CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 settembre 2022, n. 27132
Pubblico impiego – Licenziamento – Appropriazione indebita di denaro – Termine per la conclusione del procedimento disciplinare – Decorrenza
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza n. 229 del 2019, ha rigettato il reclamo proposto da D.G.O. nei confronti del MIUR e dell’Ufficio scolastico regionale del Veneto, avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Treviso tra le parti che, decidendo sull’opposizione dell’Amministrazione che aveva impugnato l’ordinanza del Tribunale che aveva accolto l’impugnazione del licenziamento disciplinare proposta dal lavoratore, aveva confermato il licenziamento di quest’ultimo.
2. Il licenziamento era stato irrogato per avere il lavoratore posto in essere condotte dolose in danno dell’Amministrazione di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, in particolare per essersi appropriato, secondo le modalità di cui alla contestazione di addebiti, di denaro appartenente all’Amministrazione per un importo complessivo pari a euro 197.952,05. Il licenziamento decorreva dal 29 aprile 2014 (cioè dal giorno in cui veniva applicata al lavoratore la misura cautelare della sospensione del servizio).
3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore, prospettando tre motivi di impugnazione, assistiti da memoria.
4. Resistono con controricorso il MIUR e L’ufficio scolastico regionale per il Veneto.
5. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso, confermando tali conclusioni all’udienza pubblica.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 55-bis, quarto comma, del d.lgs. n. 165 del 2001, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Il ricorrente censura l’interpretazione data dalla Corte d’Appello alla suddetta disciplina, che regola i termini del procedimento disciplinare e, in particolare, la decorrenza dei termini per la contestazione e per la conclusione del procedimento disciplinare, laddove la Corte d’Appello – nel rigettare la censura relativa alla pretesa intervenuta decadenza della PA dal potere di irrogare la sanzione disciplinare in questione – in ragione del suddetto art. 55- bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, ha ritenuto che concreti elementi a carico del G.O. non venivano acquisiti dall’Amministrazione prima del 29 marzo 2014, non assumendo rilievi le deduzioni svolte dalla difesa del ricorrente in merito alla retrodatazione alla metà di febbraio il 2014 della presa di conoscenza dei fatti e della responsabilità del medesimo da parte della responsabile della struttura, non potendo il giudice rileggere retrospettivamente i fatti alla luce dell’emergenze successive per affermare che, già in un momento anteriore, l’Amministrazione disponeva di dati rilevanti idonei alla attribuzione di responsabilità al soggetto poi effettivamente incolpato degli stessi.
Il ricorrente, che a sostegno della propria difesa richiama la decisione del Tribunale di Treviso, rileva che la Corte d’Appello erroneamente ha affermato che per prima acquisizione della notizia di infrazione, da cui decorre il termine per la conclusione del procedimento disciplinare, non poteva intendersi la mera notizia del fatto nella sua oggettiva materialità, bensì che dovessero sussistere elementi concreti, non equivocabili, idonei a ricondurre la responsabilità del fatto ad una determinata persona, non bastando a suo carico elementi di sospetto.
Osserva, quindi, che l’art. 55-bis, comma 4, differenzia la decorrenza del termine per la conclusione del procedimento disciplinare da quello relativo alla contestazione che deve essere precisa e circostanziata.
Diversamente, l’interpretazione della Corte d’Appello ha fatto coincidere i due termini.
2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciato il vizio di omesso esame ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. Viene contestata la ricostruzione dei fatti e delle risultanze probatorie in ordine ai dati fattuali relativi alla prima acquisizione della notizia di infrazione.
3. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono in parte non fondati e in parte inammissibili.
3.1. L’art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo vigente ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 75 del 2017, sancisce “Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari ai sensi del comma 1, secondo periodo. Il predetto ufficio contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento secondo quanto previsto nel comma 2, ma, se la sanzione da applicare è più grave di quelle di cui al comma 1, primo periodo, con applicazione di termini pari al doppio di quelli ivi stabiliti e salva l’eventuale sospensione ai sensi dell’articolo 55-ter. Il termine per la contestazione dell’addebito decorre dalla data di ricezione degli atti trasmessi ai sensi del comma 3 ovvero dalla data nella quale l’ufficio ha altrimenti acquisito notizia dell’infrazione, mentre la decorrenza del termine per la conclusione del procedimento resta comunque fissata alla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. La violazione dei termini di cui al presente comma comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa”.
La giurisprudenza di legittimità, nell’applicare la suddetta disposizione, con orientamento consolidato pur nella modifica della norma, ha affermato che in tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (ex art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione; ciò vale anche nell’ipotesi in cui il protrarsi nel tempo di singole mancanze, pur da sole disciplinarmente rilevanti, integri una autonoma e più grave infrazione (Cass., n. 11635 del 2021, n. 21193 del 2018).
