CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 marzo 2019, n. 7121
Tributi – Imposte sui redditi – Reddito di impresa – Regole di imputazione temporale dei componenti del reddito ex art. 75 DPR n. 917 del 1986 – Inderogabilità
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle Entrate, a seguito di processo verbale di constatazione redatto dallo stesso Ufficio, ha emesso, nei confronti dell’ I.I. s.p.a., avviso di accertamento – in materia di I.V.A., I.R.E.S. ed I.R.A.P. relative all’anno d’imposta 2003 – con il quale ha accertato un maggior reddito imponibile di euro 244.821,00, sia recuperando a tassazione componenti positivi, costituiti da maggiori ricavi non contabilizzati (derivanti dalla cessione di beni a prezzi nettamente inferiori a quelli di mercato) e da variazioni in aumento delle rimanenze finali ( corrispondenti a beni, in giacenza o acquistati nell’anno d’imposta 2003, che non risultavano ceduti, distrutti o furtivamente sottratti, o che risultavano ceduti solo in anni d’imposta successivi); sia contestando e rettificando componenti negativi, rappresentati da minusvalenze fittizie (relative alla cessione di beni avvenute in anni d’imposta precedenti), ammortamenti erroneamente quantificati (in quanto relativi a bene strumentale ceduto nell’anno d’imposta, senza che sia stato stornato contabilmente nello stesso esercizio) o indeducibili, nonché costi per gli acquisti di beni (avvenuti già nell’anno d’imposta 2002, precedente a quello di accertamento).
2. La contribuente ha proposto ricorso, avverso l’accertamento, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bari, che, dato atto dell’acquiescenza della ricorrente rispetto ad una parte delle riprese fiscali, lo ha respinto relativamente a quelle ancora controverse.
La C.T.P., infatti, quanto ai maggiori ricavi non contabilizzati, ha ritenuto che la contribuente non avesse dimostrato la ragionevolezza economica della cessione di beni a prezzi inferiori a quelli di acquisto. Quanto alle maggiori rimanenze finali, la C.T.P. ha escluso che la contribuente avesse provato le ragioni di una minore consistenza delle merci giacenti alla chiusura dell’esercizio oggetto dell’accertamento. Con riferimento, poi, ai costi, il primo giudice ha ritenuto giustificato il loro disconoscimento in ragione del criterio, inderogabile, della competenza, che impediva di imputare all’esercizio oggetto dell’accertamento i corrispettivi pagati dalla contribuente per gli acquisti di beni avvenuti in anni precedenti a quello sub iudice. Infine, la C.T.P. ha confermato l’indeducibilità della quota di ammortamento indicata tra i componenti negativi del reddito ed ancora controversa, essendo riferita non ad un bene materiale strumentale per l’esercizio dell’impresa, ma ad un bene costituente merce, pertanto da non includere nelle immobilizzazioni.
3. La contribuente ha quindi proposto appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia, ribadendo l’acquiescenza prestata ad alcuni dei rilievi contenuti nell’accertamento e, per quelli controversi, assumendo la nullità della decisione di primo grado per omessa, insufficiente e contradditoria motivazione in ordine al divieto di doppia imposizione ed al principio di competenza. In particolare, poi, l’appellante ha contestato l’affermazione della C.T.P. in ordine alla mancata prova contraria, da parte della stessa contribuente, di quanto accertato dall’ufficio.
