CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7363
Licenziamento collettivo – Violazione dei criteri di scelta – Procedura di mobilità – Comunicazione – Elemento essenziale
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 2 dicembre 2016, la Corte d’appello di Roma, adita in sede di rinvio, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato il giorno 18/12/2005 dalla C.I. s.r.l. a T.B., V.D. e G.T. e, per l’effetto, ha condannato il Fallimento di B.A.M.E.S. s.r.l. (già C.I. s.r.I.) alla reintegra dei tre lavoratori nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché al risarcimento del danno nei confronti dei medesimi ai sensi dell’art. 18 L. n. 300/70.
La vicenda prende le mosse dal licenziamento collettivo intimato ai dipendenti della C. in data 18/12/2002 e dalla conseguente impugnativa, da parte degli stessi, per violazione dei criteri di scelta anche nei confronti della società S.E. S.p.A. che si era impegnata ad assumerli con mantenimento dei livelli di inquadramento e di retribuzione per una durata non inferiore a 36 mesi.
2.1. Respinta la domanda in primo e in secondo grado, questa Corte di legittimità, su ricorso dei lavoratori, ha reputato erronea la configurazione dell’accettazione da parte degli stessi della proposta irrevocabile di assunzione da parte della S. e della correlativa messa in mobilità da parte della B. S.p.A. (frattanto subentrata alla C.) in termini di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e, cassando la decisione impugnata, ha rinviato la causa alla Corte d’appello perché procedesse all’esame delle censure mosse alla procedura di licenziamento collettivo, inerenti ai criteri di scelta.
3. Per la cassazione della sentenza di accoglimento emessa dalla Corte territoriale in sede di rinvio propone ricorso, assistito da memoria, il Fallimento di B.A.M.E.S. s.r.l., affidandolo ad undici motivi.
3.1. Resistono, con controricorso, T.B., V.D. e G.T.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 100 cod. proc. civ., e, in subordine, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. per motivazione apparente sul sopravvenuto difetto d’interesse ad agire dei ricorrenti in riassunzione.
1.1. Il secondo motivo censura la decisione impugnata per violazione degli artt. 52, 92, 93, 95, 96, 101 e 112 per non essere stata ritenuta dalla Corte l’indefettibilità della domanda di ammissione al passivo da parte dei lavoratori mentre, con il quinto motivo, sempre sotto il medesimo profilo, si denunzia la violazione dell’art. 52 della legge fallimentare deducendosi che qualsiasi azione avrebbe dovuto essere intrapresa in sede fallimentare.
1.3. I tre motivi, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati.
Giova premettere, al riguardo, che la differenza fra l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. consiste nel fatto che, nel primo caso, l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile, ritualmente ed inequivocabilmente formulata, mentre, nel secondo, l’omessa trattazione riguarda una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione (Cass. n. 20961 del 08/09/2017; Cass. n. 25714 del 04/12/2014; Cass. n. 25761 del 05/12/2014).
Con riguardo a tale ultima violazione, poi, va rilevato che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità ( fra le altre, Cass. n. 23940 del 2017);
Relativamente, infine, alla denunziata motivazione apparente, va rilevato che questa Corte ha affermato che in caso di censura per motivazione mancante, apparente o perplessa, spetta al ricorrente allegare in modo non generico il “fatto storico” non valutato, il “dato” testuale o extratestuale dal quale esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale e la sua “decisività” per la definizione della vertenza (Cass. n. 13578 del 02/02/2020) e, d’altra parte, per aversi motivazione apparente occorre che la stessa, pur se graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consenta alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 comma 6 Cost. (sul punto, fra le altre, Cass. n. 13248 del 30/06/2020);
1.4. Nel caso di specie, deve escludersi che la Corte abbia omesso di pronunziarsi sul dedotto sopravvenuto difetto di interesse ad agire dei tre lavoratori nei confronti del Fallimento dovuto all’omessa domanda di ammissione al passivo, né, sul punto, la motivazione della Corte territoriale può dirsi solo apparente.
Invero, sicuramente non si versa in ipotesi di omessa pronunzia né, tantomeno, di motivazione apparente là dove si consideri che il giudice di secondo grado, motivando sulla propria competenza a delibare circa la domanda formulata dai ricorrenti in riassunzione, ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte (fra le altre, Cass. n. 19308 del 29709/2016), secondo la quale, in caso di fallimento della società datrice, compete al giudice del lavoro la cognizione non soltanto sulle domande del lavoratore di impugnazione del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto dirette ad ottenere una pronunzia costitutiva, ma anche su quella di condanna generica al risarcimento dei danni, non comportando tale pronunzia alcun accertamento aggiuntivo circa il “quantum” dei risarcimento, né imponendo lo scorporo della domanda per la preventiva verifica in sede di accertamento dello stato passivo innanzi ai competenti organi della procedura fallimentare a tutela degli altri creditori, dovendosi ritenere, sul piano della ratio legis, l’inutilità di una simile verifica, idonea ad appesantire ingiustificatamente la durata del processo.
