CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2022, n. 8631
Collaboratore scolastico – Risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato – Requisiti per l’accesso al pubblico impiego – Sentenza di patteggiamento – Reato ex artt. 73, 80, co. 2, D.P.R. n. 309/1990
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 1382/2019, confermava la decisione del locale Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta da A. B. nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità dei provvedimenti del Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio che l’aveva dichiarato decaduto dalle graduatorie permanenti provinciali per l’anno scolastico 2013-2014 (tramite le quali era stato assunto a tempo indeterminato), e del Dirigente Scolastico del Liceo Statale “M. M.” sito in Roma che, conseguentemente, aveva dichiarato la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza immediata.
2. Il B. aveva dedotto di essere stato assunto in qualità di “collaboratore scolastico” (personale ATA) con decorrenza dall’1/9/2014 con contratto a tempo indeterminato, di aver svolto l’attività presso il Liceo Statale “M. M.” di Roma, di essere stato licenziato illegittimamente per via di una risalente condanna penale del 2004 di cui ad una sentenza di patteggiamento per una pena pari ad anni 4 e mesi 6 di reclusione e multa pari ad euro 10.000,00, in relazione al reato di cui agli artt. 73, 80, comma 2, del d.P.R. n. 309/1990. Aveva evidenziato che la pena patteggiata era già stata estinta al momento della pubblicazione del bando per l’inserimento in graduatoria e che per tal motivo non l’aveva indicata nella domanda.
3. La Corte territoriale riteneva che il Tribunale di Roma avesse correttamente applicato l’art. 445, comma 1 bis, cod. proc. pen. nella versione in vigore ratione temporis dall’anno 2003, che prevede un’espressa equiparazione tra la sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna e che, pertanto, fosse da ritenersi legittimo il decreto decadenziale del Dirigente ai sensi dell’art. 1 l. n. 16 del 1992. Considerava infondata la censura del B. in quanto, nello specifico, l’applicazione della pena rilevava come atto giuridico esterno alla fattispecie, quale condizione ostativa e fonte di esclusione dall’inserimento in graduatoria, ex art. 1, lett. d) l. n. 16 del 1992 (poi sostituita dall’art. 58 d.lgs. n. 267 del 2000 e novellata dall’art. 10 del d.lgs. n. 235 del 2012). Evidenziava che la tesi del B., basata sul richiamo a Cass. n. 27071/2013, riguardava la diversa ipotesi in cui il fatto principale oggetto di causa fosse proprio quello al quale si riferiva la sentenza di patteggiamento. Escludeva, poi, che rilevasse la perdurante efficacia della pena o la presunta dichiarazione mendace del B. in occasione della presentazione della domanda, essendo sufficiente la previsione, nel bando, delle cause ostative di cui alla l. n. 16 del 1992.
4. Per la cassazione della sentenza A. B. ha proposto ricorso sulla base di due motivi.
5. Il MIUR ha opposto difese con controricorso.
6. Il Collegio ha proceduto in camera di consiglio ai sensi dell’art. 23, comma 8 – bis d.l. n. 137 del 2020, convertito con l. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta di discussione orale.
7. Il Procuratore generale ha formulato le proprie motivate conclusioni, ritualmente comunicate alle parti, chiedendo il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 445, comma 1 bis, cod. proc. pen., in combinato disposto con gli artt. 25 Cost., 7 CEDU e 2 cod. pen., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.
Sostiene l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto la piena equiparabilità tra la sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna e per non aver considerato che il ricorrente aveva scelto il c.d. patteggiamento, all’udienza preliminare del 22/1/2004, quando era in carcere già da sette mesi ed aveva, dunque, visto il patteggiamento come la via più immediata per abbandonare lo stato detentivo, per lui particolarmente afflittivo.
Sostiene che la sentenza di patteggiamento è stata pronunciata dopo il 2003, e cioè dopo la modifica dell’art. 445 cod. proc. pen., ma che egli si trovava già in arresto prima di detta modifica “per un precedente reato”; pertanto, il criterio del “tempus commissi delicti” si sarebbe dovuto applicare anche alla presente fattispecie, a meno di non voler incorrere, per una mera contingenza temporale di organizzazione degli Uffici Giudiziari, in una grave disparità di trattamento tra soggetti che hanno compiuto il medesimo reato.
