CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 gennaio 2019, n. 829
Licenziamento disciplinare – Superiore inquadramento – Diritto – Accertamento – Prova degli ammanchi di cassa
Rilevato
Che la corte d’appello di Roma con sentenza 21.12.2016 ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma che aveva respinto la domanda di S.C., dipendente della società A. SpA, poi L.F.S. SRL, diretta a far accertare l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli il 14.7.2011, con condanna della società alla reintegrazione, nonché a far accertare il diritto al superiore inquadramento per aver svolto mansioni corrispondenti a quelle di quadro B o, in subordine di 1^ o 2^ livello CCNL Pubblici Esercizi, infine ad accertare il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale subito a causa del licenziamento ingiurioso, con relative condanne.
Che la corte romana ha ritenuto che fossero state provate le contestazioni relative ad ammanchi di cassa riscontrati dalla datrice di lavoro e addebitati al dipendente C., responsabile del punto vendita presso Fiumicino con funzioni anche di custodia e gestione del fondo cassaforte moneta spiccia, di cui deteneva l’unica chiave, oltre alla chiave di un fondo cassa direzione, da lui detenuta insieme ad altri responsabili del punto vendita.
Che in particolare la corte di merito ha ritenuto che non vi fosse stata violazione dell’art. 7 legge n. 300 per mutamento dei fatti contestati rispetto ai motivi espressi nella lettera di licenziamento, atteso che la contestazione era sufficientemente specifica nell’aver addebitato al dipendente la responsabilità dell’ammanco di cassa ammontante ad euro 2309,00 – perché a lui andava comunque addebitato tale evento, se non doloso comunque connotato da una colpa talmente grave da far ricondurre l’addebito esclusivamente alla sua persona, atteso che anche dalle risultanze istruttorie era emerso che il C. era comunque l’unico dipendente a gestire tale cassa, sebbene non avesse di fatto mansioni di cassiere.
Che non poteva ravvisarsi quindi una mancata difesa, non essendo mutato nella lettera di licenziamento il fatto addebitato.
Che la corte territoriale ha poi ritenuto inammissibile, in quanto avente ad oggetto questione nuova, il motivo di appello secondo cui vi sarebbe stato un inadempimento della società appellata la quale non aveva garantito al lavoratore di svolgere le mansioni in condizioni operative ottimali, stante la situazione di promiscuità che si veniva a creare nel locale dove era posizionata la cassaforte. Per la corte le censure sollevate dal lavoratore si incentravano sostanzialmente sul difetto di proporzionalità della sanzione.
Che pertanto, anche escludendo che all’ammanco fosse seguita l’indebita appropriazione da parte di dipendente del denaro, il grado di colpa era talmente grave in termini di negligenza, da poter ledere la fiducia della datrice di lavoro ai sensi dell’art. 2119 c.c.
Che in sostanza il richiamo all’art. 183 1^ comma lettera a e 5^ comma lettera, era sufficiente per ritenere che anche la negligenza poteva integrare la giusta causa di licenziamento, senza la necessità di una condotta di natura dolosa.
Che i giudici d’appello hanno poi ritenuto che le mansioni del C. fossero tali da non potersi considerare neanche riconducibili al secondo livello e che non vi erano gli estremi del licenziamento ingiurioso, il quale presuppone un fatto illecito di fonte extracontrattuale.
Che avverso la sentenza ricorre per cassazione C. con cinque motivi, a cui oppone difese con contro ricorso L.F.S. srl, illustrato poi da memoria.
Considerato
Che i motivi di ricorso hanno riguardato:
1) La violazione dell’art. 7 legge n. 300/70 e dell’art. 2119 c.c. per violazione del divieto di mutamento dei motivi oggetto di contestazione: la corte distrettuale non avrebbe applicato il principio dell’immutabilità dei motivi di licenziamento i quali devono essere fondati sui soli fatti contestati e per i quali il lavoratore si è difeso. La contestazione disciplinare aveva avuto ad oggetto non solo l’ammanco del danaro ma anche la sua appropriazione indebita da parte del lavoratore, quindi una condotta grave costituita da questi due aspetti collegati, così che l’addebito reale, ossia l’atto determinativo del predetto ammanco risiedeva nell’appropriazione indebita.