La Corte ha poi aggiunto che la propria competenza a decidere è stata espressamente stabilita dalla Corte di cassazione con la sentenza di rinvio, talché non avrebbe potuto essere modificata; la motivazione della Corte d’appello è diffusa ed articolata sul punto.
1.5. Esclusa la ipotizzabilità di motivazione apparente ovvero di un difetto di pronuncia, va rilevato come non possano che essere reputate infondate le censure di parte ricorrente con riguardo all’omessa presentazione di istanza di ammissione al passivo da parte dei controricorrenti, alla luce della mentovata giurisprudenza di legittimità.
Può, conclusivamente, affermarsi, al riguardo, che non v’è dubbio che la domanda di ammissione al passivo rappresenti un atto del creditore indefettibile per la sua partecipazione al concorso, nondimeno, ciò non gli preclude la possibilità di ottenere l’accertamento del proprio credito dinanzi al giudice del lavoro.
2.1. Con il quarto motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 42, 43, 44, 52 e 56 della legge fallimentare ovvero violazione della medesima normativa ai sensi dell’art. 360 comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per l’inopponibilità della sentenza rescindente alla Curatela essendo stata la stessa emessa nei confronti del fallito dopo la dichiarazione di fallimento.
La censura è infondata e, pertanto, non può trovare accoglimento.
Al riguardo va rilevato che l’intervenuta modifica dell’art. 43 I. fall. per effetto dell’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006, nella parte in cui stabilisce che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”, non comporta l’interruzione del giudizio di legittimità, posto che in quest’ultimo, in quanto dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge (Cass. n. 27143 del 15/11/2017).
Il processo di cassazione, infatti, caratterizzato dall’impulso d’ufficio, non è soggetto ad interruzione in presenza degli eventi previsti dagli artt. 299 e seguenti cod. proc. civ., ivi compresa la dichiarazione di fallimento di una delle parti, poiché tali norme si riferiscono esclusivamente al giudizio di merito e non sono suscettibili di applicazione analogica a quello di legittimità.
Come correttamente evidenziato dal giudice di secondo grado, d’altro canto, l’impossibilità di applicare, in via analogica, l’istituto della interruzione per uno degli eventi di cui all’art. 299 cod. proc. civ., vale a maggior ragione ove detti eventi si riferiscano alla parte, considerato che quello per cassazione è un giudizio “ab initio” fra difensori, volto esclusivamente alla soluzione di questioni giuridiche cui solo il difensore può dare un suo contributo (sul punto, Cass. n. 20004 del 14/10/2005; Cass. n. 19500 del 12/09/2006, Cass. n. 195 del 09/01/2007).
Sul punto, la Corte Costituzionale (sent. n. 109/05), con riferimento ad un procedimento in cui era deceduto il difensore, pur prendendo atto della presenza di un problema di costituzionalità sul rilievo che non erano idonei a giustificare l’esclusione dell’interruzione né il carattere officioso del giudizio di Cassazione né la tesi con cui si vorrebbe attribuire scarso valore alla discussione orale in udienza – ha dichiarato inammissibile la questione, sostenendo che esso implicava la soluzione di delicate questioni in ordine ai meccanismi di riattivazione del giudizio che solo il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, avrebbe potuto definire (Cass., n. 20004 del 14.10.2005 cit.).
3. Con il sesto motivo si allega la violazione dell’art. 434 cod. proc. civ. denunziandosi che l’atto d’appello avrebbe contenuto esclusivamente la pedissequa ripetizione degli atti dei precedenti gradi di giudizio.
Premesso che attiene alla violazione di legge la deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente una attività interpretativa della stessa, va rilevato che la Corte d’appello, a fronte della censura della attuale ricorrente, ha correttamente escluso che potesse ipotizzarsi qualsivoglia violazione delle prescrizioni inerenti al ricorso di cui all’art. 434 cod. proc. civ., ed ha, quindi motivato circa il rispetto del requisito di specificità, considerato che i lavoratori avevano richiamato tutte le proprie precedenti difese, il contenuto della sentenza di rinvio, e riproposto le proprie originarie domande.
4. Con il settimo motivo si denunzia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 18 L. n. 300 del 1970 in combinato disposto con gli artt. 1223 e 1227 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ. con riguardo alla dedotta mancata pronunzia circa l’aliunde perceptum o all’aliunde percipiendum.
La censura, difettando dei requisiti di cui all’art. 366 comma 1 n. 6 cod. proc. civ. è inammissibile.
