CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 giugno 2018, n. 15860

Tributi – Accertamento – PVC – Processo tributario – Cessione internazionale – Esportazione

Fatti di causa

La M.E.C. s.p.a. impugnava l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate recuperava costi non deducibili e, conseguentemente, rettificava l’imponibile ai fini IRPEG, IVA ed IRAP, per l’anno 2000, sulla scorta dei numerosi rilievi operati con il processo verbale di constatazione del 2/12/2004.

La Commissione tributaria provinciale di Bologna accoglieva parzialmente il ricorso e la decisione, appellata dalla contribuente e, in via incidentale, dall’Agenzia delle Entrate, veniva parzialmente riformata dalla Commissione tributaria regionale della Emilia Romagna, che accoglieva il gravame principale limitatamente al primo motivo, dichiarava legittima la deduzione delle spese sostenute dalla società contribuente per l’utilizzo di spazi pubblicitari, e rigettava l’appello incidentale.

Secondo il giudice di appello, per quanto ancora d’interesse, “la nozione di pubblicità è concetto ampio, rappresentato dalla esigenza di informare i potenziali clienti dell’esistenza di beni e servizi prodotti da una determinata azienda”, per cui “i costi allo scopo sostenuti non si esauriscono solo nell’accrescimento del prestigio della società ma sono (…) tendenzialmente orientati a creare una vera e propria aspettativa di incremento delle vendite”, quanto alle fatture di cessione all’esportazione prive di documentazione doganale, “era onere della società appellante fornire la prova  dell’avvenuta esportazione, gravando su di essa la presunzione di cessione internazionale stabilita dall’art. 53, primo comma, d.p.r. n. 633/72”, inoltre, “quanto alle censure spiegate dall’appellante incidentale esse non si ritengono condivisibili e giuridicamente oltre che attualmente fondate”, in quanto “non costituisce prova presuntiva dell’assenza di inerenza all’attività aziendale il costo dell’utilizzo di un posto auto in prossimità della abitazione del legale rappresentante della società”, infine, “neppure appare condivisibile la doglianza sulla correttezza delle deduzioni delle spese di manutenzione dei beni di terzi, posta in essere dalla società appellante, in qualità di locataria”, in difetto di una norma che imponga “l’ammortamento di dette spese in più esercizi”.

L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, cui resiste con controricorso la contribuente, che propone ricorso incidentale e deposita memoria difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente Agenzia delle Entrate, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia la violazione degli artt. 74, comma 2, 75, d.p.r. n. 917 del 1986 (nel testo ratione temporis vigente), 2697 c.c., 19 bis-1, lett. h, d.p.r. n. 633 del 1972, giacché la CTR, con riferimento al rilievo n. 1 dell’avviso di accertamento, nonché alla connessa ripresa ai fini IVA, ha erroneamente ricondotto la spesa sostenuta dalla contribuente per la utilizzazione di spazi pubblicitari, giusta contratto concluso con la T. s.r.I., azienda operante nel settore delle competizioni automobilistiche, e relative fatture, ad un costo correlato all’esercizio dell’impresa, in quanto diretto a sollecitare l’interesse dei consumatori verso i “moduli elettronici” commercializzati con il marchio TDK, e dunque a spese di pubblicità, trascurando di considerare che la società M.E.C. si pone essenzialmente come intermediario nella circolazione di beni importati da paesi extra-Ue e non vende prodotti riconoscibili nel proprio marchio, che utilizza un evento sportivo privo di particolare visibilità mediatica, e si avvale di spazi pubblicitari, collocati sulle autovetture da competizione, di dimensioni (cm. 10 x 20) talmente limitate da non poter essere captati dai potenziali clienti presenti all’evento sportivo, sicché difetta la finalità dell’incremento delle vendite, che caratterizza le spese di pubblicità, trattandosi piuttosto di spese di rappresentanza, relative ad iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa.

Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, giacché la CTR ha tratto la dimostrazione dell’inerenza della spesa dal contenuto del verbale di constatazione, e dal contratto di sponsorizzazione, nel quale sono riportate le reciproche obbligazioni delle parti, nonché dalla locandina recante il messaggio pubblicitario, documenti che evidenzierebbero la sollecitazione dell’interesse dei consumatori verso i “moduli elettronici” pubblicizzati con il marchio TDK, senza considerare che non si tratta di prodotti a marchio M.E.C., e che gli stessi non sono commercializzati in esclusiva, dovendosi pertanto esaminare il concreto e complessivo atteggiarsi della sponsorizzazione.

Con il terzo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., giacché la CTR ha omesso di pronunciarsi sul motivo di appello incidentale avente ad oggetto le contestazioni dell’Ufficio, ai fini IVA, concernenti le cessioni di beni ad operatori sammarinesi, tenuto conto delle condizioni previste dal d.m. del 24 dicembre 1993 per la non imponibilità dell’operazione, ed in ragione della necessità di verificare l’effettivo e reale passaggio dei beni dal territorio italiano a quello sanmarinese, avendo il giudicante motivato solo in ordine alla deducibilità del costo per il “posto auto” e delle spese di manutenzione su beni di terzi.

Con il quarto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, giacché la CTR si limita a richiamare le motivazioni del giudice di prime cure, ritenute immuni da censure, senza argomentare in ordine alla questione, pure oggetto del gravame erariale, della compresenza dei requisiti di cui agli artt. 8 e 9, d.p.r. n. 633 del 1972.

Con il quinto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia l’insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, giacché la CTR, quanto alla deducibilità della spesa sostenuta per il “posto auto”, afferma che non costituisce prova presuntiva dell’assenza di inerenza all’attività aziendale la prossimità dello stesso all’abitazione del legale rappresentante della società contribuente in quanto quest’ultima ha dimostrato di aver fatto quotidianamente uso del posto auto, senza indicare da quale elemento probatorio ha tratto tale convincimento, essendo senza riscontro la contraria circostanza concernente la affermata prossimità ad alcuni istituti di credito quotidianamente frequentati dal personale incaricato della società.

Con il sesto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia la violazione degli artt. 67, comma 7, e 74, comma 3, d.p.r. n. 917 del 1986 (nel testo ratione temporis vigente), giacché la CTR, sulla deducibilità dei costi per manutenzione dei beni di terzi, relativamente all’esecuzione di impianti elettrici ed idraulici presso la sede della società, avuto riguardo alla durata del contratto di locazione dei locali, si è limitata a rilevare che manca una norma che imponga l’ammortamento di tale spesa in diversi esercizi, tanto più se non v’è certezza della durata del rapporto locativo, senza considerare che gli oneri pluriennali comunque concorrono alla formazione del reddito negli esercizi nei quali spiegano effetti positivi.

Con il motivo di ricorso incidentale, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la società M.E.C. denuncia la violazione degli artt. 346, d.p.r. n. 43 del 1973 (T.U. Doganale), 116 c.p.c., comma 1, giacché la CTR ha respinto l’appello della contribuente, per quanto concerne il rilievo n. 10 dell’accertamento, secondo cui alcune fatture di cessione all’esportazione recanti titolo di non imponibilità, ai sensi dell’art. 8, d.p.r. n. 633 del 1972, sarebbero prive di idonea documentazione doganale, con conseguente recupero dell’IVA, senza considerare che le spedizioni sono state assoggettate a documenti di transito comunitario T2, e che, riguardo alla dimostrazione dell’uscita dallo Stato delle merci, non sono state valutate le prove fornite al riguardo, in quanto non possono non essere valutate la dichiarazione della S.E.S. di regolare ricevimento e di regolare pagamento del materiale, nonché le certificazioni della dogana svizzera attestanti il transito delle merci in questione.

I primi due motivi di ricorso, scrutinabili congiuntamente, sono fondati e meritano accoglimento.

