CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 marzo 2018, n. 6173
Licenziamento disciplinare – Lavoratore che si pone volontariamente nelle condizioni di subire un infortunio – Accusa ai responsabili aziendali del mancato rispetto delle norme antinfortunistiche – Contestazione di violazione di norma contrattuale – Condotta ulteriore rispetto a quella oggetto della lettera di contestazione – Mancato utilizzo di un dispositivo di sicurezza personale
Fatti di causa
Con sentenza resa pubblica in data 29/9/2015 la Corte d’appello di Potenza confermava la decisione emessa dal giudice di prima istanza che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato il 2 novembre 2011 dalla s.p.a. Agroalimentare S. al dipendente M.L. per aver violato l’art. 70 c.c.n.l. di settore ponendosi volontariamente, nelle condizioni di subire un infortunio; per aver travalicato il diritto di difesa, accusando i responsabili aziendali del mancato rispetto delle norme antinfortunistiche; per essere risultato recidivo nella violazione di disposizioni disciplinari nel periodo di rilevanza contrattuale.
La Corte argomentava, a fondamento del decisum, che correttamente era stata ritenuta dal primo giudice non sussumibile la mancanza ascritta al lavoratore (e consistita nell’omesso utilizzo delle scarpe antinfortunistiche), in una di quelle già sanzionate con la misura espulsiva dall’art. 70 c.c.n.l. di settore che riguardava il “danneggiamento volontario o la messa fuori opera di dispositivi antinfortunistici”, non essendo riconducibile un comportamento omissivo e meramente colposo, quale quello imputabile al L., alla condotta, di natura commissiva e dolosa, descritta nella richiamata disposizione contrattuale collettiva.
Rimarcava il giudice del gravame che il licenziamento era stato intimato anche sulla base di una condotta ulteriore rispetto a quella oggetto della lettera di contestazione, e del tutto nuova rispetto ad essa, non recando alcun riferimento ad un eccesso nell’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, che si sarebbe tradotto nella formulazione di accuse infamanti nei confronti della direzione aziendale.
Riteneva, infine, del tutto generico il richiamo nella lettera di licenziamento, alla recidiva.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la s.p.a. Agroalimentare S. affidato a tre motivi, successivamente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c., cui resiste il L. con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 70 n.12 c.c.n.l. di settore e dell’art. 2119 c.c.
Si deduce che in sede di gravame, sarebbe emerso come il giorno dell’infortunio occorso al lavoratore, questi avesse volontariamente indossato calzature diverse da quelle antinfortunistiche obbligatorie così ponendo in essere una conclamata violazione degli obblighi contrattuali, unica causa dell’evento dannoso patito. Si argomenta, quindi, che la previsione contrattuale collettiva – riferita al compimento di “danneggiamento volontario o la messa fuori opera di dispositivi antinfortunistici” – rispecchiava in ogni suo aspetto, oggettivo e soggettivo, la condotta posta in essere dal dipendente.
2. Il motivo è privo di fondamento.
Va infatti rimarcato come la Corte abbia congruamente posto in rilievo l’eterogeneità fra i dettami della previsione contrattuale – riferiti ad un comportamento commissivo e doloso – rispetto alla condotta ascritta al lavoratore, qualificata da una essenza omissiva, e, sotto il profilo soggettivo, meramente colposa.
Infatti, la disposizione contrattuale collettiva invocata da parte aziendale – posta a sostegno della sanzione espulsiva irrogata – concerneva “il danneggiamento volontario o la messa fuori opera di dispositivi antinfortunistici”. La Corte di merito, nell’esaminare il dettato contrattuale richiamato, ha argomentato come, all’evidenza, fosse del tutto irragionevole ritenere che il mancato utilizzo di un dispositivo di sicurezza personale equivalesse a danneggiarlo o a metterlo fuori uso, “tanto diversa è la materialità delle condotte, la natura degli eventi e la gravità della messa in pericolo del bene tutelato, l’integrità psico-fisica del lavoratore nell’ambiente di lavoro, integranti le due fattispecie di illecito”.
Detto apprezzamento, coerente sotto il profilo logico, e corretto sul versante giuridico, perché condotto in conformità ai dettami della disposizione contrattuale collettiva, scrutinata in base ai criteri sanciti dagli artt. 1362 e segg. cod. civ., si sottrae alla censura all’esame.
