CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 maggio 2019, n. 13123
Tributi – Operazioni cosiddette di dividend washing e dividend stripping – Funzione elusiva dei contratti stipulati – Disciplina dell’abuso del diritto
Fatti di causa
Il Gruppo Editoriale L’E. spa, già Editoriale L’E. spa, incorporante dal 1998 L’Editoriale L.R. spa, propone ricorso per cassazione con trentasei motivi, illustrati con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, rigettandone l’appello, ha confermato la legittimità degli avvisi di accertamento, ai fini dell’IRPEG e dell’ILOR per gli anni 1993 e 1994, con i quali veniva contestata la indeducibilità delle quote di ammortamento relative al costo sostenuto per l’acquisto dell’usufrutto sul 98,98% delle azioni della C. spa nella titolarità della L. B.V., società di diritto olandese, con contratto del 22 novembre 1991, nonché la indetraibilità delle ritenute d’acconto operate sui dividendi percepiti in forza del diritto di usufrutto, in quanto la riqualificazione del contratto – simulazione della cessione del diritto di usufrutto a fronte della mera cessione del dividendo – appariva incontrovertibile, conforme come era all’orientamento anche del giudice di legittimità, che aveva escluso la natura reale di usufrutto contemplato nel detto contratto, in realtà di mera cessione del dividendo.
Il giudice d’appello, preso atto anzitutto del recente indirizzo di questa Corte con riguardo alla problematica dell’elusione fiscale, supportato dalla giurisprudenza comunitaria, indirizzo chiaramente orientato a contrastare le operazioni cosiddette di dividend washing e dividend stripping aventi mere finalità elusive, riducendo il carico fiscale sull’imponibile della società, ha rilevato come già con decisioni del 2005 la Corte di cassazione aveva modificato il precedente difforme indirizzo di non censurare operazioni finanziarie poste in essere senza vantaggi per il contribuente bensì in funzione elusiva, essendo i contratti stipulati finalizzati a conseguire unicamente vantaggi di natura fiscale.
“Con dette sentenze, che intervenivano proprio sulla tematica del “lavaggio fiscale” dei dividendi, sono stati posti principi generali di impedimento delle condotte elusive, che travalicavano i controversi limiti introdotti nell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973 dall’art. 7 del d.lgs. n. 358 del 1997. Tali condotte si interponevano fra quelle pienamente lecite perché volte a realizzare un legittimo risparmio di imposta e gli illeciti tributari caratterizzati dalla diretta violazione della norma”.
Il giudice d’appello ha osservato come, “in modo più specifico, la sentenza n. 22932 del 2005 ha sanzionato i contratti di cessione dell’usufrutto di azioni – che riguarda direttamente la fattispecie in esame, non ravvisandovi altra motivazione economica che quella del conseguimento del vantaggio fiscale (credito d’imposta per la società residente e mino tassazione con ritenuta a titolo di acconto per la società estera).
Successivamente – prosegue la CTR – la Corte di giustizia UE, con la sentenza C. 321/05 del 5 luglio 2007 ha affermato che, anche in assenza di recepimento della norma comunitaria antielusiva nella legislazione di uno stato membro, gli effetti relativi possono trovare applicazione in presenza di “un contesto normativo” che consenta la sua applicazione mediante un’interpretazione adeguatrice della normativa nazionale alle finalità delle Direttive comunitarie. Le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 30057 del 2008, e con la contestuale n. 30055 del 2008, hanno successivamente indicato che la fonte del principio che vieta l’abuso del diritto “in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria, quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano”, ribadendo e precisando ulteriormente tale principio nella sentenza n. 1465 del 2009.
“Di conseguenza – osserva il giudice d’appello – la sentenza della CTP di Roma impugnata non merita censura di sorta e quindi deve essere pienamente confermata; deve pertanto respingersi in toto l’appello del Gruppo editoriale L’E.”.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
Con i primi tre motivi, da trattare congiuntamente in quanto legati, la società contribuente censura la sentenza impugnata denunciando, sotto diversi profili, la nullità degli avvisi di accertamento per vizio della motivazione per relationem costituito dal “continuo rinvio ad ampie e non pertinenti pagine del p.v.c.”, “particolarmente copioso nonché complesso ed eterogeneo”.
La censura è infondata, avendo questa Corte chiarito come “ai fini dell’ammissibile motivazione “per relationem” dell’atto impositivo, è sufficiente il rinvio dell’avviso di accertamento al p.v.c. notificato al contribuente” (Cass. n. 29002 del 2017; tra le tante, Cass. n. 1906 del 2008).
Con i motivi da quattro a nove, da trattare congiuntamente in quanto strettamente legati, critica la sentenza, sotto plurimi profili, per il mancato rispetto delle garanzie procedimentali dell’accerta mento (la lettera di chiarimenti) prescritte dal comma 4 dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973.
