CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 dicembre 2021, n. 39978
Tributi – IVA all’importazione – Inclusione delle royalties nel valore in dogana delle merci importate
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 3687/07/2015, depositata il 27 agosto 2015, la Commissione tributaria regionale del Lombardia accoglieva l’appello principale proposto da S.T.I. s.p.a., in persona del legale rappresentante prò tempore, nei confronti dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore prò tempore, e rigettava l’appello incidentale proposto dall’Agenzia nei confronti della detta società avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano n. 7962/21/2014 che, previa riunione, aveva respinto il ricorso della contribuente avverso l’avviso di rettifica di accertamento n. RU/60840 del 21 agosto 2012 e aveva accolto quello avverso il corrispondente atto di irrogazione delle sanzioni n. 60839.
2. Il giudice di appello, in punto di fatto, premetteva che: 1) S.T.I. s.p.a. aveva impugnato dinanzi alla CTP di Milano l’avviso di rettifica di accertamento n. RU/60840 – con il corrispondente atto di irrogazione delle sanzioni – con il quale l’Ufficio delle dogane di Milano 2 aveva rettificato il valore doganale di giocattoli – riproducenti loghi di noti marchi registrati (D., H.K. etc.) – importati, negli anni 2010-2012, da parte dalla suddetta società – tramite le proprie controllate S.T.H.K.L. e S.T.H.K.L. – da fabbricanti extracomunitari (cinesi), includendovi, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lettera c) del Reg. CEE 12 ottobre 1992, n. 2913 e dell’art. 157, paragrafo 2, del Reg. CEE 2 luglio 1993, n. 2454, i diritti di licenza che S.T.I. s.p.a. corrispondeva ai licenzianti titolari dei marchi; 2) la CTP di Milano, con la sentenza n. 7962/21/2014, previa riunione, aveva rigettato il ricorso avverso l’avviso di rettifica, ritenendo sussistenti le condizioni per l’inclusione delle royalties nel valore in dogana e accolto, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992, il ricorso avverso l’atto di contestazione delle sanzioni; 3) avverso la sentenza di primo grado aveva proposto appello principale S.T.I. s.p.a. – già S.T.I. s.p.a.- e appello incidentale l’Agenzia delle dogane.
3. Tanto premesso, in punto di diritto, la CTR osservava che: 1) dagli atti non emergeva un controllo della produzione da parte del licenziante ma una semplice attuazione, con criteri di media diligenza, del rapporto di licenza; 2) il licenziante non aveva facoltà di intervenire sui ritmi e sulla qualità della produzione né, sulla base del rapporto contrattuale, poteva imporre il produttore; 3) la non debenza dei dazi doganali era confermata dal fatto che i diritti di licenza venivano corrisposti direttamente al licenziante senza possibilità alcuna per i fabbricanti di rifiutare la vendita in caso di omesso pagamento degli stessi diritti e con conseguente mancata configurabilità di questi come condizione di vendita ex art. 31, comma 1, lett. c) e 5, lett.b) CDC e artt. 143, 157 e 160 DAC; 4) stante il principio di neutralità dell’Iva e il divieto di doppia imposizione, avuto riguardo alla mancata diversità tra l’iva interna e l’iva all’importazione, quest’ultima non era dovuta, essendo stata corrisposta nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante autofatturazione.
4. Avverso la sentenza della CTR, l’Agenzia delle dogane propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi, cui resiste con controricorso S.T.I. s.p.a.-già S.T.I. s.p.a.
4. Dopo essere stato rinviato a nuovo ruolo all’udienza del 17 aprile 2019, il ricorso è stato rifissato per la trattazione in pubblica udienza ai sensi dell’art. 23, comma 8bis del D.L. 28/10/2020, n. 137 come convertito, con mod., dalla legge 18/ 12/ 2020 n. 176.
5. La società controricorrente ha depositato memoria illustrativa e richiesta di discussione orale ex art. 23, comma 8-bis, del d.l. n. 137/2020.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, l’Agenzia delle dogane denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, secondo comma, c.p.c. e 36 del d.lgs. n. 546 del 1992 per avere la CTR, con affermazioni apodittiche e astratte, escluso la sussistenza, nella specie, delle condizioni, di cui agli artt. 157, par. 2 e 160 DAC, per l’inclusione delle royalties nel valore in dogana delle merci importate, senza indicare i relativi riscontri probatori e in modo avulso dallo schema contrattuale sottostante.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116, 132, secondo comma, c.p.c. e 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, per avere la CTR escluso il controllo del licenziante sulla produzione e, dunque, che il pagamento dei diritti di licenza costituisse “condizione di vendita” delle merci importate, senza indicare le ragioni sottese a tale decisione, ancorché l’accordo del fabbricante e quello di licenza deponessero in senso contrario.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727, 2729 c.c. nonché degli artt. 29 e 32 del Reg. CE n. 2913 del 1992, degli artt. 157, 160 e 143 del Reg. CE n. 2454/1993 e degli artt. 1362 c.c. nonché dei principi di ermeneutica contrattuale, per avere la CTR erroneamente escluso la sussistenza delle condizioni di cui agli artt. 157, par. 2 e 160 DAC, ritenendo non configurabile nella fattispecie un controllo delle licenziane sulla produzione, senza considerare le clausole dei contratti di licenza dalle quali emergeva la configurazione del pagamento del diritto di licenza come condizione di vendita.
