CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 febbraio 2019, n. 4576
Tributi – IRAP – Esercizio della funzione di direttore generale dell’A.S.L. – Rapporto di diritto privato – Lavoro autonomo – Assenza di autonoma organizzazione – Rimborso dell’imposta pagata – Legittimità
Fatti di causa
1. Il contribuente M.A.L., esercitando la professione di cui al codice delle attività economiche relativo ai servizi forniti da revisori contabili, periti, consulenti ed altri soggetti che svolgono attività in materia di amministrazione, contabilità e tributi, – ha presentato all’Agenzia delle Entrate domanda di rimborso dell’importo indebitamente versato, a titolo di imposta regionale sulle attività produttive, per gli anni d’imposta dal 2001 al 2003, in relazione ai compensi percepiti quale direttore generale dell’A.S.L. di Terni e quale membro dei collegi sindacali di alcune società commerciali, deducendo di non essersi avvalso per le sue attività di personale dipendente e di possedere una minima dotazione di beni strumentali, necessaria e destinata esclusivamente alla tenuta della propria contabilità ed al necessario aggiornamento professionale, ed assumendo pertanto l’insussistenza del presupposto necessario dell’imposta, costituito dall’autonomia organizzativa della sua attività, diretta alla prestazione di servizi.
2. Avverso il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza, il contribuente ha proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Macerata, che lo ha accolto limitatamente ai rimborsi richiesti per gli anni d’imposta 2002 e 2003, dichiarando la litispendenza per l’anno d’imposta 2001, oggetto già di altro ricorso e di precedente pronuncia della Commissione tributaria regionale delle Marche.
3. L’Agenzia delle Entrate ha quindi proposto appello, contro la decisione di primo grado, dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Marche, che lo ha respinto con la sentenza n.48/01/12, depositata il 12 aprile 2012, compensando le spese di lite;
4. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per la cassazione della predetta sentenza di secondo grado, articolando due motivi:
4.1. con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 3, cod. proc. civ., violazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 2 e 3 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, istitutivo dell’ IRAP; all’art. 2222 cod. civ., che disciplina il contratto di lavoro autonomo; ed all’art. 1, comma 7, d.P.C.m. 19 luglio 1995, n. 502 (Regolamento recante norme sul contratto del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere), il quale, relativamente al contratto del direttore generale delle A.S.L., stabilisce che « Per quanto non previsto dall’art. 3 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, e dal presente decreto si applicano gli articoli 2222 e seguenti del codice civile».
4.1.1. Lamenta infatti la ricorrente che il giudice a quo, nel ritenere insussistente l’autonomia organizzativa, non abbia valutato ed argomentato congruamente con riferimento alla specifica natura delle attività del contribuente, ed in particolare con l’esercizio della funzione di direttore generale dell’A.S.L., da qualificarsi come rapporto di diritto privato, privo dei requisiti sia della subordinazione che della parasubordinazione, e quindi da ritenersi lavoro autonomo, come tale assoggettabile all’IRAP.
4.2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 5, cod. proc. civ., l’insufficiente motivazione in ordine all’asserita insussistenza dell’autonoma organizzazione.
5. Resiste con controricorso il contribuente, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza dei motivi dedotti dalla ricorrente.
6. Il contribuente propone altresì ricorso incidentale, condizionato all’accoglimento del ricorso principale, affidato a tre motivi, sostanzialmente riconducibili ad un’unica censura, formulata ai sensi sia dell’art. 360, comma 1, num. 4, cod. proc. civ., che ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 2, cod. proc. civ., e consistente nell’avere il giudice a quo deciso nel merito anche relativamente a contestazioni, allegazioni ed eccezioni, pertinenti l’accertamento del presupposto dell’autonoma organizzazione, tardivamente proposte dall’Agenzia delle Entrate per la prima volta con l’atto d’appello, senza previamente pronunciarsi sull’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’appellato e senza rilevare d’ufficio la tardività di tali deduzioni dell’appellante.
