CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 marzo 2021, n. 7227
Professionista – Avvocato – Iscrizione alla Gestione separata – Esercizio abituale, ancorché non esclusivo, di una professione che dia luogo ad un reddito non assoggettato a contribuzione da parte della cassa di riferimento
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 21.5.2019, la Corte d’appello di Bari ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato l’Avv. G.D. non tenuta ad iscriversi presso la Gestione separata in relazione ai periodi nei quali aveva prodotto un reddito inferiore ai minimi previsti per l’obbligatorietà dell’iscrizione presso la Cassa Nazionale Forense.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che, sebbene non potesse in linea generale dubitarsi dell’obbligatorietà dell’iscrizione alla Gestione separata per coloro che esercitano abitualmente la professione di avvocato e che non sono tenuti a iscriversi presso la Cassa Nazionale Forense, il fatto che la professionista avesse percepito redditi di importo inferiore a € 5.000,00 rappresentasse un indizio della natura occasionale dell’attività svolta, rispetto al quale l’Istituto non aveva dato prova alcuna a supporto della sua natura abituale.
Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione l’INPS, deducendo un unico motivo di censura, successivamente illustrato con memoria.
L’Avv. G.D. ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, commi 26 ss., l. n. 335/1995, 18, commi 1 e 2, d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), 21 comma 8, l. n. 247/2012, e 44, d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 326/2003), per avere la Corte di merito ritenuto che la produzione di un reddito inferiore alla soglia di € 5.000,00, di cui alla norma ult. cit., costituisse elemento sintomatico decisivo ai fini della valutazione dell’occasionalità della prestazione, senza considerare le ulteriori circostanze acquisite al processo e rimaste incontestate, vale a dire il mancato inserimento del reddito da lavoro autonomo tra i redditi diversi ai fini fiscali e la titolarità di partita IVA.
Il ricorso è infondato.
Va premesso che, ricostruendo la portata precettiva dell’art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, per come autenticamente interpretato dall’art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), questa Corte, sulla scorta di Cass. S.U. n. 3240 del 2010, ha avuto modo di affermare più volte che l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata è genericamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante dall’esercizio abituale (ancorché non esclusivo) ed anche occasionale (oltre la soglia monetaria indicata nell’art. 44, comma 2, d.l. n. 269/2003, conv. con l. n. 326/2003) di un’attività professionale per la quale è prevista l’iscrizione ad un albo o ad un elenco, tale obbligo venendo meno solo se il reddito prodotto dall’attività professionale predetta è già integralmente oggetto di obbligo assicurativo gestito dalla cassa di riferimento (così, espressamente, Cass. n. 32167 del 2018, in motivazione, cui hanno dato continuità, tra le numerose, Cass. nn. 519 del 2019, 317 e 1827 del 2020, 477 e 478 del 2021). E trattasi di affermazione che discende agevolmente dalla lettura del combinato disposto degli artt. 2, comma 26, l. n. 335/1995, e dell’art. 44, d.l. n. 269/2003, entrambi cit., il primo dei quali, per quanto qui rileva, prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione a carico dei «soggetti che esercitino, per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell’articolo 49 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni ed integrazioni», mentre il secondo, a decorrere dal 1° gennaio 2004, estende tale obbligo anche ai «soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale […] solo qualora il reddito annuo derivante da dette attività sia superiore ad euro 5.000».
Nell’intento del legislatore, reso palese dalla lettera delle disposizioni citate, l’obbligatorietà dell’iscrizione presso la Gestione separata da parte di un professionista iscritto ad albo o elenco è collegata, infatti, all’esercizio abituale, ancorché non esclusivo, di una professione che dia luogo ad un reddito non assoggettato a contribuzione da parte della cassa di riferimento; la produzione di un reddito superiore alla soglia di euro 5.000,00 costituisce invece il presupposto affinché anche un’attività di lavoro autonomo occasionale possa mettere capo all’iscrizione presso la medesima Gestione, restando invece normativa mente irrilevante qualora ci si trovi in presenza di un’attività lavorativa svolta con i caratteri dell’abitualità.
