CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 giugno 2019, n. 16052

Contratto di lavoro intermittente – Illegittimità – Nullità del termine apposto al successivo contratto a tempo determinato – Accertamenti svolti dal servizio ispettivo dell’INPS

Fatti di causa

1. Il Giudice del lavoro del Tribunale di Gorizia, in accoglimento della domanda proposta da C. A. M. nei confronti della s.n.c. P. M. di A. I. e J., emetteva sentenza non definitiva con cui accertava l’illegittimità del contratto di lavoro intermittente stipulato con decorrenza dal marzo 2011, nonché la nullità del termine apposto al successivo contratto a tempo determinato decorrente dall’agosto 2012 e, per l’effetto, dichiarava che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fino al dicembre 2012, epoca in cui la lavoratrice aveva rassegnato le proprie dimissioni. In particolare, accertava un orario di lavoro di 45 ore a settimana dal marzo al settembre 2011 e poi un orario di 29 ore settimanali sino alla fine del rapporto. Disponeva l’espletamento di una c.t.u. contabile e rinviava al definitivo per la liquidazione del quantum. Inoltre, riconosceva alla ricorrente un indennizzo ai sensi dell’art. 32 comma 5, legge n. 183 del 2010, pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Differiva la decisione sulle spese al definitivo.

2. L’appello proposto dalla società convenuta veniva rigettato dalla Corte d’appello di Trieste, secondo la quale la regolarità e l’effettività dei due contratti erano smentite dagli accertamenti svolti dal servizio ispettivo dell’INPS nel gennaio 2014 e dalle prove orali assunte. Inoltre, quanto al rapporto di lavoro a termine, formalmente stipulato per sostituire un’addetta assente per maternità, nessuno dei testi (e neppure il titolare dell’impresa in sede di interpello) aveva saputo riferire alcunché circa l’identità della collega in astensione dal lavoro.

3. Per la cassazione di tale sentenza non definitiva la s.n.c. P. M. di A. I. e J. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi. La C. A. è rimasta intimata.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo l’odierna ricorrente denuncia violazione dell’art. 34 d.lgs. 276 del 2003 (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) in relazione al contratto di lavoro a chiamata o intermittente a tempo indeterminato. Assume che tale contratto era stato regolarmente stipulato a norma del primo e del secondo comma del citato art. 34, con specifico riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età.

2. Con il secondo motivo denuncia “omessa insufficiente contraddittoria motivazione” (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.) per quanto attiene al contratto di lavoro a tempo determinato, in relazione al quale la sentenza aveva affermato che nulla era stato provato in giudizio circa l’effettività della causale giustificativa, ossia che l’assunzione era avvenuta per sostituzione di un’altra lavoratrice in astensione per maternità. Parte ricorrente assume un travisamento della prova.

3. Con il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 5, legge 183 del 2010 (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.). Sostiene che il rapporto di lavoro cessò in data 15 dicembre 2012, alcuni mesi prima della scadenza del termine apposto al contratto, per dimissioni rassegnate dalla lavoratrice e non per un atto di recesso posto in essere dal datore di lavoro, e che, pertanto, in mancanza di un pregiudizio risarcibile afferente al periodo compreso fra la scadenza del termine e il provvedimento giudiziale di conversione del rapporto di lavoro, erroneamente era stato riconosciuto l’indennizzo previsto dalla citata norma.

4.  Con il quarto motivo si denuncia “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione” in ordine agli elementi istruttori (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.), con particolare riferimento alla valutazione delle dichiarazioni testimoniali, ritenute univoche dalla Corte di appello, ma in realtà inficiate dall’esistenza di rapporti interpersonali ed affettivi tra i testimoni indotti e la stessa ricorrente. Deduce anche in tal caso un travisamento della prova.

5. E’ fondato il terzo motivo, mentre sono infondati gli altri.

6. Il primo contratto di lavoro intercorso tra le parti venne stipulato ai sensi del secondo comma dell’art. 34 del d. Igs. n. 276 del 2003 che, all’epoca dei fatti, prevedeva la possibilità che il contratto di lavoro intermittente potesse essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età; la C. venne assunta quando ancora non aveva compiuto il venticinquesimo anno di età. Prima del compimento di tale età, nell’agosto 2012 il contratto di lavoro venne trasformato in contratto a termine, formalmente per sostituzione di altra lavoratrice in maternità.

