CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 luglio 2018, n. 18819
Lavoro – Contratti di arruolamento – Rapporto a tempo indeterminato senza obbligo di continuità – Sospensione dell’obbligo retributivo e contributivo durante le pause tra un imbarco e l’altro
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Genova, con sentenza pubblicata il 26 giugno 2013, ha confermato la pronuncia del locale Tribunale che aveva respinto il ricorso proposto da M.C.G. nei confronti della F. Spa, condannando altresì l’appellante al pagamento delle spese del grado.
La Corte territoriale, per quanto qui ancora rileva, in ordine alla domanda avente ad oggetto l’illegittimità del termine apposto ai contratti di arruolamento a tempo indeterminato intercorsi tra le parti, ha ritenuto che parte attrice non avesse fornito la prova dell’esistenza di un interesse ad agire. Ha argomentato essere pacifico che “ad ogni sbarco venissero liquidate al Comandante G. le spettanze retributive, anche di t.f.r.” e che “nel caso di rapporto a tempo indeterminato senza obbligo di continuità vi sia sospensione dell’obbligo retributivo e contributivo durante le pause tra un imbarco e l’altro”; ha ritenuto non contestato che l’istante avesse percepito “il premio di fidelizzazione, che non è cumulabile con il regolamento di continuità del rapporto di lavoro ex art. 81 bis del CCNL”; ha rilevato che “dalle buste paga prodotte dallo stesso appellante risulta che gli sono stati riconosciuti gli scatti di anzianità in misura progressivamente crescente nel tempo”; ha concluso che “non risulta quindi puntualmente dedotto né tantomeno dimostrato se e quali sarebbero i maggiori emolumenti che deriverebbero dall’unificazione dei singoli contratti a tempo determinato”.
La Corte ligure ha anche respinto il motivo di impugnazione con cui il soccombente lamentava “l’illegittimo ricorso alla procedura di correzione materiale per la riforma della statuizione in merito alle spese processuali” del primo grado; ha osservato che “la correzione dell’errore materiale da parte del Tribunale è stata determinata dal fatto che la sentenza con i motivi depositata e comunicata alla parti via PEC in data 20.8.2012 riportava un dispositivo parzialmente difforme rispetto a quello pronunciato in udienza in data 28.6.2012 nella parte relativa alla liquidazione delle spese”, aggiungendo che “tale liquidazione peraltro era corretta, in considerazione della completa soccombenza del ricorrente” e che “a quanto lamentato può peraltro ben rimediarsi in questo grado, recependosi la statuizione del Tribunale”.
Infine la Corte ha motivato che “le spese processuali del grado seguono la soccombenza dell’appellante principale liquidate come da dispositivo”.
2. Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso il lavoratore con 3 motivi. Ha resistito la società con controricorso, illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 100 c.p.c., 326 e 373 cod. nav., per avere la sentenza impugnata ritenuto non sussistente “l’interesse ad agire in ordine alla domanda di declaratoria di illegittimità dei termini apposti al rapporto di lavoro subordinato e conseguenziale declaratoria di unicità del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Si deduce che “la Corte di Appello era chiamata non già a valutare le conseguenze economiche od altrimenti vantaggiose derivanti dalla unicità del rapporto di lavoro, siccome riservate a separato giudizio, quanto la corrispondenza o meno a legge degli <infiniti> contratti a tempo determinato intervenuti nel corso degli anni tra il G. e la F.”. Il motivo è infondato.
E’ consolidato il principio nella giurisprudenza di legittimità in base al quale anche il soggetto che propone una azione di nullità ex art. 1421 c.c. deve dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse ad agire secondo le norme generali e con riferimento all’art. 100 c.p.c. e che pertanto, in mancanza della dimostrazione, da parte dell’attore, della necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica, l’azione di nullità non può essere proposta sotto la specie di un fine generale di attuazione della legge (Cass. n. 4372 del 2003; Cass. n. 5420 del 2002; Cass. n. 338 del 2001; Cass. n. 7717 del 1991; Cass. n. 1475 del 1982; Cass. n. 1553 del 1981).
Di recente (Cass. n. 16626 del 2016) si è poi ribadito che requisiti per l’attribuzione alla parte del potere di agire in giudizio sono la concretezza e l’attualità dell’interesse di cui all’art. 100 c.p.c., a presidio di un uso responsabile del processo che così ingenti risorse impiega.
Necessaria presenza, dunque, della possibilità di conseguire un risultato concretamente rilevante, non altrimenti ottenibile se non mediante il processo e l’intervento necessario di un giudice. La concretezza dell’interesse all’agire processuale è misurata dall’idoneità del provvedimento richiesto a soddisfare l’interesse sostanziale protetto, da cui il primo muove. Sarebbe inutile dare ingresso ad una attività processuale allorquando dall’accoglimento della domanda non possa conseguire alcun vantaggio obiettivo per la parte ovvero alcuna modificazione giuridicamente rilevante. In tale aspetto l’interesse ad agire è manifestazione del principio di economia processuale.
