CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 luglio 2019, n. 18886
Licenziamento disciplinare – Intimazione nel corso del periodo di malattia – Appropriazione degli introiti del negozio presso il quale il lavoratore prestava servizio – Accertamento
Fatti di causa
1. Con la sentenza n. 3140 del 2017 la Corte di appello di Roma, pronunciando sui gravami hic et inde proposti avverso la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa città in data 3.3.2014, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento disciplinare intimato il 25.1.2012 dalla N. spa nei confronti di U.F., con reintegra del dipendente nel posto di lavoro e con II riconoscimento del danno quantificato nella misura pari a tutte le retribuzioni globali di fatto dal recesso fino alla reintegra, oltre accessori e regolarizzazione contributiva ed assistenziale; ha dichiarato, poi, che nessuna differenza a titolo di TFR era dovuta al lavoratore che veniva condannato a restituire alla società la somma di euro 1.460,43 riconosciuta a tale titolo in primo grado.
2. Il licenziamento era stato adottato per la contestata Illegittima appropriazione di euro 39.450,00 circa dagli introiti del negozio E. di via Aurelia, in Roma, ove l’U. prestava servizio nonché per essere stato denunciato dal dipendente un furto, per euro 5.000,00, che la società assumeva non essere stato mai commesso.
3. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la N. spa affidato a tre motivi.
4. Ha resistito con controricorso, formulando a sua volta ricorso incidentale sulla base di tre motivi F. U.
5. Le parti hanno rispettivamente depositato atti di rinunzia reciproci.
Ragioni della decisione
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo del ricorso principale la società denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 414, 416, 420, 435 e 437 cpc, in relazione all’art. 112 cpc e all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, nonché l’ultra petizione e la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 4, per essersi erroneamente la Corte territoriale pronunciata sull’accertamento della legittimità del recesso quando, invece, l’impugnazione giudiziale dello U. era stata circoscritta al solo profilo dell’illegittimità del recesso per essere stato intimato nel corso del periodo di malattia, tanto è che aveva concluso per il ripristino del preesistente rapporto di lavoro subordinato.
3. Con il secondo motivo si censura l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, nel non avere erroneamente considerato la Corte di merito che la lesione del vincolo fiduciario, sfociata nel licenziamento, era conseguita espressamente anche per la violazione del dovere di diligenza in relazione a tutti gli altri fatti contestati e non solo, quindi, per l’ammanco di cassa.
4. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 cc, in relazione agli artt. 115 e 116 cpc, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 4 cpc, per non avere valutato la Corte di appello che gli elementi, che avevano portato all’assoluzione per insufficienza di prove dell’U. dalla imputazione penale, comunque rappresentavano indizi gravi, precisi e concordanti per ritenere dimostrati i fatti contestati nell’ambito del giudizio civile.
5. Con il primo motivo del ricorso incidentale F.U. chiede la cassazione della sentenza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2103 cod. civ. e 115, 116 e 229 cpc, per avere i giudici del merito, erroneamente valutando le risultanze probatorie, respinto la domanda di riconoscimento di mansioni superiori senza avere, altresì, considerato che la querela depositata dal legale rappresentante della società, con cui si riconosceva la qualifica di Direttore di Negozio – Responsabile del negozio stesso allo U., costituiva confessione stragiudiziale sul punto.
6. Con il secondo motivo il ricorrente incidentale lamenta, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, l’omessa valutazione della attribuzione di Direttore del Punto Vendita della società, espressamente riconosciutagli negli atti di natura penale, ritualmente acquisiti nel corso del giudizio civile.
7. Con il terzo motivo si duole l’U. della violazione e falsa applicazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 co. 1 n. 3, degli artt. 1362, 1363 e 1365 cod. civ. e 36 Cost., per non avere erroneamente ritenuto la Corte di appello che l’originario ricorrente, sulla base delle declaratorie contrattuali di settore, avesse diritto al superiore inquadramento dal maggio 2008.
8. In via preliminare, con riguardo all’esito del presente giudizio, deve essere rilevata la incidenza delle reciproche rinunce, in quanto il legislatore di cui al D.lgs. n. 40/2006, inequívocamente volto al rafforzamento della funzione nomofilattica della corte di legittimità, a sua volta agevolata da una definizione del giudizio di cassazione alternativa alla decisione, e dalla nuova formulazione dell’art. 391 secondo comma cpc, per il quale il ricorrente può (e non più deve) essere condannato alle spese, ha avallato l’ipotesi che si sia voluto dar luogo ad una sorta di incentivazione della rinuncia, che prevale quale manifestazione della volontà abdicativa rispetto ad altre forme decisionali (in termini Cass. 26.7.2008 n. 19154; Cass. 7.11.2008 n. 26850; Cass. 28.12.2009 n. 27425).
9. La fattispecie in esame, in relazione al suddetto profilo, è disciplinata dall’art. 390 cpc, nella formulazione vigente, applicabile, ai sensi dell’art. 75 co. 2 DI. n. 69/2013, ai giudizi dinanzi alla Corte di Cassazione nei quali il decreto di fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione dello stesso decreto legge (legge n. 9.8.2013 n. 98, entrata in vigore il 21.8.2013). Ai sensi della citata disposizione, la rinuncia deve farsi con atto sottoscritto dalla parte e dal suo avvocato o anche da questo solo se è munito di mandato speciale a tale effetto. L’atto di rinuncia è notificato alle parti costituite o comunicato agli avvocati delle stesse che vi appongono il visto. Nel giudizio di cassazione, diversamente da quanto previsto dall’art. 306 cpc, la rinuncia al ricorso è produttiva di effetti a prescindere dalla accettazione delle altre parti, che non è richiesta dall’art. 390 cpc. La rinuncia al ricorso per cassazione, essendo atto unilaterale recettizio, produce quindi l’estinzione del processo, senza che occorra l’accettazione, perché determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e comporta il conseguente venir meno dell’interesse a contrastare l’impugnazione (Cass. Sez. Un. n. 1923/1990; Cass. n. 4446/1986; Cass. n. 23840/2008); l’accettazione rileva solo ai fini delle spese (Cass. n. 17187/2014).
10. Nel caso de quo, pertanto, va dichiarata l’estinzione del giudizio.
11. Ricorrono le condizioni di cui all’art. 92 cpc, vigente ratione temporis, per compensare le spese processuali, in considerazione del comportamento delle parti che sono giunte ad una soluzione stragiudiziale della controversia e della richiesta in tali sensi formulata dalle stesse nei rispettivi atti di rinuncia.
12. In tema di impugnazioni, la declaratoria di estinzione del giudizio esclude la applicabilità dell’art. 13 comma 1 quater del DPR n. 115/2002 relativo all’obbligo della parte impugnante non vittoriosa di versare una somma pari al contributo già versato all’atto della proposizione dell’impugnazione (Cass. 30.9.2015 n. 19560).
P.Q.M.
dichiara estinto il processo e compensa tra le parti le spese di giudizio. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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