CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2022, n. 8646
Tributi – Accertamento – IVA e IRAP – Operazioni infragruppo – Consolidato nazionale – Costi per servizi resi dalla consolidante – Scostamento dal “valore normale” – Antieconomicità – Carenza di inerenza dei costi
Fatti di causa
Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. 241/1/12 della Commissione tributaria provinciale di Teramo che aveva accolto il ricorso proposto da D.C. Edilizia srl unipersonale contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2006.
La CTR osservava in particolare che, al contrario di quanto opinato dalla CTP, l’onere di provare l’effettività, la determinabilità, la congruità e l’inerenza dei costi oggetto delle riprese fiscali spettava alla società contribuente, non all’agenzia fiscale, e che tale onere non era stato assolto, parendo in ogni caso del tutto antieconomica la condotta gestionale della contribuente in relazione ai costi medesimi.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente deducendo dieci motivi, poi illustrati con una memoria.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo – ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.- la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per contraddizione tra dispositivo e motivazione nonché in quanto il giudice tributario di appello non poteva pronunciarsi sul ricorso introduttivo della lite in quanto già oggetto del giudizio di primo grado.
La censura è infondata.
Non è sufficiente, perché la motivazione di una sentenza sia definita “contraddittoria”, anche con riferimento al suo dispositivo, che un’espressione contenuta in questa sia in contrasto con un’altra, essendo indispensabile, altresì, che si sia in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato. Non sussiste, pertanto, motivazione contraddittoria allorché dalla lettura della sentenza sia agevole accertare che si versa in una ipotesi di errore materiale nella redazione della sentenza stessa e che, dunque, non sussistono incertezze su quella che è stata la volontà del giudice (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8106 del 06/04/2006, Rv. 588581 – 01).
Infatti, è assodato che il vizio di contraddittorietà ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere il significato della decisione adottata, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorché, dalla lettura della sentenza, non vi siano dubbi di sorta su quella che è stata la volontà decisoria (v. Cass. Sez. U, Sentenza n. 25984 del 22/12/2010, Rv. 615519 – 01; conforme Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3270 del 18/02/2015).
Nel caso di specie tutto il tenore dell’esposizione compiuta dalla CTR nei “motivi della decisione” è nel senso dell’accoglimento dell’appello dell’Agenzia, come d’altro canto l’inizio della stessa parte dispositiva che recita: “1) in accoglimento dell’appello proposto”. Alla luce di quanto precede, la menzione del rigetto del ricorso della società va riferita senza dubbio all’effetto dell’accoglimento del gravame, ossia il rigetto del ricorso introduttivo del giudizio.
Né si vede per quale, oscura, ragione ciò non rientrasse nell’ambito del giudizio di appello, stante l’effetto devolutivo derivante dalla proposizione del gravame.
Con il secondo motivo – ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.- la ricorrente prospetta la nullità della sentenza per violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, in quanto i giudici di appello non si sarebbero pronunciati su un motivo di appello sollevato dall’Agenzia di contraddittorietà della motivazione della sentenza di primo grado.
La censura è inammissibile.
Ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ., la contribuente non ha interesse a far valere una presunta mancata pronuncia su motivo di appello dell’Agenzia.
Con il terzo motivo – ex art.360 primo comma n.4 cod. proc. civ. – la ricorrente denuncia la nullità del procedimento, poiché la CTR ha argomentato su di un criterio alternativo al criterio proporzionale, ossia l’obbligatorietà dell’analitica determinazione dei costi oggetto di ripresa, non costituente oggetto dell’avviso di accertamento, né del giudizio di primo grado e quindi del tutto nuovo.
La censura è inammissibile.
La considerazione del criterio analitico in luogo di quello proporzionale non è un “fatto storico” nuovo, né tanto meno una nuova domanda, ma una mera difesa dell’agenzia fiscale.