La società M.E.C. ha sponsorizzato l’attività di “un’impresa operante nel settore delle competizioni automobilistiche con il marchio T.”, mediante l’apposizione “su sei vetture di F. Renalut (…) che parteciperanno alle gare di Campionato Europeo 1999”, di uno “spazio a scopo pubblicitario” di determinate dimensioni (cm. 10 x 20), potendo conseguentemente utilizzare “l’immagine relativa alle vetture in questione per la realizzazione di qualsiasi tipo di promozione a proprio favore”.

I relativi costi, secondo il giudice di appello, fruiscono della detrazione prevista per le spese pubblicitarie, non della detrazione ridotta per le spese di rappresentanza, essendo il contratto de quo “diretto a sollecitare l’interesse dei consumatori verso i “moduli elettronici” pubblicizzati dalla M.E.C. con il marchio “TDK” (…) necessariamente correlato all’esercizio dell’impresa”.

I rilievi erariali colgono nel segno poiché, alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, alle sponsorizzazioni sportive si applica l’attuale art. 108, ovvero l’art. 74, comma 2, d.p.r. n. 917 del 1986 (nel testo ratione temporis applicabile), essendo, in tutto e per tutto, equiparate alle spese di rappresentanza, in quanto effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, cioè di immediato incremento delle vendite, e piuttosto idonee ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa, gravando sul contribuente l’onere di dimostrare che all’attività sponsorizzata sia riconducibile un effettivo ritorno commerciale, nei termini sopra delineati, e sul giudice di verificare rigorosamente “in fatto” la finalità delle spese.

Il principio è stato affermato da questa Corte con la sentenza n. 8679/2011, nella quale si legge che “costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta. In definitiva, si ritiene debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita dì quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali. Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto. Alla luce di tale principio le spese di sponsorizzazione in questione, in quanto idonee al più ad accrescere il prestigio dell’impresa (…), vanno ritenute spese di rappresentanza, deducibili nei limiti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, comma 2” (Cass. 28695/2017, n. 8121/2016, n. 9715/2015, n. 27482/2014, n. 16812/2014, n. 3433/2012, n. 21270/2008, n. 17602/2008, n. 9567/2007).

La società contribuente, che opera nel settore della commercializzazione di moduli e componentistica elettronica, non ha allegato – se non in maniera del tutto generica – e neppure provato la sussistenza di una “diretta aspettativa al ritorno commerciale”, ragionevolmente riconducibile all’apposizione sulle vetture da corsa del messaggio pubblicitario, né ha spiegato quale potesse essere l’attesa concreta finalità d’incremento commerciale rispetto ad un pubblico, quello interessato al contesto delle corse automobilistiche del Campionato Europeo, non propriamente coincidente con quello dei potenziali clienti dei prodotti commercializzati.

La sentenza d’appello, dunque, si è discostata dall’enunciato principio in quanto, anche con riferimento al contenzioso sull’IVA, non è ammessa in detrazione l’imposta relativa alle spese dì rappresentanza, come definite ai fini delle imposte sul reddito, tranne quelle sostenute per un costo unitario non superiore a Euro 25,82 (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 bis 1, lett. h), mentre del tutto illegittimo è il sostanziale ribaltamento dell’onere probatorio (che è a carico del contribuente), anche in termini di congruità dei costi rispetto ai ricavi e all’oggetto sociale, così come del tutto superficiale è la verifica operata dai giudici di merito circa la finalità delle spese di sponsorizzazione, che non emerge affatto dalla stringata motivazione della sentenza impugnata.

Il terzo ed il quarto motivo di ricorso, scrutinabili congiuntamente, sono infondati.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte “Deve considerarsi nulla la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello.” (Cass. n. 22022/2017).

Nel caso di specie, tuttavia, il rinvio, seppur generico, alla motivazione della sentenza di primo grado consente di superare le suesposte censure erariali atteso che la questione concernente i rilievi formali mossi dall’Ufficio alle operazioni relative a cessioni effettuate dalla società contribuente verso la Repubblica di San Marino, correttamente risolta dalla CTP di Bologna, è stata tal quale riproposta all’esame del giudice di secondo grado con il gravame incidentale.