7. Il controricorrente, ricorrente in via incidentale, ha presentato memoria ex art. 378 c.p.c.
8. Il Pubblico Ministero ha depositato requisitoria scritta.
Ragioni della decisione
1. Giova premettere alla trattazione del primo motivo del ricorso principale la sintetica ricostruzione degli elementi costitutivi del presupposto d’imposta dell’ IRAP, come dettati dal legislatore ed interpretati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, in particolar modo con riferimento a fattispecie, come quella sub iudice, nelle quali l’attività dell’eventuale soggetto passivo dell’imposizione viene espletata a favore di un soggetto terzo già dotato di una propria struttura organizzativa e deve coordinarsi con quest’ultima.
1.1. L’ art. 2 d.lgs. n. 446/1997 stabilisce che il presupposto dell’ IRAP, già definita dall’art. 1 come imposta a carattere reale, è «l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi.».
1.2. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 156 del 21 maggio 2001, ribadito che l’IRAP non è un’imposta sul reddito, bensì un’imposta di carattere reale che colpisce il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, ha rilevato che mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui, con la conseguente inapplicabilità dell’imposta, per difetto del suo necessario presupposto, l’autonoma organizzazione, il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto, rimessa pertanto al giudice di merito.
1.3. Cass., Sez.U., 10/05/2016, n. 9451 (in continuità con Cass., Sez.U., 12/5/2009, n. 12108, ma specificando ulteriormente i requisiti dell’impiego del lavoro altrui), ha chiarito i parametri alla cui stregua la questione di fatto deve essere valutata: «con riguardo al presupposto dell’IRAP, il requisito dell’autonoma organizzazione – previsto dall’art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 446 -, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive».
1.4. Questa Corte, infine, con specifico riguardo alla fattispecie nella quale l’attività dell’eventuale soggetto passivo dell’imposizione viene espletata a favore di un soggetto terzo già dotato di una propria struttura organizzativa e deve coordinarsi con quest’ultima, ed in particolare con riferimento all’ipotesi del commercialista che operi quale sindaco o come amministratore di società, ha elaborato i seguenti principi (già richiamati in parte anche da Cass. 17/2/2016, n. 4246 e da Cass. 19/7/2016, n. 19327):
1.4.1. «non ha diritto al rimborso dell’IRAP il commercialista che, nello svolgimento dell’attività di sindaco, utilizza beni strumentali in misura eccedente il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale» (Cass. 19//7/2011, n. 15803/11, in motivazione);
1.4.2. «il libero professionista, che opera come amministratore di società o presidente del consiglio di amministrazione, non va soggetto all’IRAP per la parte di ricavo netto che risulta da quelle attività, soltanto se adempie alla funzione senza ricorrere ad un’autonoma struttura organizzativa» (Cass. 29/1/2009, n. 4959, in motivazione);
1.4.3. «In tema d’IRAP, non realizza il presupposto impositivo l’esercizio dell’attività di sindaco e di componente di organi di amministrazione e controllo di enti di categoria, che avvenga in modo individuale e separato rispetto ad ulteriori attività espletate all’interno di un’associazione professionale, senza ricorrere ad un’autonoma organizzazione» (Cass. 29/09/2016, n. 19327);
1.4.4. «In tema di IRAP, il commercialista che sia anche amministratore, revisore e sindaco di una società non soggiace all’imposta per il reddito netto di tali attività, in quanto è soggetta ad imposizione fiscale unicamente l’eccedenza dei compensi rispetto alla produttività auto-organizzata; il che non si verifica nella specie, atteso che per la soggezione all’IRAP non è sufficiente che il commercialista normalmente operi presso uno studio professionale, atteso che tale presupposto non integra, di per sé, il requisito dell’autonoma organizzazione rispetto ad un’attività rilevante quale organo di una compagine terza» (Cass. 03/07/2017, n. 16372);
1.4.5. «il dottore commercialista che svolga anche attività di sindaco e revisore di società non soggiace ad IRAP per il reddito netto di tali attività, in quanto soggetta ad imposizione è unicamente l’eccedenza dei compensi rispetto alla produttività auto-organizzata (Cass. 16372/2017 Rv. 644928), fermo l’onere del contribuente di provare la separatezza dei redditi di cui predica lo scorporo (Cass. 3434/2012 Rv. 621930)» (Cass. 14/3/2018, n. 12052, in motivazione).
