CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 giugno 2018, n. 15835
Imposte indirette – IVA – Accertamento – Cessione di beni – Territorialità
Fatti di causa
Nel corso del 2005 la s.r.l. F., successivamente fallita, procedette ad acquisti e a importazioni senza pagamento dell’iva, perché fruì del c.d. plafond, senza, tuttavia, possedere lo status di esportatore abituale, sulla base, dunque, di lettere d’intento emesse in assenza dei prescritti requisiti. Ne seguì un avviso di accertamento col quale l’Agenzia recuperò l’Iva non addebitata dai fornitori e applicò le conseguenti sanzioni, a norma dell’art. 7, 3 comma, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.
La società impugnò l’avviso, senza successo in primo grado.
Ma la Commissione tributaria regionale, nell’accoglierne l’appello, ha sostenuto che l’indebito utilizzo del plafond non abbia arrecato danni all’erario, poiché essa aveva comunque diritto di detrarre l’Iva sugli acquisti; il che escludeva, a dire della Commissione, anche la sanzionabilità della condotta.
Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia per ottenerne la cassazione, che affida a un unico motivo, cui il fallimento replica con controricorso, che illustra con memoria.
Ragioni della decisione
1.- Con l’unico motivo di ricorso, proposto ex art. 360, 1 comma, n. 3, c.p.c., l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della I. 18 febbraio 1997, n. 28, dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 8 della I. 27 luglio 2000, n. 212, dell’art. 7 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 e degli artt. 5, 6 e 7 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, là dove il giudice d’appello ha ignorato che, mancando i presupposti di fruizione del plafond, la contribuente, nella qualità di cessionaria, è tenuta a pagare il tributo e a corrispondere le relative sanzioni.
1.1.- Infondata è l’eccezione d’inammissibilità proposta in controricorso per l’asserita genericità del motivo, in quanto l’Agenzia ha esattamente individuato la questione di diritto in esito alla ricostruzione dei profili di fatto rilevanti.
2.- Oltre che ammissibile, il motivo è altresì fondato.
A differenza dalle ipotesi contemplate dall’art. 8, 1 comma, lett. a) e b), del d.P.R. n. 633/72, le quali concernono la sussistenza del debito Iva o, meglio, la sua insussistenza, giacché il legislatore ha scelto di configurare come non imponibili le operazioni ivi elencate che altrimenti lo sarebbero, la non imponibilità contemplata dall’art. 8, 10 comma, lettera c) e 2° comma, del d.P.R. n. 633/72 non riguarda la sussistenza del debito Iva (né la relativa responsabilità, principale o solidale), bensì la esecutività di esso. E ciò in ragione della possibilità dell’estinzione satisfattiva di quel debito mediante compensazione con i crediti Iva dell’esportatore abituale (vedi Cass. 14 marzo 2012, n. 4022, secondo cui la dichiarazione di intento, concernendo le condizioni dell’importatore, le quali rilevano ai soli fini del pagamento dell’imposta, che resta sospesa per coloro che versino nelle condizioni previste dalla legge e lo dichiarino sotto la propria responsabilità, incide soltanto sulla procedura di riscossione; conf., 27 marzo 2013, n. 7720).
2.1.- Le cessioni all’esportazione non difettano dell’elemento della territorialità, come conferma il loro assoggettamento agli obblighi formali di fatturazione e dichiarazione. Il che le renderebbe assoggettabili a imposta, se non fossero state configurate dal legislatore come non imponibili, in base al principio della detassazione dei beni in uscita dal territorio unionale, e dell’applicazione dell’Iva italiana a quelli in entrata (Cass. 24 marzo 2016, nn. 5853 e 5854; 22 ottobre 2014, n. 22430; 8 marzo 2013, n. 5894).
2.2.- La disposizione contenuta nella lett. c) dell’art. 8 considera, invece, non imponibili -sebbene si tratti di merci o prestazioni di servizi destinate ad entrare o ad essere eseguite nel territorio comunitario- le cessioni di beni (tranne i fabbricati e le aree edificabili) e le prestazioni di servizi fatte a soggetti che abbiano compiuto abitualmente cessioni all’esportazione od operazioni intracomunitarie, e chiedano al loro fornitore di non applicare l’imposta sull’operazione di acquisto e/o di importazione.
2.3.- In questo caso, chiarisce il secondo comma dell’art. 8, nel delineare il meccanismo del plafond, «le cessioni e le prestazioni di cui alla lettera c) sono effettuate senza pagamento dell’imposta ai soggetti indicati nella lettera a), se residenti ed ai soggetti che effettuano le cessioni di cui alla lettera b) del precedente comma su loro dichiarazione scritta e sotto la loro responsabilità, nei limiti dell’ammontare complessivo dei corrispettivi delle cessioni di cui alle stesse lettere dai medesimi fatte nel corso dell’anno solare precedente». E, prosegue la norma, i cessionari e i commissionari possono avvalersi del plafond «…integralmente per gli acquisti di beni che siano esportati nello stato originario nei sei mesi successivi alla loro consegna e, nei limiti della differenza tra esso e l’ammontare delle cessioni dei beni effettuate nei loro confronti nello stesso anno ai sensi della lettera a), relativamente agli acquisti di altri beni o di servizi», potendo altresì «…optare… per la facoltà di acquistare beni e servizi senza pagamento dell’imposta assumendo come ammontare di riferimento, in ciascun mese, l’ammontare dei corrispettivi delle esportazioni fatte nei dodici mesi precedenti>>.
