CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 luglio 2019, n. 18988
Tributi – TARSU – Assimilazione “ope legis” dei rifiuti provenienti da attività economiche a quelli urbani – Abrogazione – Conseguenze – Facoltà dei Comuni di disporre l’assimilazione ex art. 21, co. 2, lett. g), del d.lgs. n. 22 del 1997 – Applicabilità – Conseguenze
Fatti di causa
La controversia concerne l’impugnazione, da parte della S. s.r.l, degli avvisi d’accertamento con i quali si richiedeva il pagamento della TARSU per le annualità 2003, 2004, 2005, 2006, 2007 e 2008, notificati da A.E. s.r.l., incaricata della gestione e riscossione delle entrate del Comune di Ancona, riferita ad un’area (di 1.978 mq) adibita ad opificio industriale, di proprietà della parte intimata.
La CTP di Ancona respingeva il ricorso con decisione che la CTR delle Marche confermava, rigettando l’appello della contribuente ribadendo, tra l’altro, la legittimità degli atti impugnati essendo la pretesa fiscale derivata dalle risposte fornite dalla stessa società S., operante nel settore della sbarco ed imbarco di cereali, al questionario inviato da A.E., e riguardava la superficie di un magazzino, identificata catastalmente, utilizzata per il deposito/stoccaggio delle farine, costituenti rifiuti la cui natura non è certamente assimilabile a quella del rifiuto speciale, tossico o nocivo, non avendo la contribuente neppure dimostrato di aver sostenuto costi in proprio per lo smaltimento dei rifiuti prodotti.
Avverso la sentenza n. 12/4/12, depositata il 9/2/2012, la contribuente ha proposto ricorso davanti a questa Corte di Cassazione, sulla base di otto motivi, illustrati con memoria, cui ha resistito la A.E. s.r.l. con controricorso e memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1387, 1393, 2384, 2697 c.c., 115 c.p.c., per avere la CTR erroneamente ritenuto validi gli avvisi d’accertamento sottoscritti dal funzionario L.G., per non avere la contribuente fornito la prova della mancanza di potere rappresentativo in capo a quest’ultimo che, nominato procuratore, aveva soltanto la rappresentanza processuale di A.E., e per essersi il giudice di appello limitato a richiamare al riguardo la motivazione di altra sentenza (n. 91/01/2009), pronunciata in causa connessa sulla scorta di documentazione in quel giudizio prodotta.
Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 5, omessa (o insufficiente) motivazione circa l’eccepito difetto di rappresentanza e circa l’eccepita violazione del principio di non contestazione di cui all’art. 2697 c.c., nonché violazione del principio dispositivo di cui all’art. 115 c.p.c., per avere così la CTR finito per non considerare fatti decisivi per la risoluzione della controversia.
Le suesposte censure, che possono essere esaminate congiuntamente in quanto connesse, sono infondate e vanno disattese.
Quel che rileva, ai fini della esistenza e validità dell’atto impositivo, è che esso sia inequivocabilmente riferibile all’ente titolare del potere di emetterlo che, nella specie, è A.E., ed il giudice di appello ha ricavato dalla qualità di funzionario responsabile dei tributi responsabile dei tributi, in capo al sottoscrittore, e dunque “soggetto legittimato alla firma”, la titolarità della rappresentanza sostanziale, atteso che solo la estraneità del soggetto all’organizzazione dell’ente medesimo, circostanza la cui prova incombeva sulla contribuente, la avrebbe potuta escludere.
La stessa ricorrente, del resto, assume che dalla visura camerale prodotta in giudizio emerge che L.G. era stato nominato procuratore, ed il potere di rappresentanza processuale implica il potere di agire e di impegnare l’impresa per gli atti che rientrano nell’esercizio delle funzioni, in relazione al settore tributi, il che discende dalla collocazione all’interno dell’organizzazione della società, essendo stretta la correlazione, dettata dalle disposizioni del titolo quinto del libro quinto del codice civile, tra la rappresentanza sostanziale e processuale, di tal che il richiamo “per relationem” alla motivazione di altra sentenza, pronunciata in causa connessa, costituisce argomentazione ulteriore a sostegno della decisione adottata sulla scorta, appunto, di quanto innanzi esposto, e comunque non inficia la sostanziale correttezza.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 7, l. n. 212 del 2000, per omessa indicazione delle ragioni giuridiche e del presupposti di fatto della pretesa tributaria, e della conseguente nullità degli avvisi di accertamento impugnati, i quali non contengono alcun riferimento alla natura dell’attività svolta dalla contribuente e dei rifiuti prodotti, alle disposizioni comunali che avevano eventualmente disposto l’assimilazione dei rifiuti speciali a quelli urbani.