4.1. Hanno precisato, al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 34469 del 27/12/2019), non solo che sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c. p. c., le censure afferenti a domande di cui non vi sia compiuta riproduzione nel ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità.
D’altra parte, è consolidato il principio secondo cui i requisiti di contenuto forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c. p. c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 13/11/2018).
Nel caso di specie, appare evidente dalla piana lettura del motivo di ricorso come non solo non appaia riportata l’eccezione che si assume avanzata in secondo grado, ma, inoltre, non ne sia nemmeno indicata la collocazione, talché è inibito a questa Corte verificare se la stessa fosse stata correttamente e tempestivamente proposta in sede di merito.
5. Con l’ottavo motivo si censura la decisione impugnata per violazione del limite del devolutum di cui al combinato disposto degli artt. 384, comma 2, e 394 cod. proc. civ., con il nono motivo si allega la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. in relazione all’art. 111 Cost., con il decimo e l’undicesimo motivo si deduce la violazione dell’art. n. 4 L. n. 223/1991 in relazione rispettivamente agli artt. 156, comma III, cod. proc. civ., 1367, 1419, 1424 cod. civ. 2697 cod. civ., nonché l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione fra le parti, con riguardo ai criteri di scelta.
5.1. I quattro motivi, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati.
Va preliminarmente richiamato quanto già osservato al punto 1.3. circa la nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost.
Giova, poi, evidenziare come la Corte territoriale abbia effettivamente deciso nei limiti del devolutum sulla base delle censure rivolte alla procedura di licenziamento collettivo avanzate dai tre lavoratori ed entro il perimetro tracciato dalla Corte di cassazione.
Essa ha infatti escluso che si fosse verificata una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, sulla base dei fatti successivi all’accordo del 15/03/2005 – con cui i lavoratori avevano accettato l’offerta di assunzione da parte della società S.E. – atteso che, in dispregio di tale accordo, con successivo verbale negoziale del 28/11/2005, era stata stabilita la loro collocazione in C.I.G.S. per 24 mesi con soli sei mesi di effettivo lavoro: a tale accordo i ricorrenti avevano reagito mediante l’invio di atti formali di messa in mora ad entrambe le società.
Quanto alla legittimità del recesso, che è stato ritenuto tempestivamente impugnato, la Corte ha rilevato la sussistenza di una vera e propria omissione dei criteri per l’individuazione dei lavoratori da licenziare, non essendosi provveduto, altresì, all’invio delle prescritte comunicazioni non solo alla organizzazione sindacale UGL ma anche alla DPL.
5.2. Il giudice di secondo grado ha correttamente richiamato, al riguardo, la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 luglio 1991 n. 223, finalizzata alla tutela, oltre che degli interessi pubblici e collettivi, soprattutto degli interessi dei singoli lavoratori coinvolti nella procedura, la sanzione dell’inefficacia del licenziamento, ai sensi dell’art. 5, terzo comma, ricorre anche in caso di violazione della norma di cui al nono comma dell’art. 4, che impone al datore di lavoro di dare comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali, delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; tale inefficacia può essere fatta valere da ciascun lavoratore interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni previsto dal citato art. 5, mentre al relativo vizio procedurale può essere dato rimedio mediante il compimento dell’atto mancante o la rinnovazione dell’atto viziato (Cfr., SU 11/05/2000, n. 302 e SU 13/06/2000, n. 419).
Come noto, non essendo prescritta alcuna comunicazione dei motivi del recesso al singolo lavoratore, essendo richiesto esclusivamente l’atto scritto, soltanto attraverso le comunicazioni di cui all’art. 4 comma 9 è reso possibile all’interessato conoscere, in via indiretta, le ragioni della propria collocazione in mobilità; afferma questa Corte, infatti, che la comunicazione che l’impresa che intende avviare la procedura di mobilità e quindi di licenziamento collettivo è tenuta a dare all’ufficio regionale del lavoro ai sensi dell’art. 5 della legge 23 luglio 1991 n. 223 non può considerarsi mero adempimento formale ed accessorio, ma elemento essenziale della procedura, come si evince dall’art. 4 della citata legge (cfr., sul punto, Cass. n. 11258 del 28/08/2000).
Non v’è dubbio che la motivazione della Corte d’appello sul punto si atteggi in modo particolarmente sintetico; nondimeno, essa consta di quanto appare necessario a comprendere che, in violazione del combinato disposto degli artt. 5 comma quinto e 4 comma nono della legge n. 223 del 1991, il datore di lavoro ha omesso di indicare i criteri per l’individuazione dei lavoratori da licenziare, nonché le modalità attuative di tali criteri, non provvedendo, altresì, non solo alla comunicazione degli stessi alla UGL, ma anche al competente ufficio territoriale per il lavoro e nulla è stato allegato in contrario dalla difesa della attuale ricorrente.
