CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 ottobre 2020, n. 22212
Risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo – Lettera di convocazione – Procedura conciliativa – Termine
Fatti di causa
Il Tribunale di Milano rigettava il ricorso in opposizione proposto da T. s.p.a. nei confronti di S.S.A., avverso l’ordinanza emessa in fase sommaria con la quale era stata dichiarata la risoluzione del rapporto di lavoro inter partes e disposta condanna della società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte distrettuale adita dalla società soccombente, confermava tale decisione e condannava la società reclamante alla rifusione delle spese di lite liquidate in euro 4.000,00.
Il giudice del gravame osservava nel proprio iter motivazionale, che il thema decidendum involgeva la questione della ritualità della procedura disciplinata dall’art. 7 l. 604/1966 come modificato dall’art. 1 c. 40-41 l. 92 del 2012.
Con lettera 18/11/2016 pervenuta in pari data alla D.T.L. la società T. aveva infatti comunicato l’intenzione di risolvere il rapporto di lavoro con la dipendente per giustificato motivo oggettivo. La D.T.L. entro il termine di sette giorni previsto dal comma tre della richiamata disposizione, il 24/11/16 aveva spedito la lettera di convocazione, ricevuta tuttavia dalla T. il 29/11/2016, oltre il richiamato limite temporale. La società, non avendo ricevuto alcuna convocazione entro i sette giorni previsti ex lege, aveva quindi intimato il licenziamento con lettera inviata il 29/11/2016 e ricevuta il 3/12/2016.
La Corte distrettuale condivideva le argomentazioni formulate dal giudice di prima istanza a fondamento del decisum, alla cui stregua la D.T.L., entro il termine di sette giorni sancito dal comma terzo del novellato art.7 l. 604/1966, è tenuta solo ad inviare la convocazione, secondo la testuale previsione normativa. La Corte patrocinava, poi una interpretazione teleologica di detto terzo comma, valorizzando il precetto di cui al successivo comma sesto secondo cui la procedura conciliativa ha da concludersi entro venti giorni dal momento il cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione; assumeva, quindi, che nel primo termine di sette giorni deve avvenire solo la trasmissione di tale convocazione, mentre nell’arco temporale di venti, deve ritenersi ricompreso sia il termine per la ricezione della convocazione, sia quello entro cui l’incontro deve svolgersi.
Tale-opzione ermeneutica assicurava una adeguata tutela alla posizione della parte datoriale avverso la situazione di incertezza sulle sorti del licenziamento, mediante la fissazione di un termine ragionevolmente contenuto, evitando l’effetto che sarebbe scaturito dalla diversa interpretazione della disposizione offerta dalla società ricorrente, di porre esclusivamente a carico del lavoratore l’inerzia della D.T.L..
Avverso tale decisione la società interpone ricorso per cassazione affidato a tre motivi ai quali oppone difese la lavoratrice.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 7 l. 604 del 1966 e 1344 c.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c..
Si prospetta una esegesi del verbo “trasmettere” adoperato nella disposizione, da intendere in senso recettizio, di “far pervenire” e non di “inviare” la convocazione; in tale prospettiva, secondo la ricorrente, alla disposizione potrebbe riconoscersi una intrinseca ragionevolezza, consentendosi alla parte datoriale di avere certezza circa la effettività della attivazione della D.T.L.. Diversamente, non ricevendo la convocazione entro i sette giorni sanciti dall’art.7 comma 3, il datore di lavoro non avrebbe contezza né del tempestivo invio, né della possibilità di “procedere al licenziamento, così ponendo nel nulla il comma 6 dell’art.7 che invece trascorsi i 7 giorni senza convocazione, intende consentire al datore d procedere al licenziamento”…
2. Il motivo non è fondato.
Occorre preliminarmente osservare che la legge n.92 del 2012 ha innovato profondamente la disciplina dei licenziamenti individuali sul piano dei requisiti formali e procedurali, prevedendo una sorta di “microprocedimento preventivo” – così come definito in dottrina – di conciliazione obbligatoria, da esperirsi in sede amministrativa, in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Si tratta di una condizione di procedibilità ai fini della intimazione del licenziamento, nella logica di generalizzare il passaggio obbligato delle controversie attraverso i procedimenti conciliativi e mediativi, che è stata disegnata dal comma 40 dell’art. 1 legge n.92 del 2012 con il quale è stato ridefinito il testo dell’art.7 l. 604 del 1966.
