CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 aprile 2018, n. 9319
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra posizione lavorativa nell’ambito del complesso aziendale – Onere probatorio gravante sul datore di lavoro – Onere di allegazione dei posti assegnabili incombente sul lavoratore
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma, in sede di reclamo ex lege n. 92 del 2012, con sentenza del 30 settembre 2015, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accertato l’illegittimità del licenziamento intimato il 27 febbraio 2013 a P. D. dalla M. srl per giustificato motivo oggettivo e, dichiarato comunque risolto il rapporto di lavoro, ha condannato la società al pagamento di una somma pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; ha altresì condannato la società alla rifusione “delle spese del giudizio sommario e del giudizio di opposizione nelle misure già liquidate nei rispettivi giudizi, nonché del presente giudizio che si liquidano in euro 3.803,00”.
La Corte territoriale ha ritenuto che la società non avesse assolto all’onere probatorio sulla medesima gravante in ordine all’impossibilità di ricollocare la lavoratrice in altra posizione lavorativa nell’ambito del complesso aziendale. Ha constatato che la società gestiva appalti in tutto il territorio nazionale con un livello occupazionale pari ad un dato medio per il 2013 di 1149 dipendenti e per il 2014 di 1611 occupati; ha accertato che dopo il licenziamento della D. erano stati assunti quasi 500 dipendenti; ha considerato che neanche in appello era “dato conoscere … quali e quanti fossero i cantieri operativi all’epoca del licenziamento, né tanto meno gli organici esistenti, in assenza peraltro di produzione del libro matricola dal quale poter desumere elementi utili per la valutazione dell’organico aziendale; ha ritenuto non bastasse “affermare che si hanno degli obblighi di assunzione (derivanti dalla contrattazione collettiva) per ritenersi esenti dalla conservazione del posto per i propri dipendenti, dovendo piuttosto dimostrare che nei cantieri dove sono avvenute le assunzioni dopo il licenziamento (e si tratta di centinaia di lavoratori) si è verificata non una scelta imprenditoriale ma una mera esecuzione di obblighi imposti dall’appalto ottenuto”.
2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società con 3 motivi. Non ha svolto attività difensiva la D. benché ritualmente intimata.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della I. n. 604 del 1966, dell’art. 2697 c.c., dell’art. 4 del CCNL Pulizia e Servizi Integrati/Multiservizi nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio circa la “insussistenza della possibilità di ricollocazione della lavoratrice presso diverso appalto”. Si sostiene che la Corte di Appello sarebbe incorsa in un duplice errore: “da una parte, quello di ritenere compiutamente assolto l’onere di allegazione rimesso alla parte ricorrente dalla giurisprudenza di legittimità circa l’esistenza di possibili alternative occupazionali all’interno della compagine aziendale; dall’altro, quello di non considerare in alcun modo il concreto atteggiarsi della procedura di cambio appalto nei servizi regolati dal CCNL (applicabile) nell’ambito del quale sussiste per la società subentrante nell’appalto un obbligo di assunzione dei lavoratori già ivi applicati”.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 356 c.p.c. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, lamentando, con una critica già adombrata nel primo motivo, “il mancato espletamento dell’attività istruttoria richiesta in primo grado”.
2. I motivi, congiuntamente scrutinabili per connessione, non possono trovare accoglimento.
Circa la doglianza secondo cui spettava alla lavoratrice indicare, con l’impugnativa di licenziamento, dove avrebbe potuto essere ricollocata all’interno della compagine aziendale, la più recente giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. n. 5592 e v. poi Cass. n. 12101 e 20436 del 2016) ha sancito che, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione al pari della prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili.
Tale orientamento si è andato consolidando (cfr. Cass. nn. 160, 618, 14178, 17631, 18833, 27792 del 2017) e non sono state prospettate ragioni per discostarsene.
Riguardo la dedotta insussistenza della possibilità di ricollocazione della lavoratrice presso diverso appalto, a fronte dell’obbligo di assunzione di ciascun lavoratore sancito dalla contrattazione collettiva di settore, la censura investe un accertamento di fatto, non censurabile in questa sede perché proposto al di fuori dei limiti imposti dall’art. 360, co. 1, n. 5, novellato, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, di cui parte ricorrente non tiene alcun conto.
Lo stesso rilievo in base al quale è quaestio facti quella dell’accertamento che vi fossero o non vi fossero altre posizioni specifiche in cui collocare la D. in azienda vale per il secondo motivo di ricorso nella parte in cui, in modo inappropriato, si deduce la violazione e falsa applicazione di una norma processuale e non si riportano neanche i contenuti specifici delle richieste istruttorie che sarebbero state disattese, precludendo in radice la possibilità di apprezzarne a questa Corte la decisività.
2. Con il terzo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., criticando quella parte della sentenza della Corte territoriale in cui condanna la società al pagamento “delle spese del giudizio sommario e del giudizio di opposizione nelle misure già liquidate nei rispettivi giudizi, nonché del presente giudizio che si liquidano in euro 3.803,00”. Si lamenta che così facendo la Corte avrebbe operato una duplicazione della condanna alle spese in considerazione del fatto che la sentenza di primo grado aveva già disposto in merito alla liquidazione delle spese di lite relative alla fase sommaria del giudizio.
L’assunto è infondato.
Una volta riformata la sentenza di primo grado, con caducazione anche della liquidazione delle spese ivi contenuta, la Corte di Appello ha correttamente provveduto a determinare le spese relative alle varie fasi del giudizio secondo il principio della soccombenza, e quindi ponendole interamente a carico della società, sebbene commisurandole alle misure già determinate in prime cure, anche relativamente alla fase in cui la società era risultata vittoriosa.
3. Conclusivamente il ricorso va respinto.
Nulla per le spese in difetto di attività difensiva dell’intimata.
Occorre dare atto invece della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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