondenza, anche con deviazioni dall’itinerario stabilito, e soffermarsi in luoghi non attinenti al servizio (circolo ricreativo, abitazione, condominio, macelleria, bar M.E. di proprietà del dipendente situato sul percorso, officina, negozio in centro a Pistoia) oltre al fatto che nel periodo settembre 2013/febbraio 2014 risultavano su 93 giorni lavorativi ben 59 casi di “sforamenti” rispetto alla percorrenza massima giornaliera di 135 km massimi, in alcuni casi anche di 15/20 km”.
La Corte territoriale si è conformata al principio di diritto consolidato secondo cui la contestazione disciplinare deve essere precisa, indicando i fatti, e non i suoi effetti, anche sinteticamente, purché in modo sufficiente a consentire al lavoratore di comprendere l’accusa e di difendersi (Cass. n. 21912 del 2010).
3.2. In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.
Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. n. 2013 del 2012 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. nn. 13574, 7948, 5095, 4060 del 2011).
In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass 4060/2011 cit.).
Tuttavia la scala valoriale espressa dal contratto collettivo deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 dei 2018; principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019; Cass. n. 14063 del 2019; v. anche Cass. n. 13865 del 2019), considerato altresì che la legge n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella legge n. 183 del 2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016).
Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (legge n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse “non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una. sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).
In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo ed alla previsione di una scala valoriale recepita dal contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dall’art. 1362 c.c. e ss., che sussiste il divieto di interpretazione analogica delle clausole contrattuali e che l’interpretazione estensiva è possibile solo ove risulti l’inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, verifica che deve essere condotta con particolare severità in un contesto nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione (tutela reintegratoria nel testo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92 del 2012) rispetto alla regola generale (tutela risarcitoria) deve essere interpretata restrittivamente. (Cass. n. 12365 del 2019 e ivi ampi riferimenti giurisprudenziali; conf. Cass. n. 31839 del 2019).
3.3. Tanto premesso in diritto è conforme ai principi richiamati l’operato della Corte territoriale che ha esplicitamente scrutinato l’art. 54, comma 1, lett. a) – d), comma 3, lett. f), comma 4, lett. d), j), n) del CCNL applicabile al rapporto, clausole che prevedono sanzioni conservative rispettivamente per chi “non osservi le disposizioni di servizio” o “esegua la prestazione con scarsa diligenza”, per “inosservanza di doveri e obblighi di servizio da cui sia derivato un pregiudizio alla regolarità del servizio stesso ovvero agli interessi della società o un vantaggio per sé o per i terzi, se non altrimenti sanzionabile” o per “compimento, in servizio, di atti dai quali sia derivato un vantaggio per sé e/o un danno per la società, se non altrimenti sanzionabile in caso di particolare gravità” ovvero per “l’abituale negligenza o l’abituale inosservanza degli obblighi di servizio nell’adempimento della prestazione di lavoro” o per “qualsiasi negligenza o inosservanza di leggi o regolamenti o degli obblighi di servizio deliberatamente commesse, anche per procurare indebiti vantaggi a sé o a terzi, ancorché l’effetto voluto non si sia verificato e sempre che la mancanza non abbia carattere di particolare gravità, altrimenti sanzionabile”.
Invero, la lettura complessiva dell’art. 54 del ccnl di settore dimostra che le parti sociali hanno inteso prevedere una scala valoriale via via crescente in relazione sia al numero delle infrazioni commesse, sia ai requisiti soggettivi ed oggettivi della condotta, tale da ricollegare alle ipotesi di maggiore gravità la sanzione espulsiva: ciò è reso chiaro dalla previsione, nei vari commi, di sanzioni via via più severe (il primo comma la sanzione del rimprovero verbale o dell’ammonizione scritta; il secondo comma la multa non superiore a 4 ore di retribuzione; il terzo comma la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a 4 giorni; il quarto comma la sospensione sino a 10 giorni e il quinto ed il sesto comma la sanzione espulsiva del licenziamento con e senza preavviso), dalla inclusione di ipotesi di recidiva dal secondo comma in poi (sino alla “recidiva plurima” punita con il licenziamento con preavviso), dalla delineazione di condotte via via più gravi (descrizioni rese esplicite dalla ricorrenza dell’intercalare “atti se non altrimenti sanzionabili in caso di particolare gravità” ovvero “sempre che la mancanza non abbia carattere di particolare gravità altrimenti sanzionabile” ).
Si tratta dunque – per quanto sopra detto – di una tipologia di clausole in cui il giudice non è vincolato dalla previsione della sanzione conservativa perché le parti collettive “non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).
La Corte di Appello ha proprio effettuato detta verifica, ravvisando nella specie l’estrema gravità della violazione di disposizioni di servizio finalizzate ad una efficiente organizzazione del lavoro, alla regolarità del servizio di consegna della posta, alla distribuzione dei compiti tra i colleghi, alla tutela dell’immagine della società nei confronti dei terzi, “fruitori diretti del servigio e più in generale del pubblico che deve poter fare affidamento sull’efficienza del servizio di consegna della posta”; in considerazione della intenzionalità, della ricorrenza e delle peculiarità oggettive della condotta, la Corte ha ricondotto la infrazione addebitata nella nozione legale di giusta causa (art. 2119 cod.civ.), ritenendo, inoltre, integrate le ipotesi cristallizzate dall’art. 54, comma 6, lett. a) e c) a fronte del plurimo uso dell’autovettura di servizio per proprie personali esigenze (con deviazione dall’itinerario delle consegne della posta e lo “sforamento” rispetto al chilometraggio previsto) e della violazione in modo consapevole e reiterato di svariati doveri d’ufficio, “usando l’auto di servizio per i propri interessi, deviando dal percorso di viaggio, dedicandosi durante l’orario di lavoro al proprio bar, protraendo il tempo delle consegne sistematicamente oltre l’orario ordinario e percorrendo spesso più chilometri di quelli necessari, in tal modo sovvertendo l’organizzazione del lavoro data dalla società datrice e fornendo la prestazione secondo le proprie personali esigenze”.
Trattasi di argomentazione plausibile, commisurata a tutte le circostanze del caso concreto che compete al giudice del merito apprezzare e che è sottratta al controllo di legittimità; per cui la diversa opinione della parte soccombente non è idonea a determinare la cassazione della sentenza impugnata.
Parimenti questa Corte insegna come anche il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003), se non nei limiti in cui lo sia il vizio di motivazione secondo la disciplina dell’art. 360 cod.proc.civ., tempo per tempo vigente.
Trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi, la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare l’omesso esame di un fatto, ai fini del giudizio di proporzionalità, avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (v. Cass. n. 18715 e 20817 del 2016).
4. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
La valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice del merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre e nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva Cass. n. 13177 del 2011)
Censure che si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio realmente rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.
5. In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese di lite sono liquidate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
6. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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