2) La violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 7 legge n. 300 cit., in relazione all’art. 360 c. 1, n. 3 c.p.c., per insussistenza della violazione di specifici addebiti contrattuali gravanti sul lavoratore, in quanto nella contestazione non sarebbero stati indicati i precisi obblighi contrattuali che questi avrebbe violato, avendo peraltro la società richiesto prestazioni lavorative-operazioni di gestione di cassa – che non rientravano nel livello di inquadramento del C.
3) L’omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c. 1, n. 4 c.p.c.): la sentenza impugnata non avrebbe esaminato un preciso motivo di gravame, erroneamente individuato dalla corte di merito e ritenuto inammissibile perché avente ad oggetto una questione – relativa alla sussistenza di un inadempimento della società per aver fatto svolgere al C. un lavoro così delicato in condizioni estremamente disagiate dell’ambiente lavorativo – introdotta per la prima volta in appello. Secondo il ricorrente, invece, nel ricorso ex 414 c.p.c. era stato articolato uno specifico motivo di impugnazione del licenziamento con riferimento alla non imputabilità degli addebiti in ragione della rilevanza delle circostanze concrete dell’ambiente di lavoro che escludevano una concreta esigibilità della prestazione. Tale motivo di impugnazione, respinto da tribunale, era stato poi ritualmente riproposto come motivo di appello, con richiamo alla violazione degli artt. 1218, 1206, 1256 e 2104 c.c., con imputabilità alla società appellata del presunto inadempimento.
4) La violazione del principio di proporzionalità della sanzione disciplinare con riferimento agli artt. 2119 e 2106 c.c. – art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c.- per avere errato la corte distrettuale nel ritenere ravvisabile un grado di colpa grave al punto da compromettere il rapporto fiduciario, considerando tale gravità con riferimento alla non trascurabilità dell’entità dell’ammanco e al fatto che detto ammanco fosse privo di una seria ed obiettiva ragione giustificatrice. Tuttavia per il ricorrente l’entità dell’ammanco era assolutamente irrilevante – trattandosi di euro 2.309,50 – e, quanto al secondo aspetto, tale ammanco non poteva addebitarsi a colpa del dipendente stanti le condizioni in cui la prestazione lavorativa veniva resa. Avrebbe invece omesso la corte territoriale di esaminare altre circostanze che provavano l’assenza di colpa del C.
5) La violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 c.c., art. 2697, 2727, 2729 c.c.per non avere la corte di merito considerato la natura ingiuriosa dell’addebito di appropriazione indebita di danaro aziendale, che non potrebbe essere posta in discussione. Ciò avrebbe comportato un danno, che poteva essere provato attraverso presunzioni- il malore che aveva colpito il C.
immediatamente dopo la contestazione disciplinare, documentato da certificazione medica- o anche solo sulla base di nozioni di comune esperienza.
6) la violazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 94 CCNL, per violazione del diritto al superiore inquadramento, essendo pacifico che egli fosse stato preposto al punto vendita in qualità di responsabile con la direzione esecutiva, riconducibile all’area quadri.
Che il primo motivo non può trovare accoglimento perché infondato. La contestazione disciplinare, così come trascritta nelle sue parti essenziali nel ricorso di legittimità ed in relazione all’ammanco più consistente dal “fondo cassaforte moneta spiccia”, ha fatto riferimento a due distinte condotte, consistenti la prima nell’aver determinato un detto ammanco per la somma di 2.309,50 dal fondo presente nella cassaforte di cui il solo C. aveva le chiavi, la seconda nell’essersi appropriato della somma stessa.
Che nella lettera di licenziamento la società ha ritenuto che anche la sola condotta di aver provocato l’ammanco di cassa, senza che fosse provata la contestuale appropriazione da parte del C. della somma mancante, integrasse una negligenza di gravità tale da ledere il vincolo fiduciario.
