CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 marzo 2019, n. 7174
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Ridimensionamento aziendale – Esternalizzazione del servizio – Insussistenza
Fatti di causa
Con sentenza in data 28 giugno 2017, la Corte d’appello di Ancona rigettava i reclami principale e incidentale rispettivamente proposti da P.I. s.r.l. e da G.C. avverso la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato il 1° luglio 2014 dalla prima al secondo, la risoluzione del rapporto di lavoro e condannato la società datrice ai pagamento, in favore del lavoratore a titolo risarcitorio, di un’indennità pari a quattordici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; negando invece la manifesta insussistenza del motivo e la reintegrazione nel posto di lavoro.
La Corte territoriale riteneva, così come il Tribunale, l’illegittimità del licenziamento per il comportamento (già accertato da precedente sentenza della stessa Corte n. 119/2015 tra le parti, in giudicato, che aveva statuito il diritto di C. al risarcimento del danno per la sua inclusione nella rotazione in CIGS a zero ore, senza inserimento in un settore pienamente operativo con mansioni conformi alla qualifica) contrario a buona fede tenuto dalla società datrice, che, in esecuzione di una precedente sentenza (n. 685/2011 del Tribunale di Ascoli Piceno), aveva destinato il lavoratore ad un reparto (di “ricezione e centralino”), già soppresso a causa di una politica di ridimensionamento aziendale comportante l’esternalizzazione del servizio di “ricezione” e l’accentramento del “centralino” presso la sede di Roma.
Essa ribadiva l’esclusione dell’insussistenza, tanto meno manifesta, del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, per l’obiettiva esistenza di una situazione economica legittimante la ristrutturazione organizzativa e così pure la congruità dell’indennità risarcitoria liquidata dal Tribunale, in ragione dell’anzianità del lavoratore, del ridimensionamento strutturale della società e del comportamento delle parti nella ricerca di un componimento bonario della controversia.
Avverso tale sentenza il lavoratore, con atto notificato il 28 agosto 2017, ricorreva per cassazione con unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resisteva la società con controricorso, contenente ricorso incidentale con due motivi.
Ragioni della decisione
1. Con unico motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 2909 c.c. ed omesso esame di un fatto storico decisivo già accertato, violazione e falsa applicazione dell’art. 18, settimo comma I. 300/1970, per manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo alla base del licenziamento intimato, consistente nella “soppressione della posizione di Receptionist/centralinista nell’ambito della divisione E./F.S., ricoperta dal Sig. C.”, oggetto di accertamento (con sentenza n. 119/2015 della Corte d’appello di Ancona, confermata dalla sentenza n. 21887/2016 della Corte di cassazione e pertanto) in giudicato, comportante la tutela reintegratoria e non risarcitoria, per l’inesistenza di una tale ragione non veritiera. Il lavoratore si duole dell’erronea e contraddittoria individuazione dalla Corte territoriale delle ragioni giustificanti il licenziamento nel ridimensionamento organizzativo, già risalente al 2009 ed oggetto del suddetto accertamento in giudicato di illegittimità del comportamento datoriale, contrario a buona fede, in base al quale egli era stato incluso nella rotazione in CIGS a zero ore, anziché essere inserito in un settore pienamente operativo con mansioni conformi alla sua qualifica: tali ragioni tuttavia mancando di alcun collegamento causale diretto ed immediato con il licenziamento.
2. Con il primo motivo, la controricorrente a propria volta, in via di ricorso incidentale, deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2118 c.c., 18, quinto e settimo comma I. 300/1970, per legittimità del licenziamento intimato, sussistendone il giustificato motivo oggettivo, non essendo contestata la soppressione del posto del lavoratore ed avendo la società datrice, con propria scelta riorganizzativa imprenditoriale insindacabile dall’autorità giudiziaria, provveduto ad una tale ricollocazione, per mera ottemperanza alla sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 685/2011, non essendo disponibili altre posizioni corrispondenti alla sua qualifica.