3.2. La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione di tali principi nella valutazione delle risultanze istruttorie.
Va rilevato, infatti, che la Corte d’Appello ha affermato che alla luce delle evidenze disponibili e di quanto riferito dalla dott.ssa D.P. nella denuncia querela del 2 aprile 2014 e nella successiva integrazione dell’8 aprile dello stesso anno, nonché da quanto dichiarato in sede di esame testimoniale, in data 30 gennaio 2018, era evidente che concreti elementi a carico del dirigente amministrativo G.O. non vennero acquisiti prima del 29 marzo 2014, non assumendo rilievo le deduzioni svolte dalla difesa del ricorrente in merito alla retrodatazione alla metà di febbraio del 2014 della presa di conoscenza dei fatti e della responsabilità del G. da parte della responsabile della struttura, non potendo il giudice rileggere retrospettivamente i fatti alla luce delle emergenze successive per affermare che già in un momento anteriore l’Amministrazione disponeva di dati rilevanti idonei alla attribuzione di responsabilità al soggetto poi effettivamente incolpato degli stessi.
Quindi il giudice di appello ha ripercorso i fatti in ragione degli atti e dei documenti disponibili e dell’istruttoria orale (pagg. 15-21 della sentenza di appello), rilevando che l’anomalia contabile costituiva l’input per approfondire il fatto che, solo all’esito delle verifiche effettuate il 29 marzo 2014, allorché il dirigente aveva potuto incrociare i dati relativi ad O.M. con quanto rinvenuto sulla scrivania del G.O., riscontrando una serie di pagamenti a favore di ben tre distinte O.M. con dati anagrafici diversi, risultate beneficiarie fittizie di mandati di pagamenti emessi dal DSGA con causali infedeli.
3.3. Va considerato che la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al vizio previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, cod. proc. civ., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, atteso che la deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., non consente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali, contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito.
È applicabile alla fattispecie l’art. 360, n. 5 cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” -, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di -sufficienza della motivazione, sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi. Tale vizio non è ravvisabile nella specie in ragione dell’argomentato e motivato esame delle risultanze istruttorie. Pertanto, l’accertamento in fatto, contenuto nella sentenza impugnata in ordine alla data di acquisizione della conoscenza di una notizia qualificata di infrazione da parte dell’UPD, riservato al giudice del merito (si v., Cass., n. 29230 del 2017, n. 19183 del 2016, n. 16900 del 2016, n. 14324 del 2015), non è stato contrastato dal ricorrente in conformità all’art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., nel testo, applicabile ratione temporis, con conseguente inammissibilità della censura.
4. Con il terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 95 del CCNL Comparto Scuola in relazione all’art. 2106, cod. civ., ed ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Il ricorrente, dopo aver ripercorso la disposizione contrattuale e i fatti di causa, contesta il giudizio di proporzionalità tenuto conto, in particolare, della intervenuta restituzione delle somme sottratte e della ragione che avevano dato luogo alla sottrazione, e cioè una grave patologia che richiedeva cure e interventi chirurgici all’estero.
5. Il motivo non è fondato.
Occorre ribadire che in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione di proporzionalità della sanzione è insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.
Ciò considerando che non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.
L’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità.
Nella specie, la Corte d’Appello (cfr., in particolare, pagg. 23 e 24 della sentenza), ha effettuato il giudizio di proporzionalità, rilevando che al ricorrente erano state contestate condotte gravissime per un pubblico funzionario e cioè l’appropriazione serialmente perpetrata nel corso di anni e anni di risorse pubbliche altrimenti destinate al funzionamento della scuola.
Si era quindi verificata la non riparabilità della frattura del nesso fiduciario tra il funzionario e l’Amministrazione datrice di lavoro.
Il giudice di appello ha preso in esame l’appropriazione serialmente perpetrata nel corso degli anni di risorse pubbliche rilevando come la stessa costituiva una condotta idonea a ledere il vincolo fiduciario, e in relazione a ciò ha dedotto l’irrilevanza delle ragioni addotte dal lavoratore, in particolare: la mancanza di precedenti disciplinari, atteso che i fatti attestavano che solo in quanto aveva occultato l’agire illecito non era incorso in precedenti sanzioni; l’esistenza di gravi patologie necessitanti cure mediche, in quanto quest’ultime non potevano costituire esimente dell’illiceità penale e disciplinare; la restituzione della somma, in quanto la stessa non faceva venir meno la cesura del vincolo fiduciario.
Tale statuizione, la cui sindacabilità in sede di legittimità incontra i limiti già sopra esposti al punto 3.3., ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati relativi al vaglio di proporzionalità della sanzione disciplinare, ed è coerente con le indicazioni del CCNL (art. 95).
6. Il ricorso deve essere rigettato.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
8. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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