4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 67-70 del d.P.R. n. 633 del 1970, 50bis del d.l. n. 331/1993 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427/1993, per avere la CTR erroneamente escluso la debenza dell’Iva all’importazione, per essere stata corrisposta nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante autofatturazione, senza considerare che, nella specie, lungi dal venire in rilievo la disciplina sul deposito fiscale e sulla introduzione solo virtuale in esso della merce importata, si era trattato di erronea determinazione del valore in dogana di quest’ultima, con conseguente mancata corresponsione dell’Iva nella misura esatta.
5. Con il quinto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e segg. c.c. per avere la CTR ritenuto non dovuta l’iva all’importazione, stante l’avvenuta autofatturazione, nonostante la società non avesse prodotto, al riguardo, alcuna prova documentale né tantomeno delle dovute annotazioni nel registro delle vendite e degli acquisti.
6. Con il sesto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 303, commi 1 e 2 del d.P.R. n. 43 del 1973 e 70 del d.P.R. n. 633 del 1972, per avere la CTR erroneamente, nel rigettare l’appello incidentale dell’Ufficio, confermato l’annullamento del corrispondente atto di irrogazione delle sanzioni, ancorché queste ultime conseguissero alle documentate violazioni doganali.
7. Il primo motivo è fondato nei termini di seguito indicati.
7.1.«La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526 – 01); «La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione» (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830; 28069 del 2018).
Pertanto, la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perché dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res deciderteli” (Cass. 22949 del 2018; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016e la giurisprudenza ivi richiamata).
Va premesso che la nozione coinvolta è quella del valore in dogana delle merci importate, che, di regola, è il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve le rettifiche da effettuare conformemente all’art. 32 di tale codice (Corte giust. 12 dicembre 2013, Christodoulou e a., causa C-116/12, punti 38, 44 e 50, nonché 21 gennaio 2016, Stretinskis, causa C-430/14, punto 15). Esso deve comunque riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (in termini, da ultimo, Corte giust. 20 dicembre 2017, causa C-529/16, Hamamatsu). Anche i diritti di licenza, allora, sono destinati ad incidere sulla determinazione del valore doganale qualora i corrispondenti beni immateriali siano incorporati nella merce, così esprimendone o contribuendo ad esprimerne il valore economico. Sicché, qualora il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate non ne includa- come nella specie – il relativo importo, l’art. 32 del codice doganale comunitario (reg. n. 2913/92) stabilisce che al prezzo si addizionano «…c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare…».
Il regolamento n. 2454/93, contenente disposizioni di attuazione del codice doganale comunitario, specifica questa regola. In generale, esso stabilisce che «…quando si determina il valore in dogana di merci importate in conformità delle disposizioni dell’articolo 29 del codice [doganale] si deve aggiungere un corrispettivo o un diritto di licenza al prezzo effettivamente pagato o pagabile soltanto se tale pagamento:
– si riferisce alle merci oggetto della valutazione, e – costituisce una condizione di vendita delle merci in causa» (art. 157, paragrafo 2). Occorre dunque che ricorrano tre condizioni cumulative:
– in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare;
– in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare e,
– in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare. In particolare, con riguardo al caso in cui il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto d’importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, il regolamento di attuazione specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare «soltanto se: -il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione, -le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e – l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore (art. 159). Sempre in particolare, per il caso in cui l’acquirente paghi un corrispettivo o un diritto di licenza a un terzo, il regolamento prescrive che «…le condizioni previste dall’articolo 157, paragrafo 2 si considerano soddisfatte solo se il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento» (art. 160). La disciplina generale fissata dal paragrafo 2 dell’art. 157, dunque, trova specificazione in quelle particolari, rispettivamente concernenti il caso in cui il diritto di licenza riguardi un marchio di fabbrica e quello in cui il corrispettivo del diritto debba essere versato ad un terzo. E le particolarità finiscono col contrassegnare, più di ogni altra, l’identificazione delle <<condizioni di vendita delle merci in causa», che devono rispondere ai presupposti rispettivamente richiesti – dinanzi richiamati- dagli artt. 159 e 160, in relazione alle ipotesi da essi contemplate.