6.1. Il d.lgs n.276 del 2003, all’art. 33, definisce il contratto di lavoro intermittente come “il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione del datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa nei limiti di cui all’art. 34”. Il contenuto della disposizione si completa, pertanto, con quanto previsto dall’articolo successivo, il quale stabilisce che le prestazioni lavorative hanno carattere “discontinuo o intermittente”, indicandone i presupposti, oggettivi e soggettivi, per la conclusione del contratto.

L’art. 34, nella formulazione applicabile alla data di assunzione, dopo aver sancito, al primo comma, “il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno ai sensi dell’articolo 37”, prevedeva, al secondo comma, che “il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età ovvero da lavoratori con più di quarantacinque anni di età, anche pensionati”. Alla data della trasformazione in rapporto di lavoro a termine (agosto 2012), il secondo comma dell’art. 34 stabiliva (a seguito dell’intervento della legge 28 giugno 2012, n. 92), che ” il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con più di cinquantacinque anni di età e con soggetti con meno di ventiquattro anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età” (quanto alla conformità al diritto dell’Unione Europea di tale ultima previsione, v. Cass. n. 4223 del 2018).

6.2. Ciò premesso in via generale, va tuttavia rilevato che la sentenza impugnata, nel confermare il giudizio espresso dal Tribunale, ha richiamato a fondamento della decisione, mediante in sintetico recepimento per relationem, un accertamento ispettivo dell’INPS che aveva attestato la non conformità del rapporto di lavoro stipulato ex artt. 33 e 34 d.lgs. n. 276 del 2003 alle previsioni di legge. Il contenuto di tale accertamento non è stato trascritto nel ricorso e neppure specificamente contestato. In tal modo non è dato neppure conoscere se esso abbia riguardato la non conformità a legge accertata nella fase genetica del rapporto di lavoro intermittente e comunque la tipologia della violazione accertata.

6.3. Il motivo di ricorso si limita ad un generico ed assertivo rilievo di regolarità del contratto di lavoro intermittente concluso tra le parti, senza consentire a questa Corte di conoscere funditus le ragioni sulle quali la Corte d’appello ha fondato il decisum circa la ritenuta deviazione del rapporto di lavoro dalla tipologia negoziale.

6.4. A norma dell’art. 366, primo comma n. 4 cod. proc. civ., il ricorso per cassazione deve contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata (cfr. Cass. 11984 del 2011), ciò anche in considerazione del fatto che, ove sia dedotto il vizio della violazione o falsa applicazione della legge di cui all’art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, primo comma n. 4, cod. proc. civ., devono essere, a pena d’inammissibilità, specificamente indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (ex plurimis, Cass. n. 16862 del 2013, n. 24298 del 2016). In conclusione, la censura, per come formulata, resta avulsa da qualsiasi specificità, risolvendosi in un mera petizione di principio.

7. Il secondo motivo è infondato. A prescindere dalla rubrica del motivo, redatta secondo la vecchia formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., pur trovando applicazione il testo della norma quale riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 – che ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. S.U. n. 8053 del 2014) -, non è stato chiarito innanzitutto quale sarebbe il fatto omesso che avrebbe carattere di “decisività”.

7.1. In ogni caso, la Corte di appello ha vagliato le prove testimoniali quanto alla effettività della causale giustificativa del secondo contratto di lavoro, stipulato a tempo determinato, ritenendola non provata proprio alla stregua dell’interpretazione e valutazione delle risultanze istruttorie.

7.2. Nel contestare tale soluzione, parte ricorrente denuncia un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini di una alternativa ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di sollecitare una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal giudice del merito. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico- formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).

8. Il terzo motivo è fondato per le ragioni che seguono.

8.1. L’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), limita l’ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro fissandolo nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e disponendo che esso ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.

8.2. Nel dichiarare infondate le censure di incostituzionalità sollevate avverso tale disposizione, la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire, con la sent. n. 226 del 2014, come già con la precedente sent. n. 303 del 2011, che la ratio dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 era ravvisabile nella volontà di “introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione” a fronte delle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente, con l’esito di risarcimenti ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva”. E’ stato, inoltre, chiarito che l’art. 32, comma 5, citato “non si limita a forfettizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine”, ma va ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato che costituisce la “protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario”. La finalità perseguita con l’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, dunque, era quella di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, imponendo un meccanismo semplificato e di più rapida definizione di liquidazione del danno (evitando accertamenti probatori in ordine alla mora accipiendi, all’aliunde perceptum, al percipiendum, ecc.) a fronte della illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro. Analogo obiettivo è alla base della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012. Tale disposizione, emanata all’indomani della sentenza n. 303 del 2011, sostanzialmente recepisce l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 che quella pronuncia conteneva.