Assume che la Corte territoriale ha errato nel considerare la sentenza di patteggiamento come prova di ammissione di responsabilità, in totale contrasto con il tenore letterale dell’art. 445, comma 1 bis, cod. proc. pen.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1 lett. d) della l. n. 16/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., sostenendo – come già nel primo motivo – la non equiparabilità tra sentenza di patteggiamento e sentenza di condanna e negando di aver posto in essere dichiarazioni mendaci, avendo riportato nella dichiarazione sostitutiva del certificato la riproduzione della dicitura prevista dal certificato del Casellario Giudiziale.
3. Entrambi i motivi di ricorso sono infondati.
3.1. La sentenza di patteggiamento è intervenuta dopo le modifiche legislative di cui all’art. 21 della l. 12 giugno 2003, n. 134 che ne hanno previsto l’equiparazione ad una pronuncia di condanna; il bando del 2013 ha espressamente previsto l’esclusione di coloro per i quali vi siano le cause ostative previste dalla l. 18 gennaio 1992, n. 16 e cioè, ai sensi dell’art. 1 lett. a) e lett. d) – nel testo risultante a seguito delle modifiche di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 267 del 2000 e poi ancora dall’art. 10 d.lgs. n. 235 del 2012 -, ossia di coloro che abbiano riportato condanna per il delitto di cui all’art. 73 del T.U. approvato con d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
3.2. Come è noto, nell’ambito dei requisiti generali per l’accesso all’impiego pubblico, il d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (“Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”) all’art. 2 c. 5 indica i «requisiti generali» di «ammissione agli impieghi» e dispone che «non possono accedere agli impieghi coloro che siano esclusi dall’elettorato attivo politico e coloro che siano stati destituiti o dispensati dall’impiego presso una pubblica amministrazione».
Analoga previsione è contenuta nel d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 (“Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi”), che all’art. 2 (“Requisiti generali”), comma 3, dispone che «non possono accedere agli impieghi coloro che siano esclusi dall’elettorato politico attivo e coloro che siano stati destituiti o dispensati dall’impiego presso una pubblica amministrazione per persistente insufficiente rendimento, ovvero siano stati dichiarati decaduti da un impiego statale, ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d) del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3».
Entrambi gli articoli innanzi citati stabiliscono (art. 2, comma 7, d.P.R. n. 3 del 1957, art. 2, comma 7, d.P.R. n. 487 del 1994) che i requisiti prescritti devono essere posseduti alla data di scadenza del termine stabilito nel bando di concorso per la presentazione della domanda di ammissione.
La possibilità di prescrivere ulteriori requisiti di ammissione è prevista dall’art. 2, comma 3, del d.P.R. n. 3 del 1957 (per l’ammissione «a particolari carriere») e dall’art. 2, comma 2 (per l’ammissione «a particolari profili professionali di qualifica o categoria»).
Il d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, in materia di reclutamento del personale, all’art. 70, comma 13, richiama la disciplina prevista dal d.P.R. n. 487 del 1994, e successive modificazioni ed integrazioni, «per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli articoli 35 e 36 salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti».
3.3. Con riferimento al personale della scuola, il relativo testo unico (art. 402, comma 4 del d.lgs. n. 297 del 1994) richiede «il possesso dei requisiti per l’ammissione ai concorsi di accesso agli impieghi civili dello Stato» e precisa che essi devono essere posseduti «alla data di scadenza dei termini di presentazione della domanda».
3.4. Il d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223 (“Approvazione del testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali”), nel testo applicabile ratione temporis, come sostituito dalla l. 18 gennaio 1992 n. 16 (il bando dedotto in giudizio è del 2013) prevede, all’art. 2, che: «Non sono elettori: b) coloro che sono sottoposti, in forza di provvedimenti definitivi, alle misure di prevenzione di cui all’articolo 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come da ultimo modificato dall’articolo 4 della legge 3 agosto 1988, n. 327, finché durano gli effetti dei provvedimenti stessi; c) coloro che sono sottoposti, in forza di provvedimenti definitivi, a misure di sicurezza detentive o alla libertà vigilata o al divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province, a norma dell’articolo 215 del codice penale, finché durano gli effetti dei provvedimenti ‘stessi; d) i condannati a pena che importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici; e) coloro che sono sottoposti all’interdizione temporanea dai pubblici uffici, per tutto il tempo della sua durata. 2. Le sentenze penali producono la perdita del diritto elettorale solo quando sono passate in giudicato. La sospensione condizionale della pena non ha effetto ai fini della privazione del diritto di elettorato».