4. La C.T.R., con la sentenza n. 11/8/12, depositata il 28 febbraio 2012, esclusa la nullità della sentenza impugnata, ha accolto nel merito l’appello, affermando che l’inderogabilità delle regole sull’imputazione temporale dei componenti del reddito dettate dall’art. 75 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) non potesse comunque generare una doppia imposizione a carico del contribuente, espressamente vietata dall’art. 127 d.P.R. n. 917/1986, ma che si sarebbe realizzata nel caso di specie. Infatti, secondo la C.T.R., «risultano del tutto condivisibili le argomentazioni dell’appellante, secondo le quali, nel momento in cui si considera una vendita non avvenuta nell’esercizio 2003 ma in quello 2004, oltre a rettificare in aumento il valore finale delle rimanenze dell’esercizio 2003 si sarebbe dovuto stralciare il ricavo di vendita contabilizzato dal contribuente nel corso dello stesso esercizio (l’obbligo, in questo caso, derivato dal fatto che le componenti reddituali interessavano il medesimo esercizio e non due esercizi diversi); se ciò fosse avvenuto, l’effetto finale sul reddito sarebbe dovuto essere nullo, cosa che non sì è verificata. Tutti gli addebiti relativi ai punti 2-4-5-6-7 (per gli altri l’appellante ha prestato acquiescenza alle determinazioni dell’Ufficio) presentano le medesime caratteristiche e sono riconducibili, per quanto rilevato, ad una non consentita duplicazione d’imposta».
5. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per la cassazione della predetta sentenza di secondo grado, articolando un unico motivo.
6. Resiste con controricorso il contribuente, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza dei motivi dedotti dalla ricorrente.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 d.P.R. n. 917 del 1986, da parte del giudice a quo che – pur avendo espressamente affermato l’inderogabilità del principio di competenza, quale criterio di imputazione temporale dei componenti del reddito imponibile, e pur avendo richiamato un precedente giurisprudenziale di legittimità, secondo il quale l’applicazione di detto principio non implica, di per sé la conseguenza, parimenti vietata, della doppia imposizione, che è evitabile dal contribuente con la richiesta di restituzione della maggior imposta, la quale è proponibile, nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 cod. civ., a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza (così, in motivazione, Cass., 13/5/2009, n. 10981, citata nella sentenza impugnata) – ha tuttavia, contemporaneamente, negato che lo stesso principio di competenza possa operare nel caso di specie, poiché la sua applicazione avrebbe effetti tali da consentire la doppia imposizione.
2. Preliminarmente, deve escludersi che il ricorso sia improcedibile, come eccepito dalla controricorrente. Infatti, premessa la rituale richiesta della ricorrente, ai sensi dell’art. 369, comma 3, cod. proc. civ., di trasmissione del fascicolo d’ufficio del giudizio a quo, non rende improcedibile il ricorso la mancata allegazione, o la mancata indicazione della specifica collocazione, di atti o documenti, il cui esame non risulti indispensabile ai fini della decisione (cfr. Cass. 23/03/2016, n. 5819). Pertanto – anche in considerazione della riproduzione, incontestata, all’interno del ricorso e dello stesso controricorso, di parte del contenuto dell’avviso di accertamento e della sentenza di primo grado – va rigettata la relativa eccezione, formulata dalla controricorrente senza specifico riferimento ad alcun atto o documento la cui omessa allegazione possa precludere la decisione in questa sede.
3. Deve parimenti escludersi che il ricorso sia inammissibile, come eccepito, per plurime ragioni, dalla contro ricorrente. Infatti, l’unico motivo di ricorso appare autosufficiente, in quanto contiene l’esposizione sommaria dei fatti di causa e le indicazioni sufficienti ad individuare la questione di diritto, oggetto della censura sottoposta a questa Corte, ante riprodotta.
3.1. Né, peraltro, l’inammissibilità del ricorso deriva dall’asserita errata indicazione della norma violata, o falsamente applicata, che la ricorrente individua nell’art. 75 d.P.R. n. 917 del 1986, in luogo dell’art. 127 d.P.R. n. 917 del 1986, che costituirebbe invece, secondo la controricorrente, l’unica norma applicata e ritenuta dirimente dal giudice a quo.
Infatti, la lettura complessiva dell’unico motivo di ricorso evidenzia in maniera inequivocabile come la ricorrente abbia inteso censurare la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto che l’inderogabilità del criterio di competenza, di cui al citato art. 75, trovi un limite necessario nel divieto della doppia imposizione, di cui al predetto art. 127, a sua volta espressamente menzionato nel corpo del motivo.
