CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 marzo 2022, n. 8483
Tributi – IRPEF – Accertamento sintetico del reddito – Incrementi patrimoniali – Versamenti per aumento di capitale sociale – Calcolo incidenza sui redditi dichiarati – Determinazione del reddito medio di riferimento
Fatti di causa
1. Questa Corte, con sentenza n. 17406/2010, depositata il 23 luglio 2010, accoglieva il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno (n.169/02/2005), che aveva rigettato l’appello proposto dall’Ufficio avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Avellino (n.399/02/2001), che aveva accolto il ricorso presentato da F. G. contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, per l’anno 1995, dall’Agenzia delle Entrate, con metodo “sintetico” ex art. 38, quarto comma, d.P.R. n. 600 del 1973, con accertamento di un maggiore reddito di lire 143.344.000,00, ai fini Irpef e lire 48.302.000,00 ai fini ILOR. In particolare questa Corte evidenziava che il giudice d’appello non aveva fornito adeguata motivazione avendo accertato il versamento di lire 225.000.000,00 nel 1997, corrispondente a poco più dei 3/10 rispetto alla maggiore somma, per aumento del capitale sociale della E. s.r.l., di lire 725.000.000,00 indicata dall’Ufficio, avendo ritenuto tale somma “oggetto di regolare dichiarazione nell’anno in corso e nei 5 anni precedenti, laddove un semplice calcolo aritmetico dimostrava invece che la quota imponibile ad anno eccedeva ampiamente l’ammontare dei redditi dichiarati negli anni precedenti e su cui in base al principio fissato dall’art. 38, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973, la somma sborsata andava spalmata “. Aggiungeva che l’Ufficio nel ricorso aveva dedotto che il contribuente aveva dichiarato redditi lordi di lire 43.099.000,00 nel 1994, di lire 15.442.000,00 nel 1995, di lire 18.061.000,00 nel 1996, “non certo compatibili col superiore principio “.
2. La Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, nel giudizio di rinvio, accoglieva l’appello dell’Ufficio evidenziando che l’importo di lire 225.000.000,00 doveva essere spalmato nell’arco di 5 anni, con un valore medio di lire 45.000.000,00, mentre dovevano essere presi in esame i redditi del 1994 di lire 43.099.000,00, del 1996 di lire 18.061.000,00 e del 1995 di lire 5.443.000,00, il cui valore medio era pari a lire 25.534.000,00; di qui si evinceva che “il reddito medio ottenuto risulta inferiore di oltre 1/4 all’importo accertato attribuito per anno, con la conseguenza che l’operato dell’ufficio risulta legittimo”.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.
4. L’Agenzia delle Entrate ha depositato “atto di costituzione”, al solo fine di ricevere l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione della causa.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 38, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione vigente ratione temporis. Il giudice d’appello ha violato la disposizione in epigrafe sotto un duplice profilo: ha determinato il reddito medio dichiarato dal contribuente in lire 25.534.000,00, calcolato però erroneamente solo sulla base dei redditi dichiarati in tre anni, e segnatamente i redditi del 1994, del 1995 e del 1996, anziché tenere conto dei si anni previsti dalla norma; ha determinato la spesa per incrementi media in lire 45.000.000,00, calcolata però erroneamente spalmando la spesa per incrementi di lire 225.000.000,00 nell’arco di 5 anni, in luogo di 6 anni. In realtà, se il giudice d’appello avesse correttamente applicato la norma avrebbe individuato la spesa per incrementi patrimoniali in lire 37.500.000,00, pari alla somma di lire 225.000.000,00 divisa per i 6 anni in esame (dal 1997 al 1992). Inoltre, la somma dei redditi dichiarati dal contribuente dall’anno 1992 all’anno 1997 era di lire 536.573.000,00, che portavano il reddito medio annuo a lire 89.428.833, ossia lire 573.000.000,00 diviso 6. È evidente che il reddito medio corretto di lire 89.428.893 era superiore alla spesa media per incrementi annua di lire 37.500.000,00.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “motivazione omessa o insufficiente circa un punto decisivo della controversia “. Il giudice d’appello ha trascurato molti elementi istruttori dedotti dal ricorrente, avendo tenuto conto esclusivamente dei redditi dichiarati per gli anni 1994, 1995 e 1996, trascurando completamente i redditi dichiarati dalla G. negli anni 1992, 1993, e 1997. Allo stesso modo, avrebbe dovuto dividere la somma per spese relative ad incrementi patrimoniali di lire 225.000.000,00, in quella annua di lire 37.500.000,00, tenendo conto dei 6 anni in contestazione, e non solo per 3 anni.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “motivazione contraddittoria circa un punto decisivo della controversia”. Invero, il giudice d’appello dopo aver spalmato le spese per incrementi patrimoniali pari a lire 225.000.000,00 in 5 anni, inspiegabilmente ha fatto riferimento ai redditi solo per 3 anni, cioè agli anni 1994, 1995 e 1996. Avrebbe invece dovuto tenere conto anche dei redditi dichiarati dal contribuente nei 6 anni in contestazione, ossia dal 1992 sino al 1997.
4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “motivazione contraddittoria circa un punto decisivo della controversia”. Il giudice d’appello, infatti, ha ritenuto che “l’operato dell’ufficio risulta legittimo”, confermando l’avviso di accertamento impugnato nella sua integrale portata impositiva, che era però basata sulla spesa per incrementi di lire 725.000.000,00, ritenuta poche righe prima, invece, dallo stesso giudice come infondata.