La decisione impugnata è in linea, altresì, con la giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Cass. n. 16450/2014), secondo la quale, “In tema di IVA, laddove ricorrano i presupposti di cui all’art. 15 della Sesta Direttiva del Consiglio CEE del 15 maggio 1977, n. 77/388/CEE (come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia) e, cioè, in presenza di una cessione di beni trasportati o spediti, dai venditore o per suo conto, fuori da dall’Unione Europea, il diritto del contribuente all’esenzione dall’imposta sussiste anche qualora l’esportazione risulti illecita e “a fortiori” formalmente irregolare secondo il diritto nazionale, che va disapplicato se in contrasto con il principio comunitario di neutralità fiscale, diretto ad equiparare le esenzioni nazionali degli Stati membri.

In applicazione di tale principio la Corte, infatti, ha riconosciuto il diritto all’esenzione da IVA in presenza di una cessione all’esportazione effettuata nella Repubblica di San Marino, pur non avendo la società contribuente – come nel caso di specie – provveduto, in base a quanto richiesto dall’art. 4, comma 1, lett. b), del d.m. 24 dicembre 1993, alla “presa nota a margine” nel registro IVA delle fatture di vendita. Il quinto motivo di ricorso, invece, è fondato e merita accoglimento. Giova osservare che, in tema di imposte sui redditi delle società, la nozione di inerenza che connota i costi deducibili, fondata sul richiamo all’art. 75, comma 5, d.p.r. n. 917 del 1986, esprime la riferibilità dei costi sostenuti, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura, all’attività d’impresa propriamente detta, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea a tale attività, e secondo un consolidato orientamento di questa Corte, al quale la sentenza n. 4556/2010 ha chiaramente inteso dare continuità, la nozione di inerenza implica quella di congruità, sicché deve escludersi la deducibilità di costi sproporzionati o eccessivi, in quanto non inerenti; un costo, pertanto, non è deducibile se non è funzionale all’attività della impresa, ed è inerente nella misura in cui può dirsi congruo.

Spetta, pertanto, al contribuente l’onere di provare l’esistenza, l’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, la coerenza economica dei costi deducibili, “ed a tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa” (Cass. n. 13300/2017, n. 10269/2017, n. 10914/2015, n. 21184/2014, in senso parzialmente difforme n. 450/2018).

E tale principio andava applicato in quanto, se è vero che tra le spese generali, nel conto relativo alla gestione degli automezzi, è stata contabilizzata dalla contribuente la fattura emessa dalla P.S. s.r.I., relativa ad un “posto auto”, situato in Bologna, Viale S., è anche vero che l’Ufficio ha dedotto la circostanza, non contestata, della prossimità della abitazione di G.C., legale rappresentante della società M.E.C., sita in Via C., ed il vizio del ragionamento probatorio risulta evidente, essendo la decisione del giudice di appello debolmente ancorata alla apodittica affermazione, della quale non è specificata la fonte, né è verificabile la forza dimostrativa, che “l’impresa quotidianamente ne abbia fatto uso”.

Il sesto motivo di ricorso è infondato e non merita accoglimento.

L’assunto della ricorrente secondo cui gli oneri sostenuti dalla società per lavori strutturali su immobile di terzi, detenuti in locazione, andavano dedotti necessariamente in quote costanti nell’esercizio di sostenimento e nei quattro successivi, è errata in diritto in quanto si pone in contrasto con l’art. 2426 c.c., comma 1, n. 5, e con il d.p.r. n. 917 del 1986, art. 74 (ora art. 108), comma 3, applicabile ratione temporis, dai quali era ricavabile la facoltatività dell’ammortamento quinquennale di detti costi e non la sua obbligatorietà, invece prevista con decorrenza dal 22 marzo 2005 per effetto della modifica apportata dall’art. 11, comma 1. lettera e), del d.lgs. n. 38 del 2005, che ha introdotto all’art. 108, comma 3, d.p.r. n. 917 del 1986, la disposizione secondo cui “Le medesime spese” – cioè quelle relative a più esercizi, diverse da quelle considerate nei commi 1 (studi e ricerche) e 2 (pubblicità e propaganda) – non capitalizzabili per effetto dei principi contabili internazionali, sono deducibili in quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi” (Cass. n. 26500/2016).