In virtù di tale contenuto sostanziale del motivo di ricorso, che attinge l’unica ratio decidendi della sentenza della C.T.R., deve, infine, respingersi anche l’eccezione della controricorrente, secondo la quale la stessa sentenza non sarebbe stata impugnata sul punto e sarebbe quindi passata in giudicato.
4. L’unico motivo di ricorso è fondato e va accolto.
Infatti, questa Corte ha costantemente ribadito che, in tema di determinazione del reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti del reddito, dettate in via generale dall’art. 75 d.P.R. n. 917 del 1986, sono tassative ed inderogabili, non essendo consentito al contribuente di ascrivere a proprio piacimento un componente positivo o negativo del reddito ad un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza (Cass., 18/12/2009, n. 26665. Nello stesso, ex plurimis, già Cass. 15/11/2000, n. 14774, in motivazione; Cass., 13/5/2009, n. 10981, in motivazione, citata nella stessa sentenza impugnata; Cass. 17/07/2014, n. 16349; Cass. 30/7/2018, n. 20095), poiché ciò finirebbe per rendere lo stesso contribuente arbitro della scelta del periodo più conveniente in cui dichiarare i componenti del proprio reddito, con innegabili riflessi sulla determinazione del relativo reddito imponibile.
Premessa quindi l’inderogabilità del criterio di competenza dettato dall’art. 75 d.P.R. n. 917 del 1986, occorre precisare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la violazione dei criteri d’imputazione cronologica dei componenti positivi e negativi del reddito non costituisce una violazione meramente formale, sia perché l’imputazione ad un determinato periodo di imposta di componenti ad esso estranei (in quanto riferibili ad altro periodo) incide sulla determinazione del reddito d’impresa di quella specifica annualità (cfr. Cass. 03/10/2018, n. 24006); sia perché, comunque, «in nessun caso […] il contribuente può scegliere liberamente, secondo le proprie convenienze, l’esercizio in cui registrare i costi, dovendo l’eventuale spostamento dall’anno di riferimento essere ancorato a fatti obbiettivi e verificabili» (Cass., 30/12/2009, n. 28070. Nello stesso senso, Cass. 30/7/2018, n. 20095).
Inoltre, come del resto premesso nella stessa decisione impugnata, questa Corte ha costantemente affermato che la deroga del criterio di competenza non può essere legittimata neppure dalla paventata v conseguenza dell’eventuale doppia imposizione, a sua volta vietata dall’art. 127 d.P.R. 917 del 1986, trattandosi di un effetto che deriva direttamente dall’applicazione dell’art. 75 d.P.R. 917 del 1986 e che, in base ai principi generali, è evitabile dal contribuente mediante l’esercizio, con la richiesta di rimborso (e conseguente impugnazione, ai sensi dell’art. 19 d. Igs. n. 546/1992, del silenzio rifiuto su di essa eventualmente formatosi) della maggior imposta in ipotesi versata per la mancata esposizione di componenti del reddito nell’annualità di effettiva competenza, che è proponibile, nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 cod. civ., a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza (ex plurimis, Cass., 13/5/2009, n. 10981, in motivazione; Cass., 06/09/2017, n. 20805; Cass. 30/7/2018, n. 20095).
Infine, la rettifica, secondo la corretta imputazione temporale all’esercizio di competenza, dei componenti del reddito, può incidere, come avvenuto nel caso di specie, sulla conseguente determinazione delle rimanenze finali dell’esercizio sottoposto ad accertamento, poiché il principio della cd. continuità di bilancio, sancito dall’art. 92 d.P.R. n. 917/1986 (per effetto del quale le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali di quello successivo) non esclude il potere dell’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, di rideterminare il valore delle rimanenze medesime (Cass., 26/09/2018, n. 22932).