3. Con il secondo motivo è denunciata violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c..
Si lamenta che la Corte di merito sia incorsa in vizio di ultrapetizione, sollevando questioni mai dedotte in giudizio dalle parti, con peculiare riferimento alla circostanza che, travalicando il diritto di difesa, il lavoratore avrebbe falsamente imputato all’azienda il mancato, doloso, rispetto delle norme antinfortunistiche, così configurando una condotta del tutto nuova rispetto a quella posta a base della contestazione di addebito, in violazione del principio di necessità di preventiva contestazione e di immutabilità della stessa, sanciti dall’art. 7 L. 300/70.
4. La censura presenta profili di inammissibilità.
S’impone, infatti, l’evidenza di una erronea sussunzione del vizio denunciato in questa sede di legittimità, nell’ambito del numero 3 dell’art. 360 cod. proc. civ.. Con la critica formulata, la ricorrente si duole in realtà, della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’ultrapetizione in cui sarebbe incorsa la sentenza di appello, prospettando, così, un vizio che avrebbe dovuto far valere ai sensi del numero 4 del medesimo art. 360 comma primo.
Sulla questione delibata, si sono espresse le Sezioni Unite di questa Corte che, con sentenza 24/07/2013 n.17931, hanno affermato il principio in base al quale il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione dì formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all’art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (in questi sensi, vedi anche Cass. 28/9/2015 n.19124 che stigmatizza le pronunce con le quali sia denunciata puramente e semplicemente la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” ai sensi dell’art. 112 c.p.c., senza alcun riferimento alle conseguenze che l’errore (sulla legge) processuale comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento).
Applicando detti principi alla fattispecie qui scrutinata, deve rilevarsi che il ricorrente, pur intendendo denunziare, per quanto rilevato, un vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata, non abbia fatto valere la nullità della decisione, limitandosi a prospettare tout court, un vizio di violazione di legge, così non sottraendosi il motivo ad un giudizio di inammissibilità.
6. Sotto altro versante, non può sottacersi che, secondo l’insegnamento di questa Corte, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza (e, quindi, anche in caso di ultrapetizione), la relativa censura deve essere proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito, e oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (vedi, per tutte: Cass. S.U. 22/5/2012, n. 8077).
L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone infatti che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (nei descritti termini, fra le altre, vedi Cass. 30/9/2015 n. 9410). Nello specifico, il motivo presenta innegabili carenze, non avendo la ricorrente riportato il tenore degli atti dai quali sarebbero desumibili i denunciati profili di novità dai quali sarebbe affetta la pronuncia impugnata.
7. Con il terzo motivo si denuncia omessa, insufficiente, contraddittoria valutazione di un punto decisivo della controversia nonché violazione o falsa applicazione degli artt.7 L. 300/70 e 2 L. 604/66. Ci si duole che la Corte distrettuale, muovendo da un presupposto erroneo, illogico e contraddittorio, abbia omesso di valutare che l’infrazione contestata al dipendente, complessivamente considerata, anche con riferimento al comportamento recidivante, giustificasse di per sé l’applicazione della sanzione espulsiva, per la sua gravità.
8. Il motivo va disatteso.
Il giudice del gravame, invero, ha pienamente valutato il comportamento addebitato al lavoratore, ritenendo che non rispondesse alla previsione contrattuale collettiva di riferimento, ed escludendo la considerazione di una eventuale recidiva ai fini della valutazione della gravità del comportamento e della congruità della sanzione inflitta, stante la genericità dei richiami ai pregressi comportamenti assunti dal lavoratore, contenuti nella lettera di contestazione.
Nel proprio incedere argomentativo, ha, quindi, richiamato i principi inerenti al tema della immodificabilità dei motivi di licenziamento derivante dall’art. 2 L. 604/66 applicabile alla fattispecie ratione temporis, per concludere sulla inammissibilità di alcuna idonea specificazione dei motivi da parte aziendale, nel corso del giudizio, “al cospetto della assoluta indeterminatezza dei precedenti disciplinari richiamati con la lettera di licenziamento”.
Detta statuizione non risulta oggetto di specifica censura da parte ricorrente – che si è limitata ad argomentare sulla erronea valutazione della gravità dell’inadempimento ascritto al dipendente, da parte della Corte di merito – onde la pronuncia, anche sotto tale profilo, resiste alle formulate censure.
9. Il ricorso va pertanto rigettato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, secondo la regola della soccombenza.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del d.P.R. n. 115/2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228/2012, art. 1, comma 17 e di provvedere in conformità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art 3,comma 1- quater, d.P.R. 115/2002, dichiara sussistenti i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13,comma 1-bis.
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