Va, dunque, ribadito il principio di diritto secondo cui “In tema di determinazione del reddito di impresa, ai sensi dell’art. 74, comma 3, del d.p.r. n. 917 del 1986 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 344 del 2003), le spese di manutenzione straordinaria dell’immobile condotto in locazione possono essere iscritte nell’attivo, ex art. 2426, comma 1, n. 5), c.c., invece che essere imputate in conto economico, come componenti negativi del reddito, nell’esercizio in cui sono state sostenute, ove l’imprenditore ritenga, in base ad una scelta fondata su canoni di discrezionalità tecnica, di capitalizzarle in vista di un successivo ammortamento pluriennale, purché indichi specifici criteri, commisurati alla durata dell’utilità del bene, al fine di stabilire la quota di costo gravante su ciascun esercizio.” (Cass. n. 6288/2018).

Nel caso di specie, è illegittima la ripresa a tassazione atteso che la società contribuente, pur non disconoscendo l’utilità pluriennale delle spese di manutenzione straordinaria in questione, ne ha tuttavia previsto la deduzione in un unico esercizio, quello in cui le ha sostenute, imputando le stesse nel conto economico come componenti negativi del reddito, come la disciplina ratione temporis applicabile consentiva di fare, sicché non appaiono condivisibili, per quanto innanzi esposto, le contrarie deduzioni svolte dall’Agenzia delle Entrate.

Va disatteso, infine, il motivo di ricorso incidentale:

La censura, svolta dalla contribuente sotto il profilo della violazione di legge, non per insufficienza della motivazione concernente l’idoneità probatoria degli esibiti documenti (certificati della dogana svizzera attestanti il transito di merci destinate a San Marino), investe la decisione del giudice di appello che, in relazione alla contestata spettanza dell’esenzione dall’IVA per alcune fatture di cessione all’esportazione, secondo l’Ufficio, prive di idonea documentazione doganale, ha rilevato la mancanza di prova documentale della presentazione delle merci alla dogana di destinazione, concludendo nel senso che le operazioni in questione devono essere considerate come non effettuate e, quindi, soggette ad IVA.

La decisione, che si basa sulla specifica disciplina che regola i rapporti di scambio tra Repubblica Italiana e Repubblica di San Marino giusta d.m. 24/12/1993), è conforme al consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui, per beneficiare dell’esenzione dall’IVA prevista per le cessioni all’esportazione, di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 8, lett. a), eseguite cioè mediante trasporto o spedizione dei beni fuori del territorio della Comunità europea, a cura o a nome dei cedenti (cd. Operazioni “triangolari”), la destinazione della merce all’esportazione deve essere provata dalla documentazione doganale, ovvero dalla vidimazione apposta dall’ufficio doganale sulla fattura o su un esemplare della bolla di accompagnamento o, se quest’ultima non è prescritta, del documento di trasporto, oppure secondo modi e tempi previsti da appositi decreti ministeriali, in quanto, “… pur dovendosi ritenere che tale prova possa essere fornita con ogni mezzo, non potendosi addebitare all’esportatore la mancata esibizione di un documento di cui egli non ha la disponibilità, resta pur sempre che debba trattarsi di una prova certa ed incontrovertibile, quale l’attestazione di pubbliche amministrazioni del paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana (Cass. n. 25455/2014, n. 20487/2013, n. 21809/2012).

In relazione ai profili ritenuti fondati, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio ad altra sezione della Commissione regionale della Emilia Romagna, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il primo, il secondo ed il quinto motivo di ricorso, rigetta il terzo, quarto, ed il sesto motivo, nonché il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese dei presente giudizio, alla Commissione tributaria regionale della Emilia Romagna.