La decisione impugnata non si è attenuta a tali principi, laddove, dopo aver premesso che l’applicazione del criterio di competenza non è derogata dalla possibile conseguenza della doppia imposizione, ha invece, contraddittoriamente, ritenuto che «risultano del tutto condivisibili le argomentazioni dell’appellante, secondo le quali, nel momento in cui si considera una vendita non avvenuta nell’esercizio 2003 ma in quello 2004, oltre a rettificare in aumento il valore finale delle rimanenze dell’esercizio 2003 si sarebbe dovuto stralciare il ricavo di vendita contabilizzato dal contribuente nel corso dello stesso esercizio (l’obbligo, in questo caso, derivato dal fatto che le componenti reddituali interessavano il medesimo esercizio e non due esercizi diversi); se ciò fosse avvenuto, l’effetto finale sul reddito sarebbe dovuto essere nullo, cosa che non sì è verificata. Tutti gli addebiti relativi ai punti 2-4-5-6-7 (per gli altri l’appellante ha prestato acquiescenza alle determinazioni dell’Ufficio) presentano le medesime caratteristiche e sono riconducibili, per quanto rilevato, ad una non consentita duplicazione d’imposta».
Tale affermazione appare, innanzitutto, non condivisibile nella parte in cui, dopo aver individuato l’effetto della ritenuta doppia imposizione nell’ipotesi di contemporanea inclusione nel medesimo esercizio tanto di un bene, tra le rimanenze finali, quanto del ricavo della sua vendita, apoditticamente estende la medesima conclusione a tutti i diversi addebiti contenuti nell’accertamento e controversi, i quali comprendono (a quanto si ricava dalla sentenza impugnata, dal ricorso e dallo stesso controricorso) anche la rettifica di componenti negativi (minusvalenze fittizie, ammortamenti erroneamente quantificati o indeducibili, costi per acquisti di beni avvenuti nell’anno d’imposta precedente) e positivi (costituiti da maggiori ricavi non contabilizzati e da ulteriori variazioni in aumento delle rimanenze finali corrispondenti a beni, in giacenza o acquistati nell’anno d’imposta 2003, che non risultavano ceduti, distrutti o furtivamente sottratti) che sono oggettivamente difformi dalla fattispecie descritta nella motivazione, poiché non contemplano la contemporanea contabilizzazione di un ricavo derivante dalla vendita dello stesso cespite.
Inoltre, anche con riguardo all’unica fattispecie di rettifica della base imponibile espressamente descritta nella motivazione, la sentenza impugnata (che peraltro neppure individua specificamente il bene ed il corrispettivo della sua vendita che sarebbero oggetto della doppia imposizione) non offre alcun argomento che possa legittimare la violazione dell’inderogabile criterio di cui all’art. 75 d.P.R. n. 917/1986 da parte del contribuente, al quale non è comunque riconsentito di alterare l’imputazione temporale legale dei componenti del reddito neppure anticipando, rispetto all’esercizio di competenza, la contabilizzazione di ricavi (come la stessa C.T.R. da per presupposto sia avvenuto nel caso di specie), poiché anche in questo caso l’imputazione ad un determinato periodo di imposta di componenti ad esso estranei (in quanto riferibili ad altro periodo) incide arbitrariamente sulla determinazione del reddito d’impresa di quella specifica annualità.
Pertanto, a fronte dell’indiscussa ed ingiustificata alterazione del criterio temporale legale di imputazione dei componenti reddituali, non vi è ragione, per quanto qui controverso, di ritenere che la riespansione, attraverso la rettifica da parte dell’Amministrazione finanziaria, del principio di competenza sia preclusa dal paventato effetto della doppia imposizione. Evento, quest’ultimo, la cui ricorrenza, nel caso di specie, appare peraltro dubbia (non ravvisandosi identità di presupposto tra la rimanenza attiva in un esercizio e la vendita del bene nell’esercizio successivo) e, comunque, ove sussistente, derivante direttamente dall’applicazione della legge, ovvero dall’attuazione dell’inderogabile criterio di competenza.
Alla cassazione della sentenza impugnata segue il rinvio al giudice a quo, che, applicato il principio sinora illustrato, dovrà decidere in merito alle contestazioni, relative alle singole voci della rettifica effettuata nell’accertamento, oggetto dell’appello ed assorbite dalla pronuncia cassata.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto;
rinvia alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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