6. A fronte di tale omissione datoriale, la motivazione resiste anche là dove si ritenga correttamente non dovuta la comunicazione alla UGL per non essere la stessa presente in azienda, alla luce del disposto di cui all’art. 4, comma 2 (richiamato dalla comma 9) che prescrive che la comunicazione debba essere inviata alle rappresentanze sindacali aziendali, nonché alle rispettive associazioni di categoria.
L’omissione della indicazione dei criteri di scelta e della comunicazione al competente ufficio territoriale del lavoro inficia, comunque, la legittima produttività di effetti dell’atto.
7. Il terzo motivo, con cui si allega la violazione dell’art. 18 L. n. 300 del 1970, sulla cui base avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile la richiesta di emissione dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro per effetto della integrale cessazione dell’attività aziendale del datore di lavoro è fondato e, pertanto, deve essere accolto.
Questa Corte ha più volte affermato (da ultimo, Cass. 28/01/2020, n. 1888, V. anche Cass. n. 28703 del 2011), che la reintegra è un effetto della pronuncia emessa ex art. 18 I. n. 300 del 1970, estranea all’esercizio di diritti potestativi del datore di lavoro, che quindi in ogni momento può dedurne la totale o parziale inapplicabilità al caso oggetto di lite.
La tutela reale del posto di lavoro non può spingersi fino ad escludere la possibile incidenza di successive vicende determinanti l’estinzione del vincolo obbligatorio.
Va compresa tra queste ultime la sopravvenuta materiale impossibilità totale e definitiva di adempiere l’obbligazione, non imputabile a norma dell’art. 1256 cod. civ., che è ravvisabile nella sopraggiunta cessazione totale dell’attività aziendale, da accertare, caso per caso, per es. anche ove l’imprenditore sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori (sul punto, Cass. n. 7267 del 1998).
71. La definitiva cessazione dell’attività aziendale, nel senso della disgregazione del relativo patrimonio, rende impossibile il substrato della prestazione lavorativa, legittimando – secondo la disciplina degli artt. 1463 e 1256 cod. civ., da coordinare con quella specifica dei licenziamenti individuali (in particolare con la legge n. 604 del 1966) – il recesso del datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo: ne consegue che la sussistenza di tale cessazione vada accertata caso per caso.
Pertanto, qualora nelle more del giudizio promosso dal lavoratore per la declaratoria della illegittimità di un licenziamento precedentemente intimato, sopravvenga un mutamento della situazione organizzativa e patrimoniale dell’azienda tale da non consentire la prosecuzione di una sua utile attività, il giudice che accerti l’illegittimità del licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno, con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto.
La sopraggiunta impossibilità totale della prestazione si estrinseca, infatti, in una vera e propria causa impeditiva dell’ordine di reintegrazione e della tutela ripristinatoria apprestata dall’art.18 della L. 20 maggio 1970 n. 300 precludendo al lavoratore illegittimamente licenziato la possibilità di ottenere il soddisfacimento del suo diritto alla continuazione del rapporto (Così, Cass. n. 1888 del 2020 cit., nonché, Cass. sent. n. 12245 del 1991; n. 12249 del 1991; n. 1815 del 1993; n. 7189 del 1996).
Questa Corte ha affermato, d’altro canto, (cfr. Cass. n. 16136 del 2018 e Cass. n. 2983 del 2011) che la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro può essere disposta anche nei confronti di società poste in liquidazione, ma solo se l’attività sociale non sia definitivamente cessata e non vi sia stato l’azzeramento effettivo dell’organico del personale. Tale presupposto, tendenzialmente insussistente in presenza di un intervenuto fallimento, può, tuttavia, verificarsi là dove sia stato previsto un esercizio provvisorio dell’attività. Deve, pertanto, escludersi che, stabilito l’assoggettamento della fattispecie al regime di tutela reale, sia irrilevante, ai fini dell’emissione di un ordine di reintegra, il venir meno dell’attività produttiva, quale fatto sopravvenuto in corso di giudizio e idoneo, qualora venga provato, a costituire ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione e art. 1463 cod. civ..
L’accertamento in questione non è stato effettuato nella specie, nella quale la Corte di appello ha del tutto pretermesso tale profilo nel proprio iter motivazionale, non avendo proceduto ad esaminare la conseguibilità in fatto della reintegra nel posto di lavoro ed occorrendo, invece, all’uopo verificare, alla stregua degli elementi probatori addotti, se l’attività aziendale fosse o meno completamente cessata con azzeramento dell’organico aziendale, secondo quanto come allegato dalla società oggi ricorrente.
8. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il terzo motivo di ricorso deve essere accolto, dichiarato inammissibile il settimo motivo, rigettati gli altri.
La sentenza va cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo di ricorso, inammissibile il settimo, rigettati gli altri.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.
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