8.3. La Corte costituzionale ha così ribadito che il danno forfettizzato dall’indennità in esame “copre soltanto il periodo cosiddetto ‘intermedio, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a  corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva” (C. cost. sent. cit.).

8.4. Il riconoscimento del danno forfettizzato dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, proprio perché destinato – secondo la sua ratio – a compensare il danno costituito dal periodo c.d. intermedio, ossia quello successivo alla scadenza del termine e fino alla sentenza che ne accerta la nullità e ricostituisce il rapporto di lavoro, presuppone sia l’esistenza di un periodo intermedio da risarcire, sia l’esistenza di una sentenza che, oltre a dichiarare la conversione ad initio del rapporto a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, disponga la riammissione in servizio del lavoratore, considerato che il danno è configurabile, oltre che per l’imputabilità della mancata prestazione al datore di lavoro, ove esista un periodo in cui il rapporto di lavoro – de iure ricostituito per effetto della sentenza dichiarativa della nullità del termine – avrebbe potuto proseguire.

9. Giova in proposito precisare che la fattispecie ora all’esame non riguarda un’ipotesi di abuso (ossia di reiterazione) del ricorso al contratto a termine, ma un’ipotesi di mera illegittimità dell’apposizione del termine all’unico contratto di lavoro stipulato per tale tipologia.

9.1. La sentenza di primo grado, confermata in appello, una volta dichiarata la nullità della clausola appositiva del termine, ha provveduto alla conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, senza tuttavia disporre la riammissione in servizio della lavoratrice, poiché nei fatti il rapporto si era risolto per dimissioni intervenute alcuni mesi prima della scadenza del termine illegittimo. E’ dunque mancato un periodo intermedio risarcibile per fatto imputabile al datore di lavoro. Alla dichiarata conversione del rapporto sin dall’origine (con ogni conseguenza economica e previdenziale), non ha fatto seguito la riammissione in servizio, essendo il rapporto di lavoro oramai definitivamente risolto per fatto volontario della lavoratrice.

10. Se è vero che questa Corte ha ritenuto che l’indennità in questione configura una sorta di penale ex lege a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo, tanto è stato affermato con riferimento al fatto che si prescinde dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore nel c.d. periodo intermedio, ossia senza riguardo all’eventuale  aliunde perceptum, appunto in quanto indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva”, ma pur sempre riferibile ai danni causati dalla nullità del termine nel periodo corrente dalla scadenza del termine fino alla sentenza di conversione (cfr. Cass. n. 151 del 2015, n. 19295 del 2014, n. 19098 del 2013. n. 3056 e 9023 del 2012).

11. Per completezza, va rilevato che, quanto alla rivendicazione delle differenze retributive maturate nel periodo di svolgimento del rapporto di lavoro fino al momento delle dimissioni rassegnate dalla lavoratrice nel dicembre 2012, il giudice di primo grado ebbe a disporre l’espletamento di una c.t.u. contabile, per cui la pronuncia sul quantum venne rimessa al prosieguo del giudizio di primo grado, il cui esito resta estraneo al presente giudizio.

12. Il quarto motivo è inammissibile per le medesime ragioni già esposte con riguardo al secondo motivo.

13. La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. con il rigetto della domanda di indennizzo ex art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010, ferme tutte le restanti statuizioni.

14. In ordine alle spese del giudizio, va rilevato che il Tribunale statuì di regolarle in sede di sentenza definitiva, per cui nulla può essere disposto da questa Corte al riguardo, considerato che il giudizio di legittimità ha interessato unicamente la pronuncia di appello avverso la sentenza di primo grado non definitiva.

Quanto al grado di appello, tenuto conto dell’infondatezza della domanda risarcitoria, le spese sono compensate tra le parti nella misura di 1/4 dell’intero liquidato nella sentenza impugnata, mentre la restante parte resta a carico della società soccombente.

Nulla va disposto quanto alle spese del giudizio di legittimità, in quanto M. C. A. è rimasta intimata e non ha svolto, pertanto, alcuna attività difensiva.

15. Tenuto conto del parziale accoglimento del ricorso, non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege solo in caso di rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo, rigettati gli altri; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di indennizzo ex art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010; compensa per 1/4 le spese del giudizio di appello, liquidate come in sentenza di appello e condanna la società ricorrente al pagamento dei restanti 3/4 delle spese. Nulla per le spese del giudizio di legittimità.