CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 luglio 2019, n. 18888
Mutamento del rito, da ordinario a quello del lavoro per connessione – Inammissibilità della domanda – Difetto di interesse ad agire – Prova di specifico pregiudizio processuale subito in conseguenza del rito erroneamente applicato
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Genova, con sentenza n. 505/2017, riuniti i giudizi di appello aventi ad oggetto due sentenze emesse dal Tribunale della Spezia, la prima recante il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato tra l’arch. R.M. e la società I.V. e la seconda di annullamento del licenziamento intimato ai lavoratore, riformava entrambe le pronunce di primo grado e rigettava integralmente ogni domanda.
2. Con il primo giudizio l’arch. M. aveva adito il Tribunale della Spezia rivendicando il riconoscimento di un rapporto di lavoro alle dipendenze della predetta società a partire dal 14 dicembre 2013 e il pagamento delle relative differenze retributive. Con il secondo giudizio, promosso ai sensi della legge n. 92 del 2012, aveva impugnato il licenziamento disciplinare intimatogli dalla società nelle more del primo giudizio in data 31 marzo 2015 per violazione dell’obbligo di fedeltà. Il Tribunale, con sentenze separate, aveva accolto entrambe le domande e, quanto al licenziamento, aveva riconosciuto la tutela di cui al quinto comma dell’art. 18 legge 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012.
3. Il M. aveva lavorato come addetto alla contabilità presso il cantiere della c.d. variante Aurelia alla SS n. 1, in provincia della Spezia, alle dipendenze della ditta CO.E.STRA., la quale aveva stipulato con I.V. un contratto di affitto di ramo di azienda avente ad oggetto il predetto cantiere, contratto sottoposto però ad una condizione sospensiva che riguardava il consenso delle stazioni appaltanti. Non essendosi avverata tale condizione sospensiva, l’ingresso della convenuta nel cantiere non ebbe luogo e ad essa subentrò invece la società T.C.G., che assunse il M..
4. La Corte di appello riteneva fondata la tesi di I.V. secondo cui non era mai esistito un rapporto di lavoro subordinato tra stessa società e il ricorrente, poiché il M. aveva svolto gli incarichi affidatigli dalla sua datrice di lavoro CO.E.STRA. e comunque non si era mai realizzata la condizione cui era subordinata l’assunzione del ricorrente, cioè la cessione di ramo d’azienda. La validità e l’efficacia del predetto accordo dovevano intendersi sospensivamente condizionate all’avverarsi di tutte le condizioni sospensive previste dal contratto di affitto, tra cui l’approvazione delle stazioni appaltanti. Era pacifico in giudizio che la condizione sospensiva non ebbe mai ad avverarsi e che non venne neppure attuato il trasferimento del personale previsto dall’accordo sindacale del 31 gennaio 2014.
Benché dalla documentazione prodotta in atti e dalle dichiarazioni rese dai testi fosse emerso che il M. aveva ricevuto da Intercantieri rimborsi in denaro e che l’attività era stata da lui resa anche nell’interesse di Intercantieri, ciò nondimeno non poteva dirsi costituito un rapporto di lavoro tra queste parti, poiché mai la società era divenuta titolare dell’appalto del cantiere presso cui aveva lavorato il ricorrente.
