CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 aprile 2018, n. 9326
Accompagnatori turistici – Omissioni contributive – Carattere subordinato del rapporto di lavoro
Rilevato
Che la Corte d’Appello di Firenze, con la sentenza n. 440 del 2011 ha respinto, ritenendo convincenti le valutazioni sul materiale acquisito adottate del primo giudice, l’appello proposto da G.G., titolare di agenzia di viaggi, avverso la sentenza del Tribunale di Pistoia che aveva rigettato l’opposizione a cartella esattoriale per omissioni contributive pari ad Euro 90.109,42, proposta dallo stesso G. nei confronti dell’INPS e di S.C.C.I. s.p.a. sul presupposto dell’infondatezza dell’accertamento della Guardia di Finanza che aveva affermato il carattere subordinato del rapporto di lavoro di taluni accompagnatori turistici (L.D., L.C., A.D.B., F.V. ed altri) negli anni 2003-2007 e l’irregolarità nei versamenti contributivi relativi alla dipendente I.F. occupata a tempo parziale da gennaio 2004 a febbraio 2007;
che avverso tale sentenza ricorre per cassazione G.G. sulla base di sei motivi: 1) omessa, insufficiente e o contraddittoria motivazione (art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ.) circa la omessa valutazione della eccezione sollevata dalla parte in ordine al valore da attribuire alla documentazione della Guardia di Finanza (acquisita dall’Inps e prodotta in primo grado) che, contraddittoriamente rispetto all’assunto dell’INPS, aveva sottoposto a tassazione quali redditi da lavoro autonomo i compensi percepiti dai presunti lavoratori subordinati,; 2) vizio di motivazione relativo alla valutazione delle prove testimoniali acquisite in primo grado nonché delle dichiarazioni rese alla Guardia di finanza dal padre dell’opponente non utilizzabili come confessione; 3) vizio di motivazione relativo alle valutazioni sulle modalità di espletamento dell’attività degli accompagnatori turistici contenute nel verbale della Guardia di Finanza e delle dichiarazioni rese da G. G. sulla natura subordinata dei rapporti dei medesimi accompagnatori turistici; 4) violazione e o falsa applicazione degli artt. 113, 115 e 116 cod. proc. civ. (art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ.) in relazione al fatto che la motivazione della sentenza era fondata solo sulla documentazione acquisita in primo grado senza attribuire rilievo a quella depositata dall’opponente e senza ammettere le prove per testi sollecitate dalla stessa parte; 5) violazione e o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. in ragione del fatto che la sentenza impugnata aveva ritenuto erroneamente soddisfatto dall’INPS l’onere probatorio sullo stesso incombente ; 6) violazione di norma processuale implicante la nullità della sentenza per violazione dei termini previsti dall’art. 435 cod. proc. civ. (art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ.) ;
che l’INPS ha rilasciato procura in calce alla copia notificata del ricorso:
Considerato
Che è contraddittoria la intitolazione del secondo motivo a vizi nella valutazione delle prove testimoniali acquisite in primo grado laddove si è riferito che nessuna prova per testi fu ammessa;
che il quarto ed il quinto motivo – sebbene intitolati alla violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ. – in realtà censurano la sentenza relativamente al ragionamento dalla stessa condotto in ordine al peso ed alla significatività delle acquisizioni probatorie, cadendo nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale, dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, mentre al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115, 116 c.p.c.e dell’art. 2697 c.c. può porsi, rispettivamente, solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; 3) abbia invertito gli oneri probatori. E poiché nel caso di specie la sentenza impugnata ha deciso sulla base di documentazione acquisita attraverso rituale produzione, valutando pienamente tale materiale e senza fare esclusiva applicazione della regola di cui all’art. 2697 cod.civ. per giungere all’esito del proprio giudizio, nessuna di queste tre situazioni è correttamente rappresentata nei motivi anzi detti che in sostanza criticano la sentenza per il valore attribuito agli elementi esaminati;
che il profilo di cui al quarto motivo, relativo alla doglianza della mancata ammissione della prova per testi articolata in primo grado, seppure sono stati riprodotti gli articolati presenti nel ricorso di primo grado, deve ritenersi inammissibile in quanto la mancata ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciata, per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 5654 del 2017);
che i primi cinque motivi per i tratti comuni, dunque, devono essere trattati congiuntamente perché connessi dall’unicità del tema della congruità della motivazione della sentenza e tutti incentrati sulla erroneità e contraddittorietà delle valutazioni degli elementi di cognizione della fattispecie contenuti nel verbale della Guardia di Finanza e sull’attendibilità e valenza delle dichiarazioni rese in quella sede dagli accompagnatori turistici e dal padre del ricorrente; che essi vanno dichiarati infondati;
