CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 aprile 2021, n. 10025

Licenziamento collettivo – Ristrutturazione aziendale – Fungibilità delle mansioni tra il dipendente addetto al reparto soppresso e gli altri dipendenti assegnati a settori o reparti non coinvolti dalla procedura di riduzione di personale – Prova

Fatti di causa

1. Con sentenza pubblicata in data 10 settembre 2018 la Corte di Appello di Venezia, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato la legittimità del licenziamento intimato dalla T. Spa all’Ing. M. il 25 marzo 2016 nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.

2. La Corte ha innanzitutto rilevato che l’individuazione del M. era stata effettuata in modo coerente rispetto alla scelta aziendale di delimitare l’ambito delle eccedenze di personale alle “attività dirette non operative” e, quindi, “primariamente nei settori connessi alla logistica, alle mansioni  segretariati ed a quelli più strettamente amministrativi”; infatti non era in discussione, “neppure dallo stesso reclamato”, “il suo ruolo di responsabile del QuAS (Qualità, Ambiente e Sicurezza) e dell’effettività di tale compito”. Poiché tale servizio era stato soppresso ed il M. era al medesimo adibito – secondo la Corte – la questione dello svolgimento, da parte dell’ingegnere, di attività operative anche presso l’Ufficio Acquisti, non coinvolto dalla riduzione di personale, risultava priva di rilievo decisivo, così come la prevalenza di un incarico rispetto all’altro.

Inoltre la Corte territoriale ha rilevato “che nessuna deduzione è svolta con riguardo all’altro personale di qualsiasi livello o settore”, richiamando a sostegno quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale: “In tema di licenziamento collettivo per riduzione del personale, ove la ristrutturazione della azienda interessi una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l’individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, salvo l’idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti della azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l’onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni”. Argomenta quindi la sentenza che “lo svolgimento di attività operative dell’Ingegner M. poteva entrare in gioco solo in un momento successivo, ossia in sede di verifica della sua eventuale fungibilità con le mansioni di altro personale in esubero, ma come si è appena scritto rispetto a tale gruppo di dipendenti nulla è stato allegato”.

Pertanto “la circostanza che M. svolga un ruolo anche nell’Ufficio Acquisti, non rientrante tra quelli in esubero, non rileva, proprio perché non è messo in discussione che tra gli esuberi dovessero essere ricompresi gli addetti all’Ufficio Acquisti e Approvvigionamenti”. In ogni caso, per la Corte di Appello di Venezia, “anche volendo sostenere il contrario”, non vi era margine per la comparazione del M. con gli altri addetti dell’Ufficio Acquisti, atteso che la responsabile era in gravidanza, altra dipendente apparteneva alle categorie protette ed altra ancora rivestiva un inquadramento inferiore a quello del reclamato, il quale in proposito non aveva svolto alcuna deduzione.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso G.M. con unico articolato motivo; ha resistito con controricorso T. Spa.

Ragioni della decisione

1. Il motivo di ricorso è rubricato: “Art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., – violazione e/o falsa applicazione della legge n. 223/1991”. Si denuncia l’errore della Corte di Appello “nel non aver attribuito rilevanza all’Accordo Sindacale sottoscritto nel corso della procedura di licenziamento collettivo, datato 13 gennaio 2016, nella parte in cui vengono espressamente richiamati i criteri di scelta previsti dall’art. 5 I. n. 223/1991”. Si rammenta che, nella lettera di apertura della procedura, non erano stati ravvisati dalla società profili eccedentari nell’ambito della Funzione Acquisti, in quanto settore svolgente un’attività di tipo operativo. Si deduce che sarebbe stato “documentalmente provato” che il “il M. svolgeva una rilevante funzione operativa (e, pertanto, non eccedentaria) nell’ambito dell’Ufficio Acquisti”, come confermato anche da testimoni. Si critica la sentenza impugnata per aver completamente obliterato la fungibilità delle mansioni del M. con quelle degli altri lavoratori impiegati nell’Ufficio Acquisti, settore non eccedentario. Nel rispetto dei criteri di ragionevolezza e buona fede, a dire del ricorrente, la T. “avrebbe dovuto mantenere l’Ing. M. in tale funzione, oppure motivare ed esplicitare le ragioni tecnico-organizzative per cui aveva ritenuto di non comparare la professionalità con quella degli altri addetti alla medesima funzione, fornendo una graduatoria basata sull’analisi dei criteri di scelta in paritario concorso tra loro”; il che la società non avrebbe fatto “addirittura assegnando all’Ufficio Acquisti un lavoratore diverso e privo di esperienza nel settore: la Sig.ra V.”.

2. Il motivo non può trovare accoglimento.

Oltre i profili di inammissibilità nella formulazione del motivo eccepiti da parte controricorrente, relativi alle modalità di deduzione della violazione di legge (che non è tale quando si critichi la valutazione delle risultanze istruttorie) ed alla mancata specificazione del contenuto dei documenti posti a fondamento della censura, chi ricorre non si misura adeguatamente con le ragioni poste a fondamento del decisum della Corte territoriale.

Infatti, come riportato nello storico della lite, nella sentenza impugnata si afferma esplicitamente che dal M. non era stata svolta alcuna deduzione con riguardo ad altro personale, “di qualsivoglia settore o livello”, con cui si sarebbe dovuta effettuare la comparazione, rammentando poi l’orientamento di legittimità secondo cui grava sul lavoratore l’onere di allegare e provare la fungibilità delle mansioni tra il dipendente addetto al reparto soppresso e gli altri dipendenti assegnati a settori o reparti non coinvolti dalla procedura di riduzione di personale.

Rispetto a tale assunto parte ricorrente non indica adeguatamente in quale atto processuale e con quali contenuti avrebbe posto la questione della comparazione della propria posizione in azienda rispetto ad altro personale con compiti che egli stesso era in grado di svolgere in piena fungibilità.

Inoltre il M. non censura in modo adeguato neanche l’altra autonoma ratio decidendi che sorregge la decisione e cioè quella secondo cui, in ogni caso, alcuna comparazione utile avrebbe potuto essere effettuata con gli altri dipendenti dell’Ufficio acquisti, perché/la responsabile era in gravidanza, altra dipendente apparteneva alle categorie protette ed altra ancora rivestiva un inquadramento inferiore a quello del reclamato, il quale in proposito non aveva svolto alcuna deduzione.

A prescindere dalla fondatezza di tale rilievo della Corte veneta, è noto che, per pacifica giurisprudenza, qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo dictum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossi con l’impugnazione comporta che la decisione deve essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurata privando in tal modo l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del 2001; Cass. n. 24540 del 2009).

3. Conclusivamente il ricorso va rigettato, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in euro 5.250,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.