Con il quarto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 5, omessa motivazione circa il rigetto della eccezione concernente la violazione dell’obbligo motivazionale in ordine alle ragioni giuridiche ed ai presupposti della pretesa impositiva, non avendo la CTR specificato il perché l’area industriale, così come identificata nel questionario, era da sottoporre a tassazione.
Le suesposte censure, che possono essere esaminate congiuntamente in quanto connesse, sono inammissibili, prima che infondate, in quanto parte ricorrente chiede, in ragione dell’art. 7, co. 1., l. n. 212 del 2000, l’annullamento degli avvisi impugnati e tuttavia omette di richiamare il contenuto degli stessi, cosa che non consente a questa Corte di potere valutare la doglianza correlata al prospettato deficit motivazionale dell’atto impositivo, atteso che neppure è dato comprendere, avuto riguardo a quanto sul punto affermato dalla CTR, quali dati fossero stati portati a conoscenza di A.E., a seguito delle risposte fornite mediante la compilazione, da parte della contribuente, del “questionario”, sicché vale il principio affermato da questa Corte secondo cui “In base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso.” (Cass. n. 16147/2017).
Né va, comunque, trascurato il fatto che la motivazione dell’accertamento tributario non prescinde da quanto dichiarato dalla contribuente (denuncia di iscrizione alla TARSU presentata nel 1984, questionario) circa l’utilizzo e la metrature delle superfici tassabili e segnatamente del magazzino.
Con il quinto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 7, d.lgs. n. 22 del 1997, 62, co. 3, d.lgs. n. 507 del 1993, 184, d.lgs. 152 del 2006, relativamente alla natura dei rifiuti ed alla misura della tassa, avendo la contribuente dimostrato, con relazione tecnica a firma dell’Ing. R., che l’intera superficie sottoposta a tassazione può produrre e produce solo rifiuti speciali.
Con il sesto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 5, omessa (o insufficiente) motivazione circa la classificazione e natura dei rifiuti oggetto di accertamento, la misura della tassazione e della superficie tassabile, avendo la relazione tecnica appurato che solo nell’area della palazzina destinata ad uffici vi era la concreta possibilità di produrre rifiuti urbani.
Le suesposte censure, che possono essere esaminate congiuntamente in quanto connesse sono infondate e vanno disattese.
Con gli avvisi di accertamento veniva contestata dalla contribuente una superficie tassabile maggiore di quella originariamente dichiarata, ed avuto riguardo al magazzino utilizzato per lo stoccaggio delle farine, nel ricorso per cassazione si assume che si tratta di area destinata alla produzione di rifiuti diversi da quelli urbani, come documentato mediante relazione tecnica a firma dell’Ing. R., che la CTR ha erroneamente ritenuto carente la prova che i rifiuti prodotti dalla società S. fossero assimilabili “al rifiuto speciale, tossico o nocivo”, e che, ai sensi dell’art. 62, co. 3, d.lgs. n. 507 del 1993, non possono essere tassate aree nelle quali si producono unicamente rifiuti speciali.
La controricorrente, in ordine alla esclusione dalla superficie tassabile del predetto magazzino, deduce che la società S. ha genericamente allegato che i rifiuti che ivi si formano sono prodotti sfarinati che cadono a terra, e trattandosi di rifiuti provenienti da prodotti di uso alimentare che sono qualificabili rifiuti urbani, non rifiuti speciali, ed ancora che con delibera n. 342 del 1998 del consiglio comunale di Ancona “gli scarti vegetali in genere”, ai fini della TARSU, sono stati assimilati ai rifiuti urbani.
Questa Corte ha già affermato il principio secondo cui “In tema di tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, dalla determinazione della superficie tassabile, ai sensi del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 62, comma 3, sono escluse le porzioni di aree dove, per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione, si formano,di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi, ivi compresi quelli derivanti da lavorazioni industriali (del d.p.r. n. 915 del 1982, art. 2) – allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori dei rifiuti stessi in base alle norme vigenti – ma non anche i locali e le aree destinati all’immagazzinamento dei prodotti finiti, i quali rientrano nella previsione di generale tassabilità, a qualunque uso siano adibiti, posta dall’art. 62, comma 1, prima parte. Non assume rilievo, infatti, il collegamento funzionale con l’area produttiva, destinata alla lavorazione industriale, delle aree destinate all’immagazzinamento dei prodotti finiti, come di tutte le altre aree di uno stabilimento industriale, tra cui quelle adibite a parcheggio, a mensa e ad uffici, non essendo stato previsto tale collegamento funzionale fra aree come causa di esclusione dalla tassazione neanche dalla legislazione precedente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 507 del 1993” (Cass. n. 19461/2003).