Che pertanto nessun mutamento dei motivi oggetto di contestazione si è verificato. Il principio dell’immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 dello statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, che trovino fonte in fatti diversi da quelli contestati, ma non vieta di rivalutare diversamente i fatti stessi, su cui il lavoratore ha avuto modo di difendersi.
Che nel caso di specie la datrice di lavoro non ha motivato il licenziamento sulla base di motivi diversi da quelli contestati, così ledendo il diritto del lavoratore di difendersi su fatti ritualmente portati alla sua conoscenza, ma ha ritenuto che il solo ammanco di cassa, comunque addebitabile al C., andasse ad integrare quella condotta negligente, a suo dire sufficientemente grave per ledere il vincolo fiduciario, pur in assenza dell’ulteriore condotta dolosa di appropriazione della relativa somma.
Che il secondo motivo è inammissibile perché privo di specificità. Come rilevato da questa corte (cfr. Cass. n. 24198/2016) “il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione”.
Che nel caso in esame parte ricorrente non effettuato tale operazione, non avendo in alcun modo indicato quali siano i passaggi argomentativi della sentenza impugnata che hanno violato i principi di diritto contenuti nelle norme di legge richiamate.
Che invece è fondato e va pertanto accolto il terzo motivo di appello atteso che, diversamente da quanto motivato nella sentenza impugnata secondo cui l’appellante C. nel ricorso introduttivo di primo grado aveva eccepito soltanto una minore gravità dei fatti addebitatigli e dunque la riconducibilità degli stessi ad una infrazione disciplinare meno grave, sin dal primo grado era stata dedotta dal lavoratore una mancata imputabilità della condotta contestatagli in ragione dell’inadempimento del datore di lavoro sul quale gravava, secondo il C., l’obbligo di assicurare migliori condizioni operative di lavoro rispetto alla situazione di promiscuità dell’ambiente in cui era posizionata la cassaforte.
Che risulta, infatti, negli analitici capitoli di prova dell’atto di ricorso ex art. 414 trascritti nel ricorso di legittimità, che l’odierno ricorrente aveva eccepito la “non imputabilità degli addebiti e la rilevanza delle circostanze concrete”, analiticamente descrivendo le precarie condizioni dell’ambiente di lavoro in cui venivano effettuate le operazioni di conteggio del danaro, in particolare nei capitoli di prova n. 10, 11 e 12 del ricorso introduttivo di causa. Capitolazione sulla quale era stata richiesta ammissione di prova per testi e per interrogatorio formale, non accolta dal primo giudice.
Che pertanto ha errato la corte territoriale nel ritenere nuova e quindi inammissibile la richiesta istruttoria sulla questione in esame svolta dal C. con l’atto di appello, richiesta che è stata invece ritualmente riproposta con specifico motivo di gravame.
Che la declaratoria di inammissibilità sancita dalla sentenza impugnata si è concretizzata in realtà in un omesso esame di tale motivo di appello, dando luogo ad un vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e dunque ad un error in procedendo in violazione dell’art. 360 c. 1, n. 4 c.p.c.
Che l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e in genere su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, dello stesso codice, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito (cfr Cass. n. 22759/2014, Cass. n. 6835/2017).
Che pertanto, restando assorbiti il quarto, quinto e sesto motivo, la sentenza deve essere cassata con rinvio alla corte di merito, la quale dovrà esaminare le deduzioni svolte nei capitoli di prova di cui al ricorso introduttivo di primo grado – ed in particolare ai capitoli 10, 11 e 12 – richiamati nell’atto di appello, al fine di verificare l’esistenza o meno di eventuali inadempimenti della società datrice di lavoro, riesaminando dunque sotto tale aspetto il provvedimento espulsivo adottato.
Che alla corte di merito si demanda altresì la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo e dichiara inammissibile il secondo motivo, accoglie il terzo motivo, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla corte d’Appello di Roma in diversa composizione, a cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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