1.5. Traendo quindi le conclusioni da tali premesse, deve ritenersi che anche nell’ipotesi in cui il professionista eserciti la propria attività nell’ambito di strutture organizzative altrui, ed in particolare quale organo di una compagine terza, la sussistenza, o meno, del presupposto dell’imposta sulle attività produttive dipende dall’accertamento, in fatto, dell’esistenza di un’autonoma struttura organizzativa, che faccia capo allo stesso professionista ed alla quale egli faccia ricorso per adempiere a tale funzione. Non vi è, dunque, nessun necessario automatismo che, in conseguenza dell’esercizio dell’attività di titolare di cariche organiche di compagini terze, esoneri inevitabilmente dall’imposizione il professionista, sul quale grava invece, pacificamente (Cass. 11/04/2017, n. 9325), rispetto alla domanda di rimborso dell’i.r.a.p. già versata ed asseritamente non dovuta, l’onere di provare l’assenza del presupposto d’imposta, ovvero dell’autonoma organizzazione.
2. Venendo quindi all’esame del primo motivo del ricorso principale, deve ritenersi che la sentenza della CTR impugnata, in punto di diritto, non si è discostata da tale orientamento, atteso che – dopo aver richiamato Corte cost. n. 156 del 21 maggio 2001, oltre a precedenti di legittimità – ha proceduto, nel caso di specie, «[…] all’accertamento della esistenza o meno di una certa organizzazione avente caratteri ulteriori (quid pluris) rispetto all’apporto personale del professionista». Né peraltro, con riguardo all’imputazione dell’onere della prova, il giudice a quo ha formulato affermazioni contrastanti con i principi richiamati, avendo rilevato la carenza della prova contraria, da parte dell’Agenzia delle entrate, solo dopo aver dato atto che l’istruttoria, con il contributo del controricorrente, aveva comunque escluso la sussistenza degli elementi di fatto costitutivi di un’autonoma organizzazione, con specifico riferimento alle strutture nelle quali veniva prestata l’attività, agli immobili destinati o meno a studi professionali del contribuente ed agli altri beni strumentali adoperati da quest’ultimo.
2.1. Tanto meno la sentenza impugnata, come ha invece sostenuto la ricorrente, ha integrato un errore di diritto nella parte in cui ha qualificato come para su bordi nato il rapporto intercorso tra il contribuente, quale direttore generale dell’A.S.L. di Terni, e quest’ultima compagine. Invero (dato atto che, sia pure per finalità di disciplina attinenti l’applicabilità del rito lavoristico e la relativa competenza territoriale, quindi assolutamente diverse da quelle qui rilevanti, analoga qualificazione si rinviene in Cass. 24/03/2004, n. 5941), nella soluzione in diritto della controversia offerta dalla CTR l’inquadramento del rapporto de quo come parasubordinato costituisce un obiter dictum neutrale, dal quale non viene fatta derivare né l’inclusione dei relativi compensi tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, di cui all’art. 47, comma 1, lett. c-bis), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, applicabile ratione temporis («le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione agli uffici di amministratore, sindaco o revisore di società, associazioni e altri enti con o senza personalità giuridica, alla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili, alla partecipazione a collegi e commissioni, nonché quelli percepiti in relazione ad altri rapporti di collaborazione aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita, sempreché gli uffici o le collaborazioni non rientrino nei compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro dipendente di cui all’articolo 46, comma 1, concernente redditi di lavoro dipendente, o nell’oggetto dell’arte o professione di cui all’articolo 49, comma 1, concernente redditi di lavoro autonomo, esercitate dal contribuente»), né comunque l’automatica inapplicabilità dell’ IRAP. Infatti, anche per l’attività di Direttore generale, il giudice a quo, ha comunque premesso la necessità di accertare in fatto la sussistenza, o meno, dell’autonoma organizzazione del contribuente, procedendo alla relativa verifica «sulla base della documentazione in atti», conclusione che quindi presuppone necessariamente l’implicita riconduzione, quanto meno per connessione , della stessa attività e dei suoi compensi ai redditi di lavoro autonomo che derivano dall’esercizio di arti e professioni, di cui all’art. 49, comma 1, d.P.R. n. 917/1986, e comunque all’esercizio abituale di un’ attività diretta alla prestazione di servizi, da sottoporre all’ IRAP, ai sensi degli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 446/1997, ove, in concreto, risulti autonomamente organizzata.