Nella medesima prospettiva si pone la risalente e ricorrente affermazione dell’indispensabilità di un interesse attuale, coordinato ad una posizione giuridica già sorta in capo all’interessato e tale che la sua effettiva esistenza escluda il carattere meramente potenziale della lesione, onde evitare che la tutela venga richiesta in vista di situazioni future o meramente ipotetiche (cfr., ex plurimis, Cass. n. 487 del 1980; Cass. n. 6177 del 1985; Cass. n. 1897 del 1988; Cass. n. 10062 del 1998; Cass. n. 13293 del 1999; Cass. n. 5635 del 2002; Cass. n. 24434 del 2007). Al giudice non è consentito esprimersi preventivamente per orientare comportamenti, come se potesse dare “pareri giuridici” (così Cass. n. 14756 del 2014) ovvero risolvere questioni in vitro (ab imo Cass. n. 2785 del 1971).
Cass. n. 16626/2016 cit. poi, avuto riguardo alle azioni di mero accertamento laddove, secondo un cospicuo orientamento (tra le più recenti: Cass. n. 12893 del 2015 e n. 16262 del 2015), il requisito dell’attualità dell’interesse ad agire viene temperato, evidenzia che sebbene sia difficile negare che la certezza giuridica sia un bene cui ogni parte possa aspirare, anche in prevenzione, tuttavia si tratta di casi limitati alle ipotesi di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico in quanto l’interesse individuale deve essere coordinato con il canone processuale imposto dall’art. 100 c.p.c., che non protegge solo il singolo dagli atti di iattanza altrui (secondo l’interpretazione maturata nel secolo scorso) ma – in una prospettiva più ampia che riguarda l’efficienza dell’intero sistema giurisdizionale, in una situazione di risorse contingentate nonostante l’aumento esponenziale della domanda di giustizia – consente l’accesso ad essa ove sia indispensabile, inibendo l’uso non serio o addirittura abusivo del processo.
Ciò posto, nella specie la Corte territoriale ha diffusamente argomentato nel senso che dalla pretesa nullità dei termini apposti ai contratti di arruolamento non sarebbe derivata alcuna conseguenza favorevole nella sfera giuridica dell’attore; tale convincimento di merito non risulta efficacemente censurato dal ricorrente che si è limitato a denunciare in astratto il ragionamento della Corte di Appello ma senza indicare in concreto quali lesioni concrete ed attuali del proprio diritto o interesse giuridicamente protetto avesse determinato la successione dei contratti senza conversione, per cui la sentenza impugnata resiste alle doglianze che sul punto le vengono mosse.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 161, 287, 288 e 433 c.p.c., “sulla nullità della sentenza” che avrebbe proceduto “a confermare la correzione di errore materiale della divergenza dispositiva in ordine alla condanna alle spese della sentenza di primo grado con il procedimento ex art. 288 c.p.c. anziché attraverso il procedimento dell’appello”.
Si rammenta che il Tribunale di Genova, all’esito dell’udienza di discussione, aveva pronunciato dispositivo con cui, rigettando le domande attoree, aveva condannato il ricorrente al pagamento di spese che liquidava. Successivamente era stata depositata sentenza che recava un dispositivo il quale compensava integralmente le spese tra le parti. Si sostiene l’illegittimità della correzione materiale apportata dal primo giudice con cui si uniformava il dispositivo della sentenza depositata con quello pronunciato all’esito dell’udienza.
La censura non è meritevole di accoglimento. E’ pacifico che il dispositivo letto al termine dell’udienza in Tribunale recasse la condanna alle spese; dunque con la procedura di correzione dell’errore materiale si è uniformato il dispositivo originariamente pubblicato con la motivazione della sentenza con quello realmente depositato all’esito dell’udienza pubblica.
La Corte di Appello non ha fatto altro che prendere atto della correzione dell’errore, per di più aggiungendo che ad esso poteva comunque “ben rimediarsi in questo grado, recependosi la statuizione del Tribunale”, e tale ulteriore ed autonoma ratio decidendi della conferma della sentenza impugnata in primo grado non risulta adeguatamente censurata.
Come noto, per costante insegnamento di questa Corte regolatrice, ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario – per giungere alla cassazione della pronunzia – sia che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, sia che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso della impugnazione. Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza in toto, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. È sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (tra le altre: Cass. n. 23931 del 2007; Cass. n. 12372 del 2006; Cass. n. 10420 del 2005; Cass. n. 2274 del 2005; Cass. n. 10134 del 2004; Cass. n. 5493 del 2001).
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. della sentenza impugnata “nella parte in cui ha proceduto alla condanna alle spese del solo appellante a fronte del rigetto anche dell’appello incidentale” contenuto nel corpo della motivazione, dovendosi piuttosto, secondo l’assunto del ricorrente, provvedere alla compensazione delle spese per la reciproca soccombenza.
Il gravame è infondato.
A fronte della conferma, ad opera dei giudici d’appello, della sentenza di primo grado che aveva rigettato le domande del G., l’impugnazione incidentale della società non poteva che essere sostanzialmente condizionata all’accoglimento dell’appello principale del lavoratore; una volta respinto tale appello, quello incidentale restava assorbito, per cui nessuna soccombenza era ipotizzabile in capo alla F. Spa. Tanto vero che nel dispositivo, che certamente prevale sulla motivazione, la Corte di Appello di Genova si è pronunciata esclusivamente rigettando l’appello del G., condannandolo per conseguenza al pagamento delle spese e correttamente motivando che “le spese processuali del grado seguono la soccombenza dell’appellante principale”.
4. Conclusivamente il ricorso, esclusa nella specie ogni rilevanza della pregiudiziale comunitaria pure sollevata da parte ricorrente, va rigettato e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori secondo legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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