3.5. L’indicata l. n. 16 del 1992 n. 16, alla quale fa riferimento l’art. 6 (“Requisiti generali di ammissione”) del bando della procedura concorsuale alla quale ha partecipato il ricorrente (riprodotto nel ricorso, pag. 2), prevede, per quanto rileva nella presente controversia, che non possono partecipare alla procedura coloro che si trovino nelle condizioni ostative di cui alla l. n. 16 del 1992 (e cioè: a) coloro che hanno riportato condanna, anche non definitiva, per un delitto di cui all’articolo 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, concernente la produzione o il traffico di dette sostanze … d) coloro che, per lo stesso fatto, sono stati condannati con sentenza definitiva o con sentenza di primo grado, confermata in appello, ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo).
Il contenuto di tale disposizione, a seguito dell’abrogazione della l. n. 16 del 1992, ad opera del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (“Testo unico delle disposizioni relative all’ordinamento degli enti locali”), è stato riprodotto negli articoli 58 e 59 del citato d.lgs. n. 267 del 2000, e l’art. 275 del medesimo decreto ha stabilito espressamente che, salvo diverse disposizioni del decreto medesimo e fuori dei casi di abrogazione per incompatibilità, qualora legge regolamenti o altre norme facciano riferimento a «disposizioni espressamente abrogate dagli articoli contenuti nel presente capo, il riferimento si intende alle corrispondenti disposizioni del presente testo unico, come riportate da ciascun articolo».
Il testo è stato ulteriormente riproposto dal d.lgs. n. 235 del 2012 (“Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190”), art. 10 (ratione temporis vigente), con riguardo alle disposizioni che qui rilevano.
3.6. È a tali disposizioni che deve, pertanto, essere inteso il riferimento (rinvio recettizio ovvero fisso) operato dall’art. 6 del bando dedotto in giudizio alla l. n. 16 del 1992 al fine di individuare la specifica ipotesi fattuale che escludeva l’ammissione al concorso.
3.7. È indiscusso tra le parti che il B., con provvedimento del 27 giugno 2017, è stato dichiarato decaduto dalla graduatoria provinciale approvata con DDG dell’1/3/2010 ed è stato conseguentemente licenziato perché era emersa a suo carico una sentenza di patteggiamento con l’applicazione della pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione e multa pari ad euro 10.000,00, in relazione al reato di cui agli artt. 73, 80, comma 2, del d.P.R. n. 309/1990.
3.8. Orbene, ai fini che qui rilevano, è lo stesso art. 445 cod. proc. pen., nella versione di cui alle modifiche introdotte dalla l. 12 giugno 2003, n. 134, che prevede (art. 1 bis) che, «salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna».
In verità anche l’art. 15, comma 1 bis, della l. 19 marzo 1990, n. 55 prevede che: «Per tutti gli effetti disciplinati dal presente articolo, la sentenza prevista dall’art. 444 del codice di procedura penale è equiparata a condanna». La disposizione è rimasta immutata sia a seguito della l. n. 16 del 1992 – che ha sostituito solo i commi 1, 2, 3 e 4 di tale legge – sia a seguito del d.lgs. n. 235 del 2012.
3.9. Ciò esclude, a monte, la fondatezza dei rilievi del ricorrente.
3.10. Per mera completezza è appena il caso di aggiungere che, come da questa Corte già affermato (Cass. 16 febbraio 2021, n. 4057), è del tutto legittimo inserire nel bando di concorso finalizzato al reclutamento del personale ATA, tra i requisiti generali di ammissione al concorso, quelli previsti dalla legge n. 16 del 1992, ciò rientrando nella discrezionalità della pubblica amministrazione in funzione delle esigenze peculiari di determinati impieghi pubblici (Cons. Stato, n. 3542 del 2016, Cons. Stato n. 2181 del 2013).
Trattasi, dunque, di una scelta che risponde alle esigenze proprie di un settore, quale è quello scolastico, che presiede alla funzione educativa e che è connotato da un ordinamento che poggia sull’elevato grado di affidamento richiesto dalla specificità delle mansioni proprie del personale dipendente (personale docente e personale ATA) e che, anche nell’ambito della disciplina negoziale collettiva, richiama l’art. 58 del d.lgs. n. 297 del 2001 (art. 95 del c.c.n.l. Comparto Scuola del 29.11.2007).
4. Da tanto consegue che il ricorso deve essere respinto.
5. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
6. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso, ove dovuto a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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