CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 giugno 2018, n. 15639
Licenziamento – Dipendenti del comparto enti pubblici non economici – Assenza dal lavoro – Superamento del periodo di comporto
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Milano ha accolto il reclamo proposto ex art. 1, comma 58, della legge n. 92/2012 da A.C. avverso la sentenza del Tribunale di Milano che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente dall’Inps il 24 marzo 2015, aveva ordinato all’ente di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato, ma aveva respinto la domanda di risarcimento del danno.
2. La Corte territoriale ha premesso, in punto di fatto, che alla data del recesso il periodo di comporto non era ancora maturato perché il C. aveva chiesto, ai sensi dell’art. 21 del C.C.N.L. per i dipendenti del comparto enti pubblici non economici, di potersi assentare per ulteriori 18 mesi, senza diritto al trattamento retributivo, e l’anzidetto periodo, iniziato il 29 settembre 2013, veniva a scadenza il 29 marzo 2015.
3. Il giudice di appello, rilevato che si discuteva unicamente del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18, comma IV, dell’art. 18 della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012, essendosi formato giudicato sulle altre statuizioni della sentenza di primo grado, ha evidenziato che aveva errato il Tribunale nell’escludere il diritto, perché il licenziamento aveva impedito al C. di rientrare in servizio allo scadere del periodo di aspettativa e di percepire l’ordinaria retribuzione mensile sino al 1° gennaio 2016, data in cui il reclamante, su sua domanda, era stato collocato in pensione.
4. La Corte territoriale ha ritenuto non fondata la tesi dell’Istituto, a detta del quale il rapporto sarebbe comunque cessato il 29 marzo 2015 per superamento del periodo di comporto, ed ha evidenziato che il licenziamento intimato in difetto delle condizioni richieste dall’art. 2110 cod. civ., sebbene rinnovabile, non è temporaneamente inefficace, essendo al contrario nullo per violazione di norme) imperativa di legge. Ha, pertanto, condannato l’Inps al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista dal comma 4 del richiamato art. 18, pari alla retribuzione mensile globale di fatto maturata dal 5 giugno 2015 al 1° gennaio 2016, con interessi e rivalutazione monetaria.
5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Inps sulla base di tre motivi, ai quali ha resistito con tempestivo controricorso A.C.. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 370 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo l’Inps si duole della violazione dell’art. 2909 cod. civ. e rileva che era stato accertato già nella fase sommaria che il secondo periodo di comporto sarebbe scaduto il 29 marzo 2015. La Corte territoriale, pertanto, non poteva riconoscere l’indennità risarcitoria in relazione ad un periodo successivo alla scadenza del comporto, accertata con efficacia di giudicato, perché l’originario ricorrente non aveva censurato la statuizione nel giudizio di opposizione ed in sede di reclamo.
2. La seconda censura denuncia la «violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 c.c. e dell’art. 21 del C.C.N.L. 1994/1997 del comparto enti pubblici non economici, in relazione all’art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001» nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti. L’Istituto ricorrente rileva che in sede di reclamo non era stata prospettata l’automatica operatività del recesso alla scadenza del periodo di comporto, bensì era stato evidenziato che con il provvedimento del marzo 2016, adottato dopo l’ordinanza di reintegra, si era specificato che il rapporto sarebbe stato ricostituito solo limitatamente al periodo 24 marzo/28 marzo 2015 perché a decorrere dal 29 marzo era venuta meno la garanzia di conservazione del posto di lavoro. In tal modo era stata manifestata nuovamente e validamente la volontà di recedere dal rapporto, sicché la Corte territoriale avrebbe dovuto respingere la domanda risarcitoria, non potendosi configurare un danno per il periodo successivo alla data sopra indicata.
3. Il terzo motivo addebita alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 22, comma 36, della legge n. 724/1994 perché, venendo in rilievo un rapporto di impiego pubblico, non potevano essere riconosciuti gli interessi legali in aggiunta alla rivalutazione monetaria.
4. Occorre premettere che si è formato giudicato interno sulla ritenuta illegittimità del licenziamento intimato in data antecedente alla scadenza del periodo di comporto e sul diritto del dipendente ad essere reintegrato nel posto di lavoro in precedenza occupato.
In tal senso aveva statuito già il Tribunale e la pronuncia non era stata impugnata, in via principale o incidentale, dall’INPS, che in sede di reclamo si era limitato a resistere all’impugnazione del C. concernente il solo capo della decisione relativo al risarcimento del danno.