2.2. Pertanto, una volta escluso che la decisione impugnata abbia negato il presupposto dell’IRAP in base all’ astratta qualificazione dell’attività del contribuente come parasubordinata, deve escludersi che l’ipotetica erroneità di tale qualificazione abbia potuto determinare un errore di diritto in ordine all’applicabilità o meno della stessa imposta al caso di specie.
2.3. Neppure potrebbe ritenersi – come la ricorrente principale invero si limita «a segnalare, in via incidentale» nell’ambito del primo motivo di ricorso – che il giudice a quo abbia errato in diritto per non aver verificato l’assolvimento, da parte del contribuente, dell’onere di provare la separabilità del reddito netto ricavato dalle attività di direttore generale dell’A.S.L. e di sindaco di società terze, asseritamene esente dall’ IRAP, dai compensi ottenuti nell’esercizio della professione, soggetti invece all’imposta sulla produttività auto-organizzata. Infatti, come risulta dall’ atto d’appello trascritto nel ricorso, oltre che dalla sentenza impugnata, l’Agenzia delle Entrate, in punto di fatto, ha attribuito al contribuente le sole predette attività di direttore generale dell’A.S.L. e di sindaco di società terze, lamentando che il giudice del primo grado non aveva valutato anche la seconda, come ha fatto poi la CTR. Né peraltro, in questa sede, la ricorrente ha specificato in quale atto, e di quale grado, la circostanza di fatto dell’esercizio effettivo di un’ulteriore attività professionale esterna del contribuente sarebbe stata introdotta (cfr. Cass. 13/06/2018, n. 15430, secondo la quale, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla S.C. di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione). Pertanto, come eccepito dal controricorrente, l’imputazione, in questa sede, al contribuente di un’attività ulteriore ed esterna di libero professionista (che non può coincidere con la mera tenuta della propria contabilità, cui si riferisce la sentenza impugnata) è inammissibile e, comunque, non può determinare l’erroneità in diritto della sentenza di merito che non l’abbia presa in considerazione.
2.4. Ogni ulteriore argomentazione, contenuta nel primo motivo di ricorso, esula dalla formulazione del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, senza avere i requisiti di specificità necessari per integrare la deduzione di un vizio della motivazione (dedotto invece dalla ricorrente nel secondo motivo e con riferimento a due specifici aspetti della ricostruzione del fatto), sollecita piuttosto una diversa valutazione delle risultanze probatorie, e quindi dei fatti controversi, in questi termini non ammissibile in questa sede di legittimità.
2.5. Il primo motivo del ricorso principale, quindi, va respinto.
3. È inammissibile il secondo motivo, che censura, ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 5, cod. proc. civ. (nella versione, applicabile ratione temporis, antecedente la novella operata dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) l’asserita insufficiente motivazione della sentenza impugnata in ordine all’insussistenza dell’autonoma organizzazione, con specifico riferimento alle valutazioni relative agli elementi di fatto costituiti dagli immobili destinati o meno a studi professionali del contribuente ed agli altri beni strumentali adoperati da quest’ultimo.