che a tale giudizio si perviene alla luce del costante orientamento di questa Corte di legittimità secondo cui laddove la censura investe la valutazione delle risultanze istruttorie (attività regolata dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.) il relativo vizio può essere fatto valere ai sensi del n. 5 del medesimo art. 360 (Cass. n. 9593 del 2017; n. 15107 del 2013; n. 8315 del 2013) ed esso deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 20/6/2006, n. 14267; Cass. 26/3/2010, n. 7394);
che (vd. Cass. n. 25608 del 2013; n. 5133 del 2014) spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova e conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità;
che sul punto, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente che, in contrasto con il disposto del n. 5 del disposto dall’art. 360 primo comma n. 5 nella versione introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006 applicabile ratione temporis, non individua alcun fatto specifico, contestato e decisivo che sia stato trascurato, va osservato che la sentenza non presenta alcuna contraddittorietà o lacuna logica, non rilevando quanto eccepito dal ricorrente – addirittura quale impedimento logico al potere di accertamento del giudice – in ordine alla circostanza che l’Agenzia delle Entrate, nell’ambito della propria attività amministrativa di recupero dei tributi evasi abbia sottoposto a tributo il reddito tratto dall’attività in esame nella forma documentale accertata in sede ispettiva, ed ha adeguatamente motivato il proprio convincimento rilevando:
– quanto alla posizione di I.F., che la stessa ha svolto attività di lavoro subordinato quale contabile, a tempo parziale e con retribuzione di euro 150 al mese per due ore ogni due settimane, come emerso dalle ripetute dichiarazioni ritenute confessorie di G. G., padre del ricorrente e titolare di fatto dell’impresa, rese alla Guardia di Finanza nel corso delle quali lo stesso ammise di essere l’unico reale gestore della ditta solo nominativamente intestata al figlio il quale in realtà svolgeva un ruolo marginale all’interno dell’impresa;
– quanto agli accompagnatori turistici, perché anche a dare per ammesse le modalità di espletamento dell’attività indicate dalla parte, caratterizzate dalla libera accettazione del singolo incarico e dall’assenza di stringente controllo datoriale nel corso della prestazione che era resa in luoghi lontani dalla sede dell’impresa, ugualmente si ravvisava il vincolo della subordinazione giacché una volta accettato l’incarico il singolo accompagnatore non era più libero di operare secondo la propria organizzazione ma doveva conformarsi ai tempi ed alle modalità imposte dal programma di viaggio organizzato dalla ditta del G. e ciò realizzava l’essenziale per configurare la subordinazione, compendiato nell’inserimento nell’azienda per rendere una prestazione prestabilita e ricevere un compenso giornaliero fisso di 80 euro indipendentemente dalla durata del viaggio e dalla destinazione, oltre ad eventuale rimborso spese; che lo svolgimento logico della sentenza è corretto anche sotto il profilo della necessaria ricerca di indici significativi della subordinazione fondati sull’ effettivo inserimento nell’organizzazione d’impresa con soggezione al potere direttivo e di controllo altrui, non inficiati dalla mera considerazione fattuale che nelle concrete fattispecie non si è palesato l’utilizzo concreto di poteri disciplinari da parte del datore di lavoro, posto che l’utilizzo del potere in questione ha per logico presupposto che sia stata in fatto posta in essere una condotta passibile di essere sanzionata;
che, il valore attribuito dalla sentenza alle specifiche dichiarazioni rese da G.G. in sede di accertamento tributario è all’evidenza fondato sulla stretta correlazione dei fatti ivi rappresentati con quanto emerso a livello documentale e contabile in sede ispettiva, per cui, posto che neanche in questa sede il ricorrente ha dimostrato di aver mai contestato la veridicità di tali circostanze fattuali – onde la motivazione ben poteva ritenere pacifici tali dati – non assume specifico né decisivo rilievo il fatto che G. G. non fosse il formale titolare della ditta; né risulta proposto, ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ., un motivo di cassazione riferito alla violazione dell’art. 2735 comma 2 che regola le dichiarazioni confessorie;
che, infine, anche il sesto motivo è infondato giacché il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 435 cod. proc. civ., per la fissazione dell’udienza di discussione in grado d’appello, è ordinatorio e non perentorio, essendo privo di una autonoma funzione nel regime delle impugnazioni (Cass. n. 1179 del 1982);
che il ricorso va, dunque, rigettato e le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo considerando che l’INPS si è limitato a depositare procura.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 1000,00 oltre ad Euro 100 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15 per cento e spese accessorie di legge.
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