Dirimente è, insomma, il modo in cui è svolta l’attività liberoprofessionale, se in forma abituale o meno; e se nell’accertamento di fatto di tale requisito ben possono rilevare le presunzioni ricavabili, ad es., dall’iscrizione all’albo, dall’accensione della partita IVA, dalle dichiarazioni rese ai fini fiscali o dall’organizzazione materiale predisposta dal professionista a supporto della sua attività, non è meno vero che trattasi pur sempre di forme di praesumptio hominis, che non impongono all’interprete conclusioni indefettibili, ma semplici regole di esperienza per risalire al fatto ignoto da quello noto.
Sotto questo profilo, deve escludersi che – come invece preteso dall’Istituto ricorrente – tali regole di esperienza siano passibili di irrigidirsi in virtù della normazione positiva dettata dagli artt. 61 e 69-bis, d.lgs. n. 276/2003, così da trapassare nel campo della presunzione legale: tanto l’art. 61, comma 3, d.lgs. n. 276/2003, nella parte in cui prevede che «sono escluse dal campo di applicazione del presente capo le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali», quanto il successivo art. 69-bis, comma 3, che esclude dalla presunzione di continuatività di cui al precedente comma 1 le «prestazioni lavorative svolte nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale», sono preordinati a dettare discipline di favore per i committenti e i prestatori di attività riconducibili ad una professione intellettuale per il cui esercizio sia necessaria l’iscrizione ad apposito albo professionale, stabilendo rispettivamente che esse non necessitano dell’individuazione di uno specifico progetto per essere dedotte in un contratto di collaborazione e che, ai fini fiscali, non possono presumersi continuative; si tratta, in altri termini, di disposizioni che operano l’una nell’ambito dei rapporti tra le parti contraenti e l’altra nei confronti dell’Erario, ma dalle quali non è possibile desumere alcuna presunzione iuris et de iure tale per cui un’attività libero-professionale che possa essere svolta solo previa iscrizione ad un albo o elenco debba necessariamente qualificarsi come “abituale” ai fini dell’iscrizione alla Gestione separata.
Resta piuttosto da osservare che, una volta chiarito che il requisito dell’abitualità dev’essere accertato in punto di fatto, valorizzando all’uopo le presunzioni ricavabili ad es. dall’iscrizione all’albo, dalle dichiarazioni rese ai fini fiscali, dall’accensione della partita IVA o dall’organizzazione materiale predisposta dal professionista a supporto della sua attività, ben può la percezione da parte del libero professionista di un reddito annuo di importo inferiore a € 5.000,00 rilevare quale indizio per escludere che, in concreto, l’attività sia stata svolta con carattere di abitualità, così come in concreto ritenuto dalla Corte territoriale: fermo restando che l’abitualità di cui si discute dev’essere apprezzata nella sua dimensione di scelta ex ante del libero professionista, coerentemente con la disciplina ch’è propria delle gestioni dei lavoratori autonomi, e non invece come conseguenza ex post desumibile dall’ammontare di reddito prodotto, dal momento che ciò equivarrebbe a tornare ad ancorare il requisito dell’iscrizione alla Gestione separata alla produzione di un reddito superiore alla soglia di cui all’art. 44, d.l. n. 269/2003, cit., che invece, come detto, rileva ai fini dell’assoggettamento a contribuzione di attività liberoprofessionali svolte in forma occasionale, non si tratta che di un ragionamento presuntivo mediante il quale si utilizzano circostanze note per risalire ad un fatto ignoto. Ed è appena il caso di soggiungere che, sebbene l’Istituto ricorrente abbia lamentato che, nel caso di specie, non sarebbero state adeguatamente valorizzate ulteriori circostanze fattuali acquisite al processo (l’accensione di partita IVA e il mancato inserimento del reddito da lavoro autonomo tra i redditi diversi), nulla della loro sussistenza è dato leggere nella sentenza impugnata, né l’Istituto ha specificamente illustrato in quale luogo e in quale grado del processo di merito esse sarebbero state veicolate nel giudizio e discusse tra le parti, con la conseguenza che, per questa parte, la censura deve reputarsi radicalmente inammissibile.
Il ricorso, pertanto, va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo, con distrazione in favore dell’avvocato B.E.B. che ha reso la prescritta dichiarazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per compensi, oltre ad euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge, da distrarsi in favore dell’avvocato B.E.B..
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
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