CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 gennaio 2019, n. 987

Licenziamento disciplinare – Mancata esecuzione dell’ordine superiore – Recidiva – Interpretazione degli atti negoziali

Fatti di causa

1. La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza pubblicata in data 26 gennaio 2016, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso di G.R. volto ad impugnare il licenziamento disciplinare inflitto in data 17.11.2008 dalla N. srl.

2. La Corte ha innanzitutto rilevato che “nella contestazione di addebito del 4.11.2008, richiamata nella lettera di licenziamento, non vi è alcun richiamo all’art. 15 del Codice Disciplinare Federambiente” e che “anche a volersi ritenere che sia stata applicata la norma in oggetto, dato che il licenziamento si fonda sull’episodio del 30.10.2008 (mancata esecuzione dell’ordine superiore) e sulla recidiva (…), il provvedimento espulsivo risulta comunque legittimo”, anche perché il R. “non ha invero impugnato i provvedimenti disciplinari che costituiscono la recidiva, né in precedenza, né in questo giudizio”; ha comunque aggiunto che in relazione ai fatti materiali sanzionati “il lavoratore non ha fornito giustificazione alcuna”.

Inoltre la Corte ha confermato il primo giudice per avere “esaminato puntualmente sia l’aspetto della dedotta dequalificazione, sia quello della pretesa nocività dell’ambiente, respingendo l’assunto attoreo secondo cui il rifiuto di adempiere sarebbe difeso dalla dequalificazione o dalla nocività dell’ambiente e/o delle mansioni”.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso G.R. con 3 motivi cui ha resistito la società con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

Ragioni della decisione

1. Il primo motivo di ricorso denuncia “violazione dell’art. 12 preleggi, art. 1362 c.c., 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.”, lamentando che la Corte di Appello si sarebbe “avventurata nella interpretazione della lettera di licenziamento e della strettamente connessa lettera di contestazione di addebito del 4.11.2008, escludendo che da essa potesse dedursi la sussistenza della volontà del datore di lavoro di far leva sulla mancanza del 30.10.2008 e cumulativamente sulla recidiva”; si eccepisce che per operare tale interpretazione la Corte bolognese avrebbe dovuto essere “stimolata” dalla proposizione di un appello incidentale della società; si afferma che “la sentenza impugnata è viziata per non aver ricercato la volontà del <mittente> della lettera” di licenziamento.

Il motivo è inammissibile perché tende a sollecitare una nuova interpretazione della lettera di licenziamento e della previa contestazione degli addebiti chiaramente preclusa in sede di legittimità.

Secondo i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità rispetto ai contratti, ma che può trovare applicazione anche con riguardo all’interpretazione degli atti unilaterali (da ultimo, in tema di contestazione disciplinare, v. Cass. n. 13667 del 2018), le valutazioni del giudice di merito in ordine all’interpretazione degli atti negoziali soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (ex plurimis, Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724 del 2003; Cass. n. 12360 del 2014), atteso che l’interpretazione della volontà è riservata all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), con una operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto (per tutte: Cass. n. 9070 del 2013).

Pertanto la contestazione proposta in sede di legittimità non può limitarsi a prospettare una interpretazione alternativa della dichiarazione unilaterale, fondata sulla valorizzazione di talune espressioni ivi contenute piuttosto che di altre, ma deve rappresentare elementi idonei a far ritenere erronea la valutazione ermeneutica operata dal giudice del merito, cui l’attività di interpretazione dell’atto è riservata (cfr. Cass. n. 15471 del 2017; Cass. n. 13667/2018 cit.). Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (Cass. n. 27136 del 2017).

Tali principi trovano applicazione nel caso di specie, ove il ricorrente senza adeguatamente sostanziare la violazione dei canoni dell’ermeneutica negoziale, si limita ad offrire una lettura alternativa degli atti impugnati rispetto a quella argomentatamente svolta dalla Corte d’Appello, ma, come detto, per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni, perché, quando sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006).

2. Il secondo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.” per avere la Corte bolognese negato che i provvedimenti disciplinari posti a base della contestata recidiva fossero mai stati impugnati, mentre la volontà del R. di sottoporre al sindacato del giudice la “illegittimità, nullità, sproporzione” delle sanzioni emergerebbe con chiarezza dal ricorso introduttivo del giudizio.

Anche tale censura non può trovare accoglimento perché deduce un errore di attività del giudice senza rispettare i canoni imposti dall’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., con la specificazione delle ragioni che determinerebbero la nullità della sentenza o del procedimento, invocando piuttosto una violazione di legge ai sensi del n. 3 del medesimo articolo; inoltre inammissibilmente propone una diversa valutazione della domanda contenuta nell’atto introduttivo del giudizio che è questione devoluta al giudice del merito cui spetta interpretare il ricorso e definire i limiti dell’oggetto del contendere.

Peraltro la Corte felsinea ha comunque aggiunto che in relazione ai fatti materiali sanzionati “il lavoratore non ha fornito giustificazione alcuna” e tale motivazione, attinente il convincimento del giudice d’appello circa la sussistenza dei fatti posti a fondamento dei comportamenti che hanno dato luogo alla recidiva, non è stata adeguatamente censurata.

3. Con il terzo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2696 c.c., degli artt. 115, 116, 244, 437 e 441 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 e 5 c.p.c.”, criticando la sentenza impugnata per aver respinto “l’assunto attoreo secondo cui il rifiuto di adempiere sarebbe dipeso dalla dequalificazione o dalla nocività dell’ambiente e/o delle mansioni”; si eccepisce che il R. avrebbe comprovato le patologie di cui era affetto con “copiose certificazioni”, circa “un centinaio di documenti”, e che per “accertare le effettive mansioni svolte i capitoli (di prova) erano del tutto idonei”; si sostiene infine che solo una CTU avrebbe potuto accertare la eventuale nocività dell’ambiente di lavoro in relazione alle mansioni espletate dal lavoratore ed alle sue condizioni di salute. Il motivo è inammissibile perché tende ad una diversa valutazione del materiale probatorio, anche con riferimento a documenti e capitoli di prova, certamente preclusa a questa Corte nel vigore del novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., richiamato dalla censura ma senza che siano rispettate le regole imposte da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 che ha interpretato rigorosamente la nuova formulazione della disposizione.

4. Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% ed accessori secondo legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.