3. Con il secondo, essa deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 18, quinto comma I. 300/1970, per l’entità eccessiva dell’indennità risarcitoria liquidata al lavoratore, rispetto a quella più congrua di dodici mensilità, per il comportamento non collaborativo del lavoratore (di opposizione alle offerte transattive datoriali, anche di incentivo all’esodo) nelle trattative per una soluzione conciliativa della controversia.
4. L’unico motivo del ricorso principale è fondato.
4.1. Occorre premettere come la sentenza di questa Corte 28 ottobre 2016, n. 21887 (di rigetto del ricorso P.I. s.r.l. avverso la sentenza della Corte d’appello di Ancona 30 marzo 2015, n. 119), abbia accertato, per quanto qui rileva e con statuizione in giudicato, in particolare: a) la contrarietà a buona fede dell’assegnazione datoriale del “lavoratore ad un reparto ormai inattivo invece di” una sua collocazione “in mansioni (corrispondenti sì all’inquadramento cui aveva diritto ma) di effettivo svolgimento”; b) l’assenza di un obbligo, imposto dalla sentenza (n. 685/2011 del Tribunale di Ascoli Piceno) di riconoscimento il diritto alla superiore qualifica D3, di “reinserimento nel reparto nelle more soppresso”, per essersi limitata “a prevedere il collocamento in mansioni conformi al livello riconosciuto” , sicchè “anche in caso diverso, la statuizione giudiziale avrebbe dovuto essere eseguita secondo buona fede «come tutti gli altri obblighi contrattuali»”; c) la mancata prova datoriale dell’esclusione del “dipendente … dalla rotazione anche se fosse stato collocato in un altro reparto per l’esercizio effettivo di mansioni corrispondenti al livello D3” e dell’impossibilità della “rotazione … per tutti i profili professionali del livello D3”; d) la coerente conclusione secondo cui: “La esecuzione secondo buona fede del predetto obbligo non consentiva di assegnare al dipendente una posizione lavorativa espunta dall’organigramma aziendale sin dall’anno 2009 ed al momento della assegnazione non più operativa”
4.2. Tanto premesso, è ora necessario verificare la sussistenza di un nesso causale tra l’accertata ragione, inerente l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro come dichiarata dall’imprenditore e l’intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto alla ristrutturazione operata. Sicchè, ove tale nesso manchi, anche al fine di individuare il lavoratore colpito dal recesso, si rivela l’uso distorto del potere datoriale, per un’evidente dissonanza che smentisce l’effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201; nello sesso senso, per la verifica di sussistenza e di idoneità del nesso causale: Cass. 27 ottobre 2017, n. 25653; Cass. 13 novembre 2018, n. 29165).
4.3. Ebbene, nel caso di specie, la ragione del licenziamento intimato con lettera del 10 luglio 2014 (come trascritta al primo capoverso di pg. 3 del ricorso) consiste nella soppressione della posizione di Receptionist/centralinista nell’ambito della divisione E./F.S., ricoperta dal Sig. C., in realtà già accertata come “espunta dall’organigramma aziendale sin dall’anno 2009 ed al momento della assegnazione non più operativa” in base al giudicato formatosi tra le parti.
Appare evidente la mancata istituzione, né corretta né attuale, di un nesso causale immediato e diretto con il licenziamento delle suindicate ragioni di ridimensionamento organizzativo all’origine dell’avvio della procedura di licenziamento collettivo e di mobilità: essendo pure rimasta indimostrata la soppressione del reparto, cui era stato adibito G.C., dopo il ripristino “in seguito alla pronuncia giudiziale di riconoscimento della qualifica superiore” (così all’ultimo capoverso di pg. 7 della sentenza), addirittura contraddetto dal superiore accertamento in giudicato.
4.4. Si configura allora il requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, a norma dell’art. 18, settimo comma I. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42 I. 92/2012: da intendersi come una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, tale da rivelarne la pretestuosità (Cass. 25 giugno 2018, n. 16702; Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; Cass. 12 dicembre 2018, n. 32159).
5. Dalle superiori argomentazioni discende, in accoglimento del motivo scrutinato comportante il rigetto di entrambi i motivi di ricorso incidentale (in quanto ad esso specularmente contrari), la cassazione della sentenza, in relazione al ricorso principale accolto, con rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza, in relazione al ricorso principale e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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