I compiti svolti dal ricorrente rientravano, in parte, tra quelli che la soc. CO.E.STRA. era tenuta a compiere nel cantiere e, in parte, tra quelli che la stessa si era obbligata a garantire in vista il trasferimento dell’appalto. In tale contesto la qualificazione dei fatti non muta per il fatto che il M. avesse ricevuto istruzioni e direttive da parte dei funzionari della convenuta, considerato che ciò avvenne con il consenso di CO.E.STRA. alla quale, secondo quanto riferito dai testi, I.V. si era rivolta per avere qualcuno che l’affiancasse nella verifica contabile dei lavori. La situazione venutasi a creare era piuttosto assimilabile a un distacco e consisteva nel fatto che il lavoratore era stato assegnato dal datore di lavoro – che ne aveva interesse – a collaborare con un terzo, il quale esercitò poteri direttivi funzionali a quella collaborazione, poteri direttivi che peraltro non risultavano essere stati particolarmente pregnanti. Facevano capo a CO.E.STRA. la titolarità del rapporto di lavoro, l’appartenenza alla medesima società del cantiere in cui tale rapporto si era svolto e la riferibilità delle attività del ricorrente a quella propria del suo rapporto di lavoro. Quanto poi alla circostanza che gli accordi contrattuali prevedessero che Intercantieri avrebbe assorbito una parte del personale di CO.E.STRA., il M. era titolare di una mera aspettativa rispetto alla sua futura assunzione da parte di Intercantieri, aspettativa che non può essere tutelata neppure sotto il profilo del risarcimento del danno da perdita di chances, come richiesto in via subordinata del ricorrente, in quanto la sua mancata assunzione dipese non già dal comportamento colpevole dell’appellante, ma dal mancato avverarsi della condizione sospensiva a cui era subordinata l’assunzione stessa e la cui esistenza era ben nota al ricorrente; pertanto, non vi erano i presupposti per ritenere che il M. potesse nutrire un legittimo affidamento nella sua assunzione. Il ricorrente venne invece assunto dalla società T.C.G., che subentrò nell’affitto del ramo di azienda in questione.
3. Per la cassazione di tale sentenza il M. ha proposto ricorso affidato a sei motivi. Ha resistito con controricorso I.V. s.p.a.
4. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della legge 92 del 2012, art. 1, commi 47, 48, 49, 51, 58, 59 e 60, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. per avere la Corte di appello di Genova, violando il c.d. rito Fornero, riunito dinanzi a sé le due cause, quella avente ad oggetto il reclamo proposto da Intercantieri avverso la sentenza resa in sede di opposizione, confermativa della illegittimità del licenziamento, e quella che invece aveva seguito il rito ordinario, avente ad oggetto la pronuncia sull’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, così ritardando ingiustificatamente la trattazione della prima.
2. Con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 40 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., e omessa motivazione su fatto decisivo ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.. Si duole per altro verso della predetta riunione, trattandosi di cause connesse assoggettate a differenti riti speciali, che debbono essere trattate e decise con il rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, con il rito previsto per la causa di maggior valore. Assume che la causa avente ad oggetto l’accertamento del rapporto lavoro subordinato involgeva una pretesa pari agli stipendi non pagati (periodo dal dicembre 2013 all’aprile 2014 o fino al dicembre 2014, giorno dell’assunzione presso T.C.), mentre il valore della causa di licenziamento era superiore (pari a quindici mensilità dell’indennità sostitutiva della reintegra). Pertanto, la Corte di merito avrebbe dovuto trattare la causa del licenziamento con il c.d. rito Fornero e, ove ritenuta la connessione tra le due cause, avrebbe dovuto procedere secondo lo stesso rito e accertare incidentalmente la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 245 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., e omessa motivazione su fatto decisivo ex art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ..
Si duole che la Corte territoriale, con ordinanza del 16 giugno 2017, non abbia ammesso alcuni capitoli di prova articolati in primo grado in ordine airaccertamento del rapporto lavoro subordinato.
4. Con il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. nonché dell’art. 30 d.lgs. 276 del 2003, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., nonché omesso esame di un fatto decisivo del giudizio ex art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.. Censura la sentenza per avere dato prevalenza all’elemento del mancato perfezionamento del contratto di affitto di ramo d’azienda, riferendo altresì di una sorta di distacco, senza fornire gli elementi per comprendere il percorso logico-giuridico attraverso il quale era pervenuta a tale conclusione.
5. Con il quinto motivo denuncia omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. per avere la Corte territoriale totalmente omesso di prendere in esame, ancorché per confutarne l’efficacia probatoria, una serie di documenti rilevanti ai fini del decidere.
6. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia nullità della sentenza per incomprensibilità delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.. Assume che la sentenza aveva contraddittoriamente escluso un rapporto di lavoro alle dipendenze della convenuta, pur avendo accertato che le direttive erano impartite dalla stessa società, e per avere affermato che si sarebbe trattato di una sorta di distacco, del quale non vi era traccia documentale. Il ricorrente aveva prodotto decine e decine di atti dai quali risultava che venivano impartite disposizioni, se non veri e i propri ordini, da parte della società convenuta, mentre nessun documento attestava l’ipotesi del distacco.
7. Quanto ai primi due motivi, da trattare congiuntamente, è preliminare il rilievo del difetto di interesse (art. 100 cod. proc. civ.), da cui l’inammissibilità delle censure.
7.1. E’ principio ormai consolidato che l’appello proposto avverso la sentenza che si limita a disporre il mutamento del rito (nella specie, da ordinario a quello del lavoro per connessione) è inammissibile per difetto di interesse ad agire a meno che la parte non deduca e dimostri lo specifico pregiudizio processuale subito in conseguenza del rito erroneamente applicato (Cass. n. 22325 del 2014). L’omesso cambiamento del rito, anche in appello, dal rito speciale del lavoro a quello ordinario o viceversa non spiega effetti invalidanti sulla sentenza, che non è né inesistente né nulla, e la relativa doglianza, che può essere dedotta come motivo di impugnazione, è inammissibile per difetto di interesse qualora non si indichi uno specifico pregiudizio processuale che dalla mancata adozione del diverso rito sia concretamente derivato, in quanto l’esattezza del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma può essere invocata solo per riparare una precisa ed apprezzabile lesione che, in conseguenza del rito seguito, sia stata subita sul piano pratico processuale (Cass. n. 19942 del 2008, conf. Cass. n. 24561 del 2013, n. 1448 del 2015, n. 7199 del 2018).
7.3. Nel caso in esame, l’odierno ricorrente non ha rappresentato alcun concreto pregiudizio che gli sarebbe derivato dalla trattazione congiunta delle due cause e neppure invero in quali termini si sarebbe realizzata in concreto la divergenza dei due riti in appello, atteso che, pure a norma dell’art. 1, comma 60, legge n 92 del 2012 la Corte di appello “…procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi….” e dunque può esercitare i poteri istruttori, come previsto anche per il rito del lavoro dall’art. 437 cod. proc. civ.. Nei fatti, la Corte territoriale ha ritenuto di dovere ulteriormente indagare in ordine all’accertamento della subordinazione, stante il carattere di pregiudizialità logica di tale verifica rispetto alla questione oggetto della seconda causa e anche per evitare l’eventualità di giudicati contrastanti.
8. Quanto al terzo motivo, innanzitutto va ribadito che nel rito del lavoro l’acquisizione di nuovi documenti o l’ammissione di nuove prove da parte del giudice di appello rientra tra i poteri discrezionali allo stesso riconosciuti dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ. e tale esercizio è insindacabile in sede di legittimità anche quando manchi un’espressa motivazione in ordine alla indispensabilità o necessità del mezzo istruttorio ammesso, dovendosi la motivazione ritenere implicita nel provvedimento adottato (Cass. n. 26117 del 2016, n. 209 del 2007).
8.1. Il ricorrente si duole della mancata ammissione di alcuni suoi capitoli di prova, che trascrive integralmente. Le circostanze ivi dedotte vertono principalmente sulle modalità della prestazione lavorativa resa dal M. e sul fatto che il suo operato era diretto da referenti aziendali della I.V.. Tuttavia, le modalità della prestazione lavorativa sono state integralmente ricostruite dalla Corte di appello, mentre quanto alle direttive impartite dalla società convenuta la sentenza ne dà atto, valutandole diversamente da quanto prospettato dall’odierno ricorrente. Pure l’ulteriore circostanza costituita dalle presunte rassicurazioni circa l’imminente perfezionamento della cessione di ramo di azienda e il passaggio ex art. 2112 cod. civ. alle dipendenze della convenuta è circostanza di fatto valutata nella sentenza impugnata, che ne ha fornito una precisa qualificazione in termini di mera aspettativa di fatto, priva di rilievo giuridico.