3.1. Infatti, i primi tre periodi della formulazione del motivo non sono coerenti con il contenuto della sentenza impugnata, sembrano riferiti ad altra fattispecie sostanziale e, comunque, non concorrono a specificare il senso della censura descritta nella relativa rubrica. Per il resto, la formulazione del motivo contiene la riaffermazione di principi giurisprudenziali, relativi al presupposto dell’imposta ed al suo accertamento, esposti senza un concreto riferimento alla fattispecie concreta sub iudice ed alla motivazione criticata, ed a loro volta irrilevanti al fine di illustrare la pretesa insufficienza di quest’ultima.
3.2. Un riferimento inequivoco alla motivazione della sentenza impugnata si rinviene solo nella parte finale della formulazione del motivo, nella quale si legge: «La Commissione Tributaria Regionale di Ancona non ha dunque esaminato le asserzioni di controparte circa la pluralità di studi professionali ed il valore ed il numero dei beni strumentali, non esplicando l’iter logico a sostegno della propria decisione». Tuttavia, tale formulazione, generica, non è idonea a specificare il contenuto effettivo della censura, in quanto è priva di riferimento effettivo alla motivazione esplicitata dal giudice a quo sui punti in questione.
3.3. In particolare, per quanto riguarda gli immobili che dovrebbero coincidere con studi professionali a disposizione del contribuente, la CTR ha motivato riferendosi ad un cambio di residenza del contribuente ed alle condizioni di inagibilità e fatiscenza di uno degli immobili, argomentazioni fattuali che la ricorrente non ha sottoposto a specifica critica, al fine di dimostrarne l’insufficienza al fine di contribuire all’accertamento dell’inesistenza dell’autonoma organizzazione.
3.4. Anche per quanto attiene i beni strumentali utilizzati dal contribuente, il secondo motivo di ricorso non contiene una critica specifica della loro valutazione, argomentata dal giudice a quo, per quanto sinteticamente, con riferimento alla loro consistenza di dotazione minima indispensabile per l’esercizio delle attività professionali in questione, e quindi con un apprezzamento che, attingendo la relazione funzionale tra i beni strumentali e le stesse attività, non può definirsi insufficiente sulla base delle mere considerazioni, attinenti «il valore ed il numero dei beni strumentali», esposte nel secondo motivo di ricorso.
3.5. Deve inoltre considerarsi che gli immobili ed i beni strumentali – dati fattuali rispetto ai quali è circoscritto il motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, num. 5, cod. proc. civ. – concorrono tra loro, e con le altre caratteristiche delle attività del contribuente, a determinare la ricorrenza, o meno, dell’autonoma organizzazione, presupposto dell’imposta. Pertanto, l’insufficienza delle parti della motivazione criticata, la concreta rilevanza decisiva dei fatti che ne sono oggetto e l’ipotetica valenza determinante di dati eventualmente non specificamente considerati dal giudice a quo, avrebbero necessariamente richiesto l’estensione analitica della censura alla motivazione con riferimento a tutti gli elementi fattuali che concorrono a determinare l’autonoma organizzazione, ed alla loro reciproca relazione, ciò che è mancato nella formulazione del secondo motivo (che apoditticamente assume che «le indicazioni emergenti dagli studi di settore e dal quadro RE delle dichiarazioni dei redditi presentata dal contribuente comprovano l’esistenza del requisito dell’autonoma organizzazione»).
4. Il ricorso incidentale del controricorrente, condizionato all’accoglimento del ricorso principale, è assorbito dal rigetto del ricorso principale.
5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
6. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dal l’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1 – quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo del ricorso principale;
dichiara inammissibile il secondo motivo del ricorso principale.
Dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della contro ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
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