CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 novembre 2022, n. 33623
Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Discrezionalità del datore di lavoro – Incompatibilità con le esigenze di trasparenza e verificabilità della procedura – Illegittimità
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Catania, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012 e in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato in data 22 aprile 2014 a C. P. all’esito di una procedura collettiva e ha condannato la società datrice di lavoro M.R.P.E. Spa alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre che al risarcimento del danno in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con accessori e spese.
2. La Corte ha premesso che “nell’accordo raggiunto nel corso della procedura tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali è stato previsto, quanto al criterio delle esigenze tecnico produttive, che ‘i lavoratori saranno valutati dai responsabili delle aree operative tenendo conto della preparazione professionale e delle prestazioni qualiquantitative tali da consentire il mantenimento in servizio di lavoratori in possesso delle professionalità necessarie per la efficiente prosecuzione dell’attività aziendale”, con attribuzione di un punteggio a seconda del giudizio attribuito ad ogni dipendente (mediocre punti 250, sufficiente punti 500, buono punti 750, ottimo punti 1000)”; ha rammentato che la società aveva poi affermato che, nel procedere alla valutazione di ogni dipendente, si era tenuto conto di sette fattori.
Constatato che il reclamante aveva avuto un giudizio di “mediocre” e, quindi, 250 punti, rispetto ad altri dipendenti non licenziati che avevano avuto un giudizio e un punteggio migliore, ha accertato come determinante, ai fini della individuazione del P. quale dipendente da licenziare, il punteggio attribuito in relazione al criterio delle esigenze tecnico produttive ed organizzative. Richiamata, quindi, la pronuncia della Suprema Corte n. 7490 del 2015, la Corte territoriale ha ritenuto che, sebbene nel caso in esame apparentemente la graduatoria fosse rigida e oggettiva perché basata sull’attribuzione di punteggi, tuttavia, quanto al criterio delle esigenze tecnico produttive ed organizzative, “l’espressione di un giudizio, cui poi viene associato un punteggio, evidenzia l’esercizio di un ampio margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro”; ha sostenuto, pertanto, che “il criterio adottato non è oggettivamente verificabile e controllabile e, quindi, lascia spazio ad una scelta arbitraria dei dipendenti da licenziare, venendo meno così alla funzione dei criteri di scelta che è quella di sottrarre l’individuazione dei lavoratori da licenziare a qualsiasi margine di discrezionalità”.
3. Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso la società soccombente, affidando l’impugnazione a due motivi, cui ha resistito l’intimato con controricorso.
La ricorrente ha anche depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo di ricorso denuncia: “Violazione degli artt. 1175 c.c., 1375 c.c., degli artt. 4, comma 9, e 5, comma 1, legge n. 223 del 1991 (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)”. Si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto illegittimo il criterio di scelta basato sulle esigenze tecnico-produttive, deducendo che “tanto il legislatore quanto la giurisprudenza di legittimità hanno ritenuto illegittima quella valutazione che si discosta da criteri predeterminati e verificabili, tale da non consentire la formazione di una rigida graduatoria controllabile in fase di applicazione e non tout court qualsivoglia valutazione del datore di lavoro nella selezione del personale in esubero”.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 24 Cost. e degli artt. 115, 116, 346, 420, 437 c.p.c. e, in subordine, la nullità processuale della sentenza per manifesta illogicità della motivazione.
Si eccepisce che la Corte territoriale ha ritenuto che il datore di lavoro avrebbe effettuato, nella specie, una “arbitraria” applicazione del criterio di scelta riferito alle esigenze tecnico produttive e, tuttavia, non ha poi ammesso le richieste istruttorie volte a dimostrare le concrete circostanze prese in considerazione al fine di valutare la “preparazione qualiquantitativa di ciascun lavoratore”; si lamenta che la Corte catanese non avrebbe “in alcun modo valutato né la rilevanza della prova orale, né tanto meno la valenza probatoria della indicazione del teste B.”, quale “direttore tecnico e responsabile delle risorse umane, consulente aziendale”, al quale erano state affidate le valutazioni; si denuncia la manifesta illogicità della motivazione che avrebbe omesso l’esame delle richieste istruttorie formulate dalla società e avrebbe poi affermato che la scelta dei lavoratori da licenziare era stata effettuata in modo arbitrario.
2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, non possono trovare accoglimento, in quanto la sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza di legittimità, peraltro richiamata dalla Corte territoriale (v. Cass. n. 7490 del 2015), alla quale il Collegio intende dare continuità.
