CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 marzo 2019, n. 7167
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Insussistenza di un effettivo collegamento tra il riassetto organizzativo e la soppressione del posto di lavoro
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 3891/2017, pubblicata il 20 luglio 2017, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che aveva ritenuto il recesso datoriale viziato da motivo illecito determinante), escludeva che il licenziamento intimato da V.D.R. S.r.l. ad A.S. in data 30/6/2014 potesse considerarsi assistito da un giustificato motivo oggettivo, osservando come il reparto, cui la medesima era addetta alla data del provvedimento, fosse stato bensì soppresso in conseguenza di un riassetto organizzativo e produttivo che ne aveva previsto la “esternalizzazione”, ma la lavoratrice vi fosse stata collocata, proveniente da altro reparto, in esubero rispetto all’ordinario livello occupazionale: ciò che determinava l’insussistenza di un effettivo collegamento tra il riassetto e la soppressione del posto di lavoro e, con essa, stante l’evidente arbitrio ravvisabile nella condotta datoriale, la manifesta insussistenza del fatto integrante il dedotto giustificato motivo oggettivo, con conseguente applicazione della tutela di cui al comma 4 della l. n. 300/1970.
2. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società con unico motivo, cui ha resistito la lavoratrice con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo proposto, deducendo la violazione o falsa applicazione dell’art. 18 l. n. 300/1970, la società datrice di lavoro censura la sentenza impugnata per non avere considerato che la manifesta insussistenza del fatto – quale presupposto legittimante la tutela reintegratoria ai sensi del co. 4 della legge – ricorre nella sola ipotesi di inesistenza del fatto materiale addotto a sostegno del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e che, nella diversa ipotesi in cui tale fatto materiale invece sussista (come nel caso di specie, nel quale risulta incontestata la natura effettiva, e non apparente, del processo di “esternalizzazione” del reparto cui la lavoratrice era addetta al tempo del recesso), la tutela applicabile è unicamente quella indennitaria prevista dal comma 5.
2. Il motivo è infondato.
3. L’art. 18, così come modificato dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, dispone (comma 7) che il giudice applichi la disciplina di cui al comma 4, e cioè la più forte e incisiva tutela costituita dalla condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso sino a quello della effettiva reintegrazione, entro il limite delle dodici mensilità, “nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; e che applichi, invece, la disciplina di cui al comma 5, e cioè la condanna del datore di lavoro al solo pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo”.
4. In sostanza, il nuovo regime sanzionatorio introdotto dalla l. n. 92 del 2012 in tema di recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo prevede, come regola, il pagamento a favore del lavoratore di un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità, mentre riserva il ripristino del rapporto, oltre ad un risarcimento che non può superare le dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, alle ipotesi eccezionali connotate – in luogo del mero difetto degli “estremi” della fattispecie – dalla manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento (Cass. n. 14021/2016 e successive conformi).
5. Ne consegue che l’espressione “può altresì applicare”, che compare al principio della disposizione in esame, non assegna al giudice un margine ulteriore di discrezionalità (tra casi reputati meritevoli della più severa sanzione per la loro estrema gravità e casi che, pur rivelandosi compresi anch’essi nell’identico e comune ambito di eccezione, non siano considerati tali), posto che, ove il fatto sia caratterizzato dalla “manifesta insussistenza”, è unica, e soltanto applicabile, la protezione del lavoratore rappresentata dalla disciplina di cui al comma 4.
6. Ciò posto, si osserva che l’indagine, che deve compiere il giudice del merito al fine di stabilire se una data fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia o meno caratterizzata dalla “manifesta insussistenza del fatto”, si compone di due momenti concettualmente distinti ma coesistenti nell’unitarietà dell’accertamento giudiziale: nel senso che, con il primo di essi, che attiene alla struttura tipica della specifica fattispecie espulsiva, il giudice è chiamato ad accertare il “fatto” del licenziamento in ciascuno degli elementi che concorrono a delinearlo, e pertanto, a procedere ad un’opera di ricognizione tanto della effettiva sussistenza di un processo di riorganizzazione o riassetto produttivo, come della necessaria sussistenza del nesso di causalità fra tale processo e la perdita del posto di lavoro ed inoltre dell’impossibilità per il datore di lavoro di ricollocare il proprio dipendente nell’impresa riorganizzata e ristrutturata (Cass. n. 24882/2017 e numerose conformi); con il secondo, il giudice è chiamato ad una penetrante analisi e valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, quale unico mezzo per determinare l’eventuale riconduzione del fatto sottoposto al suo esame all’area di una insussistenza che deve porsi come “manifesta” e cioè contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento.
7. A tali criteri di indagine si è correttamente uniformata la Corte di appello di Roma nella sentenza impugnata, avendo preso in considerazione non soltanto l’intervenuto riassetto organizzativo e produttivo dell’impresa, pacificamente sussistente e incontestato, ma anche la questione dell’esistenza di un nesso effettivo fra tale riassetto e la soppressione del posto di lavoro; e avendo, sul rilievo della strumentale e sovrabbondante collocazione della lavoratrice (come di altri colleghi) in un reparto destinato in breve volgere di tempo ad essere soppresso, accertato la palese elisione di tale legame e, con essa, una condotta datoriale obiettivamente e palesemente artificiosa, in quanto diretta all’attribuzione e all’esercizio di un potere di selezione arbitraria del personale da licenziare, come tale integrante il presupposto per l’applicazione della tutela di cui al comma 4.
8. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
9. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Respinge il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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