Quanto alla configurabilità del versamento dei diritti di licenza come condizione di vendita della merce né l’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale né l’art. 157, paragrafo 2, del regolamento n° 2454/93 precisano cosa si debba intendere per «condizione di vendita» delle merci da valutare. A riempire la lacuna soccorre l’interpretazione che della disciplina ha fornito la Corte di giustizia con la sentenza 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Düsseldorf.
Nella detta sentenza, la Corte di giustizia, ha stabilito, facendo leva sul punto 12 del commento n. 3 del comitato del codice doganale (sezione del valore in dogana) relativo all’incidenza dei corrispettivi e dei diritti di licenza sul valore in dogana, che l’identificazione della condizione di vendita si traduce nella verifica se il venditore sia disposto, o no, a vendere le merci senza che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza. In generale, dunque, il pagamento in questione è una «condizione di vendita» delle merci da valutare qualora, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore -o la persona ad esso legata- e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere.
Occorre cioè, come ha chiarito la Corte di giustizia (in causa C173/15, punto 68), «verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente».
Sul punto, l’allegato 23 delle DAC – Note interpretative in materia di valore in dogana all’articolo 143, paragrafo 1, lettera e) (a norma del quale due o più persone sono considerate legate se l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra), stabilisce che «si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda». Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perché è assunto per la sua rilevanza anche di fatto, dall’altro, su quello degli effetti, perché ci si contenta dell’effetto di “orientamento” del soggetto controllato. Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene.
Utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 dei Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento TAXUD/800/2002, nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale (ormai parte dell’acquis communautaire, ossia del diritto materiale dell’Unione, con valore di soft law): queste indicazioni, ha precisato la Corte di giustizia in causa C-173/15, punto 45, «sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sé considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice». Ebbene, il documento in questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti: – il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; – il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); – il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; – il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; – il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; – il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc. – il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; – il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; – il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; – le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); -le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante.
In materia, questa Corte (nn. 8473 del 2018; 25438 del 2018;25437 del 2018; 24996 del 2018) ha affermato il condivisibile principio di diritto: “In tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore in dogana di prodotti che siano stati fabbricati in base a modelli e con marchi oggetto di contratto di licenza e che siano importati dalla licenziataria, il corrispettivo dei diritti di licenza va aggiunto al valore di transazione, a norma dell’art. 32 del regolamento CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, come attuato dagli artt. 157, 159 e 160 del regolamento CEE della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza“.
Nella specie, la motivazione della sentenza impugnata rientra paradigmaticamente nelle gravi anomalie argomentative individuate negli arresti giurisprudenziali sopra richiamati e dunque, concretizzando un chiaro esempio di “motivazione apparente” ossia del tutto mancante, si pone sicuramente al di sotto del “minimo costituzionale; infatti, la CTR, nel negare la ricorrenza dei presupposti per includere le royalies in commento nel valore doganale, ha affermato apoditticamente che dagli atti non emergeva un controllo della licenziante sulla produzione, né tantomeno la facoltà della stessa di intervenire sui ritmi e sulla qualità della produzione o di imporre la scelta del produttore, senza disvelare quali fossero gli elementi probatori esaminati e conducenti all’affermata mancanza, nella specie, di quel legame tra venditore/fabbricante e licenziante necessario per potere configurare il pagamento delle royaltles come condizione di vendita delle merci importate ai sensi degli artt. 160 e 157 par. 2 DAC, e limitandosi, al riguardo, ad osservare che circostanza confermativa della non debenza dei dazi sulle royaltles fosse costituita dal fatto che queste ultime erano corrisposte direttamente al licenziante per cui i fabbricanti non potevano rifiutare la vendita in caso di omesso pagamento delle stesse (nello stesso senso, anche Cass. n. 31615/19, tra le stesse parti).
L’accertata motivazione apparente della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta insussistenza delle condizioni di legge per includere i diritti di licenza nel valore imponibile in dogana, involge anche le affermazioni della CTR in ordine alla ritenuta non debenza della maggiore Iva all’importazione; invero, al riguardo, se l’accertato assolvimento mediante inversione contabile dell’iva intracomunitaria elide la pretesa impositiva corrispondente, non elide la maggiore pretesa concernente la maggiore iva scaturente dalla base imponibile eventualmente aumentata dell’importo dei corrispettivi dei diritti di licenza, aspetto sul quale la motivazione della sentenza impugnata è assolutamente carente.
Infine, l’accertata motivazione apparente investe altresì il fondamento dell’atto di irrogazione delle sanzioni correlato alla verifica della sussistenza della corrispondente obbligazione tributaria.
In conclusione, va accolto il primo motivo, assorbiti gli altri, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, per un riesame della vicenda nel merito, alla luce dei principi sopra richiamati.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso; assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione;
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