5. I motivi primo, secondo, terzo e quarto, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono fondati.
6. Si premette che la sentenza del giudice d’appello è stata depositata l’11 gennaio 2012, sicché il ricorrente ha correttamente formulato il vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nella formulazione vigente prima della novella di cui al decreto-legge n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012.
6.1. Invero, l’art. 38 comma 5 d.P.R. 600/1973, in vigore dal 31 luglio 1994 all’11 agosto 1997, prevede che “qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei cinque precedenti”.
Ai sensi del comma 6 dell’art. 38, poi, si dispone che “il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.
6.2.Per questa Corte, in tema di accertamento con metodo cd. sintetico, è legittima l’applicazione dell’art. 38, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973 (nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 22 del d.l. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010) il quale reca una presunzione “iuris tantum” di favore per il contribuente, secondo cui la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall’Ufficio si presume sostenuta con redditi conseguiti non solo nell’anno in cui è effettuata, ma già a partire dai cinque anni precedenti, in misura costante, ferma restando, peraltro, la facoltà per il contribuente stesso di provare che il maggior reddito è costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (Cass., 6 febbraio 2019, n. 3403).
Pertanto, gli anni in contestazione sono 6, l’anno in cui è stato l’incremento patrimoniale per lire 225.000.000,00, che è il 1997, ed i 5 anni precedenti, quindi dal 1996 sino al 1992.
Solo successivamente, nel testo dell’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973, in vigore dal 3 dicembre 2005 al 30 maggio 2010, al comma 5, si prevede che la spesa per incrementi patrimoniali si presume sostenuta, salvo prova contraria, nell’anno in cui è stata effettuata e nei 4 anni precedenti. Con la modifica normativa, quindi, gli anni da prendere in considerazione erano divenuti 5, e non più 6.
6.3.Va, però, chiarito che l’art. 38 comma 5 d.P.R. 600/1973 detta una presunzione di favore per il contribuente, in quanto una volta accertata la spese per incrementi patrimoniali in un determinato anno, tale spese viene “spalmata” non solo nell’anno in cui è stata effettuata (per esempio nel 1997, data di versamento dei 3/10 dell’aumento di capitale sociale, ossia la somma di lire 225.000.000,00, a fronte di quella complessiva di lire 725.000.000,00), ma già a partire dai cinque anni precedenti, quindi dal 1992 al 1996.
6.4.Va, poi, considerato che il comma 6 dell’art. 38 d.P.R. 600/1973 consente al contribuente di fornire la prova contraria, dimostrando che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.
6.5.Pertanto, il contribuente ha due possibilità (Cass., sez. 5, 20 gennaio 2017, n. 1510; Cass., sez. 5, 15 luglio 2016, n. 14509; Cass., sez. 5, 6 febbraio 2019, n. 3403). In primo luogo, può dimostrare che, in uno dei sei anni coperti dalla presunzione, ha percepito redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta per un ammontare superiore, non solo alla quota di maggior redditi presunta per quell’anno, ma anche all’intero esborso, in quanto tali redditi sono superiori alla spesa per incrementi patrimoniali. Pertanto, può dimostrare, ad esempio, che nel 1997 (uno dei sei anni tra il 1992 ed il 1997) ha avuto reddito esenti proprio per lo stesso importo della spesa per incrementi. Tale prova elimina il fondamento della presunzione del maggior reddito non solo per l’anno 1997, ma per ciascuno dei cinque anni.
Oppure, in alternativa, ed è questa la seconda possibilità, il contribuente può dimostrare che in uno di tali anni, per esempio nel 1997, ha percepito un reddito esente o assoggettato a ritenuta alla fonte a titolo di imposta pari alla quota della spesa spalmata per ogni anno o di poco superiore. In tal caso, tale prova supera la presunzione di maggior reddito per quell’anno, ma non anche per ciascuno degli altri anni (1992, 1993, 1994, 1995 e 1996).
7. Nella specie, invece, in modo del tutto contraddittorio ed incomprensibile il giudice d’appello, da un lato, ha ritenuto che la spesa per incrementi patrimoniali pari a lire 225.000.000,00, dovesse essere spalmata “nell’arco di 5 anni”, con un valore medio di lire 45.000.000,00, senza tenere conto che gli anni di “spalmatura” erano 6 e non 5, ma, dall’altro, ha preso in considerazione solo i redditi dichiarati per 3 anni, ossia nel 1994, per la somma di lire 43.099.000, nel 1995, per la somma di lire 5.442.000,00, e nel 1996 per la somma di lire 18.061.000,00.
In tal modo, oltre ad aver errato nella “spalmatura” delle spese per incrementi patrimoniali in 5 anni, in luogo di 6, in base alla disciplina normativa vigente per l’anno in contestazione, ha anche errato nel non tenere conto dei redditi dei 6 anni, quindi dal 1992 sino al 1997.
Peraltro, avendo confermato “l’operato dell’ufficio” che “risulta legittimo”, ha anche violato il giudicato ormai formatosi, a seguito della sentenza di questa corte che aveva cassato con rinvio (n. 17406/2010), individuando le spese per incrementi patrimoniali nella somma di lire 225.000.000,00 nel 1997, in luogo di quella determinata dall’Agenzia delle entrate pari a lire 725.000.000,00.
8. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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