8.2. Il ricorso tende quindi ad una inammissibile rivisitazione delle risultanze istruttorie in relazione a fatti accertati e già valutati dalla Corte di appello.
9. Il quarto, il quinto e il sesto motivo, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
9.1. Quanto alla assimilabilità della fattispecie, come ricostruita nella sentenza impugnata, ad un’ipotesi di distacco, va osservato che, ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30, comma 1, “l’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa”.
Come è noto, prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 30, la figura del “distacco” o “comando” del lavoratore non era disciplinata dalla legge. Nel nuovo regime, questa Corte ha affermato che la figura del “distacco” o “comando” del lavoratore comporta un cambio nell’esercizio del potere direttivo – perché il dipendente viene dislocato presso altro datore di lavoro, con contestuale assoggettamento al comando ed al controllo di quest’ultimo – ma non incide sulla titolarità del rapporto, in quanto il datore di lavoro distaccante continua ad essere titolare del rapporto di lavoro, con la conseguenza che il rapporto di lavoro resta disciplinato ai fini economici dalle regole applicabili al datore distaccante (Cass. n. 14314 del 2013). Il distacco del lavoratore non comporta una novazione soggettiva e l’insorgenza di un nuovo rapporto con il beneficiario della prestazione lavorativa, ma solo una modificazione nell’esecuzione dello stesso rapporto, nel senso che l’obbligazione del lavoratore di prestare la propria opera viene (temporaneamente) adempiuta non in favore del datore di lavoro ma in favore del soggetto – cui sono attribuiti i connessi poteri direttivi e disciplinari – presso il quale il datore medesimo ha disposto il distacco del dipendente (Cass. n. 26138 del 2013).
9.2. Tenuto conto che il distacco è figura giuridica che non richiede requisiti di forma, la sentenza di appello non presenta alcun vizio logico o giuridico, laddove ha ritenuto che la gestione della contabilità del cantiere, cui venne preposto il M. quale dipendente della società CO.E.STRA., trovava la sua ragiona giustificativa nell’assetto negoziale del contratto sottoscritto tra le due società, avente ad oggetto la cessione di ramo di azienda (contratto sottoposto a condizione sospensiva, poi non avveratasi), e dunque ad un interesse di CO.E.STRA. insito o comunque correlato a tale assetto negoziale. L’accertamento relativo all’interesse della datrice di lavoro a distaccare il proprio dipendente presso I.V. s.p.a., basato su dati oggettivi, con giudizio immune da vizi logici o giuridici, è questione di merito, non sindacabile in questa sede.
10. Il quinto motivo è inammissibile. L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. S.U. n. 8053 del 2014).
10.1. Orbene, non è stato chiarito innanzitutto quali sarebbero i fatti decisivi omessi, tenuto conto che la Corte di appello ha distintamente e compiutamente esaminato le allegazioni di parte ricorrente, fornendone una ragionevole lettura interpretativa alla luce delle risultanze istruttorie.
10.2. Nel contestare tale soluzione, parte ricorrente denuncia un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini di una alternativa ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di sollecitare una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal giudice del merito. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico- formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).
10.3. Inoltre, anche nella vigenza del nuovo testo dell’art. 360, secondo comma, n. 5, cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 54, comma 1, lett. b), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (v. Cass. S.U. sent. 8053/14).
10.4. La sentenza ha dato conto, puntualmente, delle ragioni poste a base del decisum; la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale appaiono manifestamente illogici o contraddittori.
11. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
12. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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