Il tenore della disposizione è fortemente innovativo rispetto al passato, giacché viene introdotta l’obbligatorietà dell’esperimento della procedura (prima facoltativa); il soggetto proponente non è più il lavoratore (che poteva proporla entro 20 giorni dalla comunicazione del licenziamento), bensì la parte datoriale, in relazione al solo licenziamento per giustificato motivo oggettivo (mentre la formula previgente riguardava tutti i tipi di licenziamenti individuali).
Il potere datoriale di licenziare viene, dunque, procedimentalizzato, posto che la nuova procedura di conciliazione rappresenta un presupposto per l’intimazione dell’atto di risoluzione ancor prima della proposizione della domanda giudiziale, nella logica di sollecitare le parti ad incontrarsi per realizzare un accordo, prospettandosi nei termini che seguono:
1. Ferma l’applicabilità, per il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, dell’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’articolo 3, seconda parte, della presente legge, qualora disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore. 2. Nella comunicazione di cui al comma 1, il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. 3. La Direzione territoriale del lavoro trasmette la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta: l’incontro si svolge dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile. 4. La comunicazione contenente l’invito si considera validamente effettuata quando è recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o ad altro domicilio formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero è consegnata al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta.
3. Ancora, in via di premessa, è bene rammentare che l’art.12 delle preleggi, nel dettare i criteri legislativi di interpretazione, stabilisce che, nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso se non quello fatto palese dal “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e dalla “intenzione del legislatore”. L’interprete, in forza dei suddetti criteri, deve acquistare la conoscenza della determinazione legislativa, tenendo presente come, nell’espletamento della attività ermeneutica, occorra attenersi innanzitutto e principalmente al lato letterale.
Il primato dell’interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. 4/10/2018 n. 24165, Cass. 21/5/2004 n.9700, Cass. 13/4/2001 n.3495) secondo cui all’intenzione del legislatore, in base ad un’interpretazione logica, può darsi rilievo nell’ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione.
Alla stregua del ricordato insegnamento, l’interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.
Partendo da tali premesse, deve affermarsi che la Corte territoriale è pervenuta a corrette conclusioni giuridiche.
Come fatto cenno nello storico di lite, nel proprio incedere argomentativo, il giudice del gravame ha proceduto ad una disamina della disposizione muovendo dal dato letterale e giungendo al convincimento che il termine perentorio di sette giorni sancito dal comma terzo dell’art.7 I. 604/1966 come novellato dalla legge n.92/2012 decorresse dalla data di invio della convocazione per l’incontro innanzi alla commissione provinciale di conciliazione. L’esegesi della norma è aderente al tenore letterale della stessa e si collega con le proposizioni del successivo comma 6 secondo cui la procedura si conclude entro 20 giorni dal momento in cui la direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione dell’incontro (vedi , pag.5 della sentenza).
È stato infatti congruamente rimarcato che mentre nel primo termine di sette giorni deve avvenire solo la trasmissione (intesa nel senso etimologico di invio) “della convocazione da parte della D.T.L. … il successivo termine di 20 giorni comprende sia il termine per la ricezione della convocazione, sia quello entro cui l’incontro deve svolgersi”.
La dedotta interpretazione della disposizione, basata sull’enunciato criterio ermeneutico primario, si conforma, del resto, alla mens legis, che ha introdotto, per quanto innanzi detto, una procedimentalizzazione del potere della parte datoriale di recedere dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo, presupposto inderogabile per l’intimazione del licenziamento, prima ancora della proposizione della domanda giudiziale; tale funzione verrebbe indubbiamente frustrata, ove si accreditasse la tesi patrocinata da parte ricorrente giacché il licenziamento potrebbe essere intimato prima che un concreto tentativo di conciliazione abbia avuto possibilità di svolgersi, in tal modo ponendosi a carico del lavoratore incolpevole, l’eventuale inerzia della D.T.L.
In tal senso la statuizione oggetto di censura, conforme a diritto per quanto sinora detto, resiste alle censure all’esame.
4. Con il secondo motivo è denunciata violazione degli artt. 7 l.604 del 1966, 18 c.6 l.300/70 e 132 c.p.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c..