I motivi sono in parte infondati ed in parte inammissibili, e vanno disattesi – nei limiti dello scrutinio ammesso nella presente sede – i dubbi di legittimità costituzionale, in quanto “la procedura di preventiva richiesta di chiarimenti al contribuente, prima dell’emanazione dell’avviso di accertamento, prevista dal quarto comma dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, introdotto dall’art. 7 d.lgs n. 358 del 1998 (disposizioni antielusive) non si applica alle contestazioni dell’amministrazione finanziaria aventi ad oggetto comportamenti considerati elusivi, tenuti dal contribuente nella vigenza della art. 10 legge n. 408 del 1990. La tesi contraria trova insuperabile ostacolo logico prima che giuridico, nell’univoca specificazione legislativa dell’ oggetto della “richiesta di chiarimenti” dato dalle indicazioni dei “motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2″ del medesimo articolo. Le previsioni di questi due commi, infatti, per il disposto dell’art. 9 d.lgs. n. 358 del 1997 non possono essere applicate ai comportamenti considerati elusivi” – come nella specie, risalendo i fatti, gli atti o negozi contestati ai primi degli anni novanta – in base alle precedenti disposizioni del richiamato art. 10 legge n. 408 del 1990 (Cass. n. 6528 del 2013, n. 20393 del 2007).
I motivi da dieci a trenta – da trattare congiuntamente in quanto strettamente legati -, con i quali si censura, sotto diversi profili, la sentenza impugnata con riguardo alla portata della clausola generale antielusione “non scritta” ed alla sua applicazione all’usufrutto di azioni, sono privi di pregio, in quanto la decisione della CTR del Lazio resiste alle critiche ad essa portate, e si rivela del tutto conforme al consolidato orientamento del giudice di legittimità.
Questa Corte già ebbe infatti ad affermare, con riguardo all’ipotesi in esame – e la decisione è puntualmente richiamata dal Giudice d’appello – che “nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art. 37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall’art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. In riferimento all’ipotesi in cui una società estera titolare di partecipazioni azionarie abbia costituito sulle stesse un diritto di usufrutto in favore di una società residente nel territorio dello Stato, al fine di eludere il regime fiscale previsto dall’art. 27, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 per gli utili spettanti a soggetti non residenti (cosiddetto “dividend stripping”), l’applicazione del predetto principio si traduce in un difetto di causa che dà luogo alla nullità del contratto, non conseguendo dallo stesso alcun vantaggio economico per l’usufruttuario, ma solo un risparmio fiscale per il nudo proprietario. Tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali, comporta l’inefficacia del contratto nei confronti del fisco, escludendo il credito d’imposta previsto per l’usufruttuario dei titoli dall’art. 14 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917: nel testo anteriore all’integrazione apportatavi dall’art. 7-bis del d.l. 9 settembre 1992, n. 372, conv. con modificazioni nella legge 5 novembre 1992, n. 429″ (Cass. n. 22932 del 2005).
In seguito, il Giudice della nomofilachia, esprimendosi in termini di inopponibilità all’amministrazione dei benefici fiscali così conseguiti, piuttosto che di nullità del contratto, fissò – con pronuncia anch’essa richiamata nella sentenza impugnata – il principio secondo il quale “in tema di imposte sui redditi, l’inapplicabilità “ratione temporis” dell’art. 14, comma 7-bis, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (introdotto dall’art. 7-bis del decreto-legge 9 settembre 1992, n. 372, conv. con mod. dalla legge 5 novembre 1992, n. 429) non esclude la possibilità di dichiarare inopponibili all’Amministrazione finanziaria, in applicazione di un principio generale antielusivo desumibile dall’art. 53 Cost., i benefici fiscali derivanti dalla costituzione, in favore di una società residente nel territorio dello Stato, di un diritto di usufrutto su azioni o quote di una società italiana possedute da un soggetto non residente (c.d. “dividend stripping”), qualora tale operazione sia configurabile come abuso del diritto, essendo posta in essere al solo scopo di consentire al cedente di eludere la ritenuta sui dividendi prevista dall’art. 27, terzo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, trasformando il reddito di partecipazione in reddito da negoziazione, ed alla cessionaria di percepire i dividendi, sui quali, oltre a subire l’applicazione della ritenuta meno onerosa di cui all’art. 27, primo comma, del d.P.R. n. 600, cit. (oltretutto recuperabile in sede di dichiarazione annuale), essa può avvalersi del credito d’imposta previsto dall’art. 14 del d.P.R. n. 917 del 1986, ed inoltre dedurre dal reddito d’impresa, “pro quota” annuale, il costo dell’usufrutto” (Cass., sezioni unite, 23 dicembre 2008, n. 30057).
E’ appena il caso di osservare che, a tacer d’altro, non sono ratione temporis pertinenti alla fattispecie in esame, anteriore all’entrata in vigore dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, introdotto dall’art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, i principi di cui alle sentenze richiamate a pag. 1 della memoria.
I motivi dal trentunesimo al trentaseiesimo concernono la richiesta di disapplicazione della norma tributaria per incertezza normativa, negata dal giudice d’appello.
Le censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate: il trentunesimo motivo non coglie la ratio decidendi, intendendo non correttamente il riferimento all’ICI; mentre con riguardo ai successivi motivi la CTR aveva già chiarito che “l’ipotizzata incertezza normativa e giurisprudenziale della fattispecie in esame appare superata dal chiaro e precisamente enunciato indirizzo E. dalle sopra richiamate recenti sentenze della Corte di cassazione univocamente orientate a censurare il comportamento elusivo del contribuente.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in euro 25.000 per compensi di avvocato oltre alle spese prenotate a debito.
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