Inoltre, sempre in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, questa Corte ha avuto modo di precisare che “per effetto dell’art. 17, comma 3, della l. n. 128 del 1998, abrogativo dell’art. 39 della l. n. 146 del 1994, venendo meno l’assimilazione “ope legis” ai rifiuti urbani di quelli provenienti dalle attività artigianali, commerciali e di servizi, purché aventi una composizione merceologica analoga a quella urbana, secondo i dettagli tecnici contenuti nella deliberazione CIPE del 27 luglio 1984, risulta pienamente operativo l’art. 21, comma 2, lett. g), del d.lgs. n. 22 del 1997, attributivo ai Comuni della facoltà di assimilare o meno ai rifiuti urbani quelli derivanti dalle attività economiche, sicché, a partire dall’annualità d’imposta 1997, assumono decisivo rilievo le indicazioni proprie dei regolamenti comunali circa l’assimilazione dei rifiuti provenienti dalle attività economiche ai rifiuti urbani ordinari.” (Cass. n. 22223/2016).
Nel caso di specie, non è contestato che il Comune di Ancona, esercitando che la potestà di formazione secondaria di cui all’art. 68, d.lgs. n. 507 del 1997, abbia disposto l’assimilazione ai rifiuti urbani degli scarti vegetali, e poiché la sentenza della CTR, con valutazione del materiale probatorio riservata al giudice di merito, ha ritenuto che la relazione tecnica prodotta in giudizio non fosse in grado di escludere la assimilabilità, per composizione merceologica, dei prodotti sfarinati ai rifiuti urbani, la avvenuta assimilazione regolamentare dei rifiuti priva di rilevanza la causa di esenzione (per espunzione della relativa superficie tassabile) di cui all’art. 62, co. 3, d.lgs. n. 507 del 1993, trattandosi, appunto, non di rifiuti speciali ma di rifiuti speciali assimilati, come sinteticamente ma correttamente affermato dal giudice a quo.
Quanto all’onere della prova gravante sulla contribuente, la sentenza della CTR ha fatto corretta applicazione del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui, “Relativamente alla superficie ritenuta tassabile incombe all’impresa contribuente l’onere di fornire all’amministrazione comunale i dati relativi all’esistenza ed alla delimitazione delle aree che, per il detto motivo, non concorrono alla quantificazione della complessiva superficie imponibile; infatti, pur operando anche nella materia in esame – quanto al presupposto della occupazione di aree nel territorio comunale – il principio secondo il quale l’onere della prova dei fatti costituenti fonte dell’obbligazione tributaria spetta all’amministrazione, per quanto attiene alla quantificazione della tassa è posto a carico dell’interessato (oltre all’obbligo della denuncia, d.lgs. n. 507 del 1993, ex art. 70) un onere di informazione, al fine di ottenere l’esclusione di alcune aree dalla superficie tassabile. Ponendosi tale esclusione quale eccezione alla regola generale secondo cui al pagamento del tributo sono astrattamente tenuti tutti coloro che occupano o detengono immobili nel territorio comunale.” (Cass. n. 9214/2018 cit.; n. 4766/2004; n. 17703/2004; n. 13086/2006; n. 17599/2009, n. 775/2011, n. 16235/2015).
Con il settimo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la CTR fatto discendere dalla tardiva costituzione nel giudizio di primo grado di A.E. l’implicita ammissione della fondatezza delle deduzioni di controparte.
Con l’ottavo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 5, omessa (o insufficiente) motivazione circa la mancanza di specifiche contestazioni nell’atto di costituzione in giudizio rispetto ai fatti dedotti dalla contribuente.
Le censure, scrutinagli congiuntamente, sono prive di fondatezza alla luce del consolidato principio secondo cui “Nel processo tributario, la violazione del termine previsto dall’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992 per la costituzione in giudizio della parte resistente comporta esclusivamente la decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi, sicché permane il diritto dello stesso resistente di negare i fatti costitutivi dell’avversa pretesa, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate e di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del detto decreto.” (Cass. n. 2585/2019; n. 947/2019; n. 18962/2005).
Per quanto concernente il richiamato principio di non contestazione (art. 115, co. 1, c.p.c.) è appena il caso di osservare che esso si applica anche nel processo tributario, che attiene soltanto ai profili probatori del fatto non contestato, e che, nella esaminata fattispecie, A.E. ha contestato in radice la pretesa esenzione dalla tassa, non ritenendo sussistenti i relativi presupposti, per cui non può fondatamente sostenersi un restringimento del thema decidendum, né tantomeno del thema probandum, essendo stata la pretesa contrastata già con l’atto impositivo, volto appunto ad affermare l’assoggettamento alla tassa dei locali per cui è causa.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in € 7.300,00 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie ed accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento a carico della parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ai sensi dell’art. 13 comma 1 bis d.p.r. n. 115/2002.