Ci si duole che il giudice del gravame abbia del tutto tralasciato di articolare una motivazione a sostegno della pronuncia di condanna al pagamento della indennità risarcitoria nella misura di dieci mensilità, ad onta dello specifico obbligo sancito dal precetto di cui al comma sesto dell’art.18 l. 300/70 (che specificamente prevede un “onere di specifica motivazione”); non potendo ritenersi significativa al riguardo, perché irrilevante, la circostanza enfatizzata dalla Corte dell’invio, da parte datoriale, della lettera di licenziamento il giorno stesso della ricezione della convocazione da parte della D.T.L.
5. Anche detto secondo motivo non è meritevole di accoglimento.
Va infatti rammentato che in materia di contenuto della sentenza, affinché sia integrato il vizio di “mancanza della motivazione” agli effetti di cui all’art. 132, n.4, cod. proc. civ., occorre che la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero che essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del “decisum”.
Questa enunciazione riassuntiva corrisponde a consolidato principio espresso dalla giurisprudenza della Corte, secondo cui la mancanza di motivazione, quale causa di nullità per mancanza di un requisito indispensabile della sentenza, si configura “nei casi di radicale carenza di essa, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la “ratio decidendi” (cosiddetta motivazione apparente), o fra di loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima in raffronto con le risultanze probatorie” (Cass. 18/9/2009 n.20112, Cass. S.U. 3/11/2016 n. 22232).
Orbene, nello specifico, al di là della non appropriata tecnica redazionale adottata, mediante la denuncia di un error in judicando con la quale si intenda, stigmatizzare una carenza che si traduca in errore sulla legge processuale senza alcun riferimento alle conseguenze che l’errore comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento (cfr. Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931, Cass. 28/9/2015 n. 19124), deve ritenersi che non trovi spazio l’ipotesi prospettata dalla ricorrente, di carenza motivazionale, secondo l’accezione definita dai ricordati arresti; la Corte distrettuale ha infatti confermato la entità della indennità risarcitoria già determinata dal giudice di prima istanza, tenuto conto del comportamento assunto dalla parte datoriale, che aveva inviato la comunicazione della lettera di licenziamento lo stesso giorno in cui aveva ricevuto la convocazione da parte della D.T.L..
La motivazione sulla questione oggetto di delibazione, non solo sussiste, ma risulta anche assistita da un sufficiente grado di specificità che soddisfa il requisito sancito dalla disposizione richiamata (comma 6 art.18 l. 300/1970) giacché fa riferimento ad un precipuo comportamento assunto dalla ricorrente in occasione della intimazione recesso.
6. Con l’ultimo motivo si prospetta violazione degli artt.92, 112 e 132 c.p.c. nonché del D.M. n.55/2014 in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c..
Si critica la sentenza impugnata per non aver disposto la compensazione delle spese di lite, stante la novità della questione delibata e l’incertezza interpretativa che la connota. Si deduce altresì che nella liquidazione la Corte di merito abbia violato i parametri di cui al richiamato decreto ministeriale del 2014.
7. Il motivo non è fondato.
In materia di spese processuali, è bene rammentare che l’identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, con l’unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (cfr. Cass. 16/6/2011 n.13229).
Sotto tale profilo la doglianza non si palesa meritevole di accoglimento, avendo la Corte di merito congruamente applicato il principio sancito dall’art.91 c.p.c. nell’interpretazione resa dalla costante giurisprudenza di legittimità; né possono essere considerati violati i dettami di cui al d.m. n.55/2014 richiamati dal ricorrente a sostegno della doglianza.
Ed invero, in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al d. m. n.55 del 2014, non sussistendo più il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari, i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le soglie numeriche di riferimento costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale; pertanto, il giudice è tenuto a specificare i criteri di liquidazione del compenso solo in caso di scostamento apprezzabile dai parametri medi, fermo restando che il superamento dei valori minimi stabiliti in forza delle percentuali di diminuzione incontra il limite dell’art. 2233, comma 2, c.c., il quale preclude di liquidare somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione (vedi Cass. 15/12/2017 n.30286).
Nello specifico, tenendo conto degli enunciati principi, deve ritenersi che la Corte di merito non sia incorsa nella dedotta carenza, considerato altresì l’evidente difetto specificità della censura, che non reca neanche indicazione della fascia tariffaria cui la liquidazione suggerita fa riferimento.
8. In definitiva, alla stregua delle sinora esposte considerazioni, il ricorso va respinto.La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1 co 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.