La legge n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, stabilisce che “l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’art. 4, comma 2, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative”.
A mente dell’art. 4, comma 9, della stessa legge, l’impresa deve comunicare per iscritto agli organi competenti, tra l’altro, la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1”.
Dalla lettura di tali disposizioni emerge che, per garantire la trasparenza della procedura, il criterio o i criteri prescelti devono essere oggettivi e non possono trovare applicazione discrezionale. Un criterio basato sulla discrezionalità non è verificabile, mentre la legge impone “il rispetto dei criteri” e quindi dà per presupposto che la loro applicazione sia verificabile. Un criterio non verificabile, in realtà, non è un criterio di scelta, è un diverso modo di fondare il potere di scelta, che prescinde dal rispetto di un criterio oggettivo (cfr. Cass. n. 12544 del 2011). Non vi può essere un’area residua di discrezionalità di scelta da parte del datore di lavoro nella quale non risulti operante un criterio predeterminato, al fine di evitare che egli possa scegliere a sua discrezione quali lavoratori in concreto licenziare in occasione di una riduzione di personale (Cass. n. 10424 del 2012). Nella giurisprudenza di questa Corte si è specificato dunque che, ai fini della individuazione dei lavoratori da collocare in cassa integrazione o da porre in mobilità, i criteri di scelta devono consentire di formare una graduatoria rigida che consenta di essere controllata, non potendo sussistere un margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro (cfr.: Cass. n. 6765 del 2002; Cass. n. 14728 del 2006; Cass. n. 6841 del 2010; Cass. n. 5582 del 2012). Persino nel caso in cui sia stato individuato un unico criterio di scelta, di per sé oggettivo, costituito dalla presenza in capo ai lavoratori dei requisiti per il collocamento in pensione, si è ritenuto che tale criterio possa divenire illegittimo in tutti i casi in cui la scelta contiene un elemento di discrezionalità tale da vanificare la trasparenza della procedura regolata dalla legge n. 223 del 1991 (Cass. n. 1938 del 2011; Cass. n. 9866 del 2007; Cass. n. 21541 del 2006; Cass. n. 12781 del 2003).
Si è aggiunto che se il datore di lavoro comunica un criterio vago, il lavoratore è privato della tutela assicuratagli dalla legge predetta, perché la scelta in concreto effettuata dal datore di lavoro non è raffrontabile con alcun criterio oggettivamente predeterminato (Cass. n. 23041 del 2018) e si finirebbe in realtà per predicare l’assoluta discrezionalità del datore di lavoro nell’individuazione dei lavoratori da licenziare (cfr. Cass. n. 27165 del 2009; Cass. n. 16588 del 2004).
Ancora da ultimo si è ribadito che i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità devono essere, tutti ed integralmente, basati su elementi oggettivi e verificabili, in modo da consentire la formazione di una graduatoria rigida e da essere controllabili in fase applicativa, e non possono implicare valutazioni di carattere discrezionale, neanche sotto forma di possibile deroga all’applicazione di criteri in sé oggettivi (Cass. n. 10119 del 2022).
Naturalmente la valutazione nella fattispecie concreta della oggettività del criterio di scelta, anche se concordato con le organizzazioni sindacali, e del margine di discrezionalità lasciato al datore di lavoro che risulti incompatibile con le esigenze di trasparenza e verificabilità della procedura spetta al giudice del merito.
E’ quanto accaduto nella controversia all’attenzione del Collegio, laddove la Corte di Appello, consapevole dei principi di diritto innanzi richiamati, ha ritenuto che, pur in presenza di una graduatoria, il criterio elaborato nella specie “non è oggettivamente verificabile e controllabile e, quindi, lascia spazio ad una scelta arbitraria dei dipendenti da licenziare”, esprimendo un apprezzamento di merito che non è suscettibile di sindacato in questa sede di legittimità, tanto più nelle forme della denuncia di violazioni di legge che mirano, in realtà, a realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio innanzi a questa Corte Suprema in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. n. 8758 del 2017).
Ne consegue l’infondatezza anche della censura che riguarda il governo delle prove e la supposta illogicità manifesta della motivazione perché la Corte siciliana ha giudicato a monte la intrinseca illegittimità del criterio, per come lo stesso era stato elaborato, rendendo evidentemente non rilevanti le richieste istruttorie della società.
3. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese forfettario al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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