CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 ottobre 2021, n. 28166

Rapporto di lavoro – Mancata fruizione dei riposi giornalieri – Violazione da parte del datore di lavoro – Regime sanzionatorio

Fatti di causa

Con sentenza del 22 marzo 2017, la Corte d’Appello di Milano chiamata a pronunziarsi sul gravame avverso la decisione resa dal Tribunale di Lecco sull’opposizione proposta da C.S. (quale amministratore delegato di E. S.p.A e diretto responsabile) e E. S.p.A. (quale responsabile in solido) nei confronti del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali-Direzione territoriale del Lavoro di Lecco avverso l’ordinanza-ingiunzione da questa emessa a carico dei predetti in relazione alla violazione dell’art. 7, d.lgs. n. 66/2003, per non aver la Società consentito la fruizione di n. 780 riposi giornalieri, di 11 ore consecutive tra ogni turno di lavoro, in parziale riforma della predetta decisione, rideterminava in diminuzione la somma dovuta a titolo sanzionatorio;

La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto l’infondatezza dei denunciati vizi formali della procedura e dell’ordinanza-ingiunzione e nel merito sussistente l’irrogata violazione, inapplicabile il cumulo giuridico ma, comunque, da rideterminarsi l’importo della sanzione alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 153/2014, e correttamente effettuata tale rideterminazione, rimessa, per invito della Corte territoriale medesima, alla stessa Amministrazione convenuta, con applicazione degli artt. 9 R.d.l. n. 692/1923 e 27 l. n. 370/1934 in ragione di un terzo del massimo previsto. Per la cassazione di tale decisione ricorrevano il S. e la Società, affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resisteva, con controricorso, il Ministero del Lavoro e della Politiche sociali – Direzione territoriale del Lavoro di Lecco;

Fissata l’udienza di discussione in adunanza camerale i ricorrenti depositavano memoria.

Alla predetta udienza del 15.9.2020 il Collegio riteneva la non ricorrenza dei presupposti per la decisione della causa in camera di consiglio e rimetteva la causa sul ruolo per la pubblica udienza.

Nelle more il Pubblico Ministero faceva pervenire la propria requisitoria, concludendo per l’accoglimento del primo motivo di ricorso con assorbimento dei rimanenti

Ragioni della decisione

Con il primo motivo, i ricorrenti, nel denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 66/2003 come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. g) del d.lgs. n. 213/2004, lamentano la non conformità a diritto dell’applicabilità sancita dalla Corte territoriale delle norme sanzionatorie preesistenti alla declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni che le avevano novellate, nonostante la sopravvivenza della norma di cui alla novella che ne aveva disposto l’abrogazione;

Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 9, R.d.l. n. 692/1923 e 27 l. n. 370/1934 in una con il vizio di omessa motivazione, i ricorrenti ribadiscono la censura relativa alla non conformità a diritto dell’applicabilità riconosciuta dalla Corte territoriale delle norme sanzionatorie preesistenti alla declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni che le avevano novellate, tuttavia, questa volta, in relazione al contenuto precettivo delle predette norma.

Il terzo motivo, rubricato con riferimento alla violazione e falsa applicazione degli artt. 9 R.d.l. n. 692/1923 e 27 l. n. 370/1934 in una con il vizio di omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio, è inteso a denunciare l’incongruità logica e giuridica dell’operazione aritmetica di determinazione dell’importo della sanzione operata dalla Corte territoriale, importo non rispondente alla misura prevista dalle norme applicate pari al terzo del massimo edittale.

I primi due motivi, i quali, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, devono ritenersi infondati alla luce dell’orientamento accolto da questa Corte (cfr. Cass., ord. 9.11.2017, n. 26603 e Cass., ord, 13.5.2019, n. 12659) secondo cui, “a seguito della caducazione dell’art. 18 bis, commi 3 e 4, d.lgs. n. 66/2003, per effetto della sentenza della Corte costituzionale 4 giugno 2014, n. 153, per il principio della cd. reviviscenza normativa, trova applicazione la precedente disciplina sanzionatoria, di cui agli artt. 9, R.d.l. n. 692/1923 e 27, l. n. 370/1934, già abrogata dalla disposizione dichiarata incostituzionale” (così testualmente Cass. 26603/2017), conclusione cui “non osta il fatto che quest’ultima normativa sia stata abrogata espressamente, non dall’art. 18 bis, ma dall’art. 19 dello stesso d.lgs. n. 66/2003 (nel testo modifcato dall’art. 1, comma 1, lett. g) del d.lgs. n. 213/2004), disposizione quest’ultima non fatta oggetto della pronunzia di costituzionalità” (così ancora Cass. 26603/2017), e ciò, secondo quanto si legge ancora in Cass. 26603/2017, in quanto sussistono vari elementi esegetici che consentono di ritenere la sentenza della Corte costituzionale n. 153/2014 in toto abrogativa del sistema sanzionatorio introdotto dal d.lgs n. 66/2003, in particolare considerato che gli artt. 4, 7 e 9, comma 1, d.lgs. n. 66/2003, nella originaria formulazione, regolavano la materia dell’orario di lavoro e dei riposi giornalieri e settimanali senza prevedere specifiche sanzioni per la violazione di dette norme;

che tale silenzio del legislatore collegato con la direttiva della legge delega n. 39/2002 che, in materia sanzionatoria, imponeva il rispetto del rapporto di omogeneità del nuovo sistema sanzionatorio rispetto a quello previgente, induce a ritenere che il legislatore, nella specie, abbia inteso normare, implicitamente la materia sanzionatoria con riferimento al previgente sistema contenuto nel R.d.l. n. 692/1923 e nella legge n. 370/1934;

che, conseguentemente l’introduzione dell’art. 18 bis, d.lgs. n. 66/2003, che, invece, ha disciplinato espressamente la materia sanzionatoria, ha comportato, necessariamente, l’abrogazione della precedente normativa, atteso che il successivo art. 19, recante “disposizioni finali e deroghe”, ha previsto l’abrogazione di “tutte le disposizioni legislative e regolamentari nella materia disciplinata dal decreto legislativo medesimo, salve le disposizioni espressamente richiamate e le disposizioni aventi carattere sanzionatorio” e tale disposizione non è riferibile al previgente regime sanzionatorio, posto che nel regolamentare il nuovo regime sanzionatorio il legislatore riteneva che non fossero vigenti, al tempo, norme regolanti il sistema sanzionatorio.

E’ quanto emerge dal passaggio motivazionale della citata conto dell’errore in cui è incorso il legislatore che, come si sentenza della Corte costituzionale n. 153/2014, laddove si dà evincerebbe dalla consultazione degli atti parlamentari “ha riformato il sistema sanzionatorio nella erronea convinzione di poter intervenire liberamente per l’assenza di norme sanzionatorie precedenti”.

Di contro inammissibile si rileva il terzo motivo, stante la genericità della contestazione, che si limita a rilevare la non corrispondenza aritmetica tra il massimo edittale della sanzione e la dichiarata applicazione del terzo del massimo, senza tenere in alcun conto sia della inapplicabilità del cumulo giuridico sia della quintiplicazione delle sanzioni amministrative previste per il periodo 1.1.2007/24.6.2008 dall’art. 1, co. 1177, l. n. 296/2006.

Il ricorso va dunque rigettato, senza attribuzione delle spese per essere stato il controricorso tardivamente notificato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.