I primi due motivi di ricorso, tra l’altro formulati sull’errata premessa dell’applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012, censurano la sola quantificazione del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dal 5 giugno 2015 al 1° gennaio 2016 e ripropongono la tesi, disattesa dalla Corte territoriale, secondo la quale nessun pregiudizio economico avrebbe subito il C. in conseguenza dell’illegittimo recesso in quanto il dipendente non aveva ripreso servizio prima della scadenza del periodo di comporto, spirato il 29 marzo 2015.
5. Il primo motivo è inammissibile perché si fonda su argomentazioni prive della necessaria attinenza al decisum.
La Corte territoriale, infatti, non ha messo in dubbio che il periodo di conservazione del posto di lavoro spirasse il 29 marzo 2015, ma ha evidenziato che allorquando, come nella fattispecie, il licenziamento venga intimato prima della maturazione del comporto l’atto, in quanto adottato in violazione dell’art. 2110 cod. civ., è nullo e non temporaneamente inefficace, con conseguente continuità e permanenza del rapporto sino all’eventuale rinnovazione dell’atto.
Il motivo, nell’addebitare alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 2909 cod. civ., non coglie la ratio della decisione, che è fondata sulla non automaticità della risoluzione del rapporto alla scadenza del periodo.
6. La seconda censura presenta egualmente profili di inammissibilità, in quanto prospetta la questione della qualificazione dell’atto adottato il 9 marzo 2016, che non risulta affrontata e trattata nella sentenza impugnata.
La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che «qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa» (Cass. n. 8206/2016).
Detto onere non risulta pienamente assolto nella fattispecie perché l’INPS non ha trascritto nel ricorso le parti rilevanti delle memorie difensive depositate nel giudizio di opposizione ed in sede di reclamo ed a pagina 18 si è limitato a sostenere che nel giudizio di merito era stato tempestivamente depositato il provvedimento del 9 marzo 2016, non già che era stata prospettata la questione della qualificazione dell’atto e della pretesa efficacia retroattiva dello stesso.
6.1. Osserva, inoltre, il Collegio che la rinnovazione del licenziamento nullo è stata ammessa da questa Corte perché la stessa, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell’art. 1423 cod. civ., norma, questa, diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetto ex tunc e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia negoziale (cfr. Cass. nn. 5226/2001, 23641/2006, 6773/2013 e fra le più recenti Cass. nn. 28120/2017, 3187/2017, 986/2017).
Dal principio di diritto discende che gli effetti del nuovo atto si producono solo a far tempo dalla data della sua adozione perché, ove si pretendesse di conferire al licenziamento efficacia retroattiva, si finirebbe per violare il divieto sancito dal richiamato art. 1423 cod. civ., che consente la convalida del negozio nullo sono nei casi espressamente previsti dalla legge.
Del tutto destituita di fondamento è, quindi, la pretesa dell’INPS di escludere il diritto del C. al risarcimento del danno, riconosciuto limitatamente al periodo 5 giugno 2015/1° gennaio 2016, facendo leva su un atto adottato in epoca successiva all’arco temporale nel quale si è prodotto il pregiudizio economico.
7. E’, invece, fondato il terzo motivo, perché la Corte territoriale, nel riconoscere “interessi e rivalutazione” sulle somme liquidate in favore del reclamante, ha violato l’art. 22, comma 36, della legge n. 724/1994, che ha esteso ai crediti derivanti da rapporto di impiego pubblico maturati dopo il 1° gennaio 1995 il divieto di cumulo previsto per i crediti previdenziali dall’art. 16 della legge n. 412/1991.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere cassata in relazione al motivo accolto. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa può essere decisa nel merito ex art. 384, comma 2, cod. proc. civ. con la condanna dell’INPS a corrispondere sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno la maggior somma fra interessi legali e rivalutazione monetaria.
8. La fondatezza del motivo di ricorso relativo alla quantificazione degli accessori rende inapplicabile l’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002.
Quanto al regolamento delle spese rileva il Collegio che l’Istituto è risultato sostanzialmente soccombente, tanto più che il controricorrente ha riconosciuto la fondatezza del terzo motivo e si è dichiarato disponibile a restituire quanto già corrisposto dall’ente in applicazione del cumulo. L’INPS va, pertanto, condannato a rifondere ad A.C. le spese del giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito condanna l’INPS a corrispondere a C.A. sulle somme liquidate a titolo di indennità risarcitoria la maggior somma fra interessi legali e rivalutazione monetaria.
Condanna l’INPS al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 4.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.
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