2.4.- In sintesi, il legislatore consente ai contribuenti che rivestono la qualifica d’esportatore abituale di acquistare beni e servizi senza applicazione dell’iva nei limiti delle esportazioni od operazioni assimilate registrate nell’anno solare precedente -c.d. “plafond fisso”- o nei dodici mesi precedenti -c.d. “plafond mobile”, per un ammontare superiore al 10% del complessivo volume d’affari. La soglia percentuale obbligatoria, già originariamente prevista, è stata dapprima abrogata dal 1 gennaio 1979 e poi nuovamente introdotta dal 1 gennaio 1984 dal d.l. 746/83, conv. con I. 17/84 (in termini, Cass. 15 febbraio 2013, n. 3788 e 16 marzo 2016, n. 5168).
3.- La ratio di tali previsioni è di agevole comprensione, ove si consideri che le cessioni all’esportazione -come le operazioni intracomunitarie- non limitano la detrazione dell’imposta sugli acquisti (Cass. 19 giugno 2015, n. 12763).
3.1.- Sicché i soggetti che eseguano solo, o prevalentemente (esportatori abituali), operazioni di tal fatta finirebbero per trovarsi costantemente in credito con l’Erario, giacché l’esiguità delle operazioni imponibili compiute (a debito) non varrebbe a compensare quelle sugli acquisti (a credito). Al fine, dunque, di evitare che taluni operatori siano in permanente attesa del rimborso dell’eccedenza d’imposta, il legislatore consente loro di effettuare acquisti senza applicazione dell’Iva, includendo tra le operazioni non imponibili anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi compiute nei loro confronti.
In definitiva, il plafond disciplinato dall’art. 8, 1 comma, lett. c, rappresenta un semplice limite quantitativo monetario -pari all’ammontare complessivo dei corrispettivi delle esportazioni utilizzabile nell’anno successivo per procedere ad acquisti in sospensione d’imposta (Cass. 6 marzo 2015, n. 4556).
4.- Eccentrica rispetto al regime descritto si rivela dunque la ratio decidendi della sentenza impugnata, secondo cui la detraibilità dell’Iva non sarebbe «…affatto pregiudicata dall’errore che non sia doloso, ma conseguente ad un mero errore di calcolo ex se non finalizzato ad evadere o eludere il prelievo».
La fruizione del meccanismo del plafond non esclude affatto la detrazione dell’imposta; blocca soltanto l’esecutività del debito Iva, in ragione del maggior credito ontologicamente correlato all’attività di esportatore abituale.
Anzi, gli esportatori abituali giustappunto a causa delle poste attive maturate sugli acquisti fruiscono del regime di sospensione.
4.1.- Il che comporta l’irrilevanza della giurisprudenza unionale richiamata in sentenza ed evocata anche in memoria, la quale si riferisce alla diversa ipotesi in cui, nonostante la sussistenza dei presupposti sostanziali del diritto di detrazione, l’amministrazione finanziaria neghi la detrazione per mancanza di alcuni presupposti formali.
Nel caso in esame, non si è negata affatto l’esistenza del diritto di detrazione; soltanto, si è negata l’operatività del limite all’esecutività del debito Iva, correlato alla qualità di esportatore abituale.
Esclusa tale qualità, viene meno anche il limite di esecutività, proprio al fine di non arrecare danno all’erario, poiché non può operare il meccanismo sopra descritto: ed è perciò che il 3 comma dell’art. 7 del d.lgs. n. 471/97 stabilisce che qualora la dichiarazione d’intento <<…sia stata rilasciata in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge, dell’omesso pagamento del tributo rispondono esclusivamente i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa».
4.1.2.- Del tutto indifferente è, per conseguenza, lo stato soggettivo del cessionario o del committente: quel che comporta l’operatività del regime, che, si ribadisce, incide sulla mera esecutività e non sulla sussistenza del debito Iva, è l’esistenza del plafond, indipendentemente dalla buona fede del cessionario o del committente interessato.
4.1.3.- Ne emerge l’irrilevanza altresì della giurisprudenza unionale sulla mancanza di proporzionalità delle sanzioni conseguenti, che s’inserisce in quel diverso contesto.
4.2.- Parimenti eccentrico è il richiamo, su cui ha puntato la società anche in discussione, all’art. 60 del d.P.R. n. 633/72, a norma del quale «Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto di detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione».
Il diverso momento di decorrenza del termine di decadenza biennale da tale norma previsto (coincidente con quello in cui il cessionario o il committente abbia corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa) si riferisce al tardivo esercizio del diritto di rivalsa in conseguenza dell’accertamento o della rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi.
Ipotesi, questa, estranea al caso in cui la contribuente avrebbe potuto esercitare il diritto sin dal momento del compimento dell’operazione e, a maggior ragione, a quello in cui sin dal momento del compimento delle operazioni sono state conteggiate, ai fini della compensazione, in base al meccanismo descritto, le poste attive costituite dall’Iva a credito sugli acquisti.
5. – Il ricorso va in conseguenza accolto e la sentenza cassata.
Non essendovi necessità di accertamenti in fatto, il giudizio va deciso nel merito, col rigetto dell’impugnazione originariamente proposta.
5.1.- I profili di relativa novità determinano la compensazione delle spese del merito.
Quelle del giudizio di legittimità seguono, invece, la soccombenza.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originariamente proposto. Compensa le spese riguardanti le fasi di merito e condanna il fallimento a rifondere quelle concernenti il giudizio di legittimità, che liquida in euro 3000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
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