Al proposito è opportuno ricordare che questa Corte ha più volte ribadito che “In tema di contenzioso tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 2, riguarda l’eccezione in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale, ma non limita la possibilità dell’Amministrazione di difendersi dalle contestazioni già dedotte in giudizio, perché le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un’eccezione non costituiscono, a loro volta, eccezione in senso tecnico” (così Cass. 14486/13; conformi Cass. 12008/11, Cass. 3338/11).
Con il quarto motivo di ricorso – ex art.360 primo comma n.5 cod. proc. civ. – la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, con riguardo all’asseritamente erroneo metodo usato dall’ agenzia fiscale per la rideterminazione dei costi da ripartire tra le consociate, erroneità derivante dall’accorpamento di due variabili, le fatture di acquisto e le fatture di vendita, non omogenee.
La censura è infondata.
Nessun omesso esame sussiste nel caso di specie, dal momento che la CTR ha ritenuto illegittimo il criterio di riparto dei costi ex art.109 TUIR operato dalla contribuente e, così facendo, ha necessariamente anche rigettato la difesa relativa all’erroneità del diverso criterio di riparto adottato dall’Agenzia.
Con il quinto motivo -ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.- la ricorrente deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, poiché la CTR non ha adeguatamente considerato la circostanza che la controllante D.C. S.p.a. aveva optato nel periodo d’ imposta in contesto per il regime di tassazione del consolidato nazionale ex art.117 e ss. TUIR, il che eliminava ogni vantaggio fiscale nella ripartizione dei costi.
La censura è infondata.
Con giurisprudenza costante questa Corte sia in relazione alle imposte dirette sia all’ IVA, ha affermato che, ai fini della detrazione dell’IVA ex art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass. Sez. 5 – , Sentenza n. 18904 del 17/07/2018) e della deduzione di un costo dalla base imponibile ai sensi dell’art.109 del d.P.R. n. 917 del 1986 (Cass. Sez. 5 – , Sentenza n. 30366 del 21/11/2019), la prova dell’inerenza dell’operazione/del costo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente in quanto soggetto gravato dell’onere di dimostrare l’imponibile maturato.
L’Agenzia non ha contestato il carattere elusivo del riparto dei costi, ma l’assenza dei requisiti di certezza, documentabilità e inerenza ai fini degli artt.109, dPR 917/1986 e 19, d.P.R. n.633/1972 e, a tal fine, l’incongruenza del criterio di riparto dei costi è uno degli elementi indiziari evidenziati dall’Amministrazione finanziaria, fermo restando che è il contribuente ad essere tenuto a dimostrare, nell’ipotesi di contestazione da parte dall’Amministrazione finanziaria, anche la coerenza economica degli stessi rispetto ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, ai fini della deducibilità dei costi e di detraibilità della relativa IVA (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14858 del 07/06/2018).
Con il sesto motivo di ricorso – ex art.360 primo comma n.5 cod. proc. civ. – la ricorrente lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, poiché la CTR non va valutato la circostanza che nel caso in esame il mancato riconoscimento del costo determina una doppia imposizione, in assenza di rettifica dei ricavi della controllante.
La censura è infondata.
Il fatto che nella fattispecie la controllante D.C. S.p.a. ha optato nell’anno di imposta oggetto di ripresa per il regime di tassazione del consolidato nazionale ex art.117 e ss. TUIR non incide sulle riprese IVA e IRAP per cui è causa, dal momento che ai fini IRAP e IVA non vale il principio dell’imposta di gruppo, essendovi singole obbligazioni tributarie in capo alle consociate.
Pertanto, correttamente il giudice d’appello ha deciso nel merito sulle riprese, ritenendo così, tra l’altro, non sussistente alcun profilo di doppia imposizione, poiché la controversia riguarda le autonome obbligazioni IVA e IRAP in capo alla consolidata, mentre nei confronti della consolidante è stata recuperata una diversa imposta (IRES) e questa non è materia oggetto del contendere nella presente controversia, non essendo D.C. S.p.a. neppure parte del presente processo.
Con il settimo motivo – ex art.360 primo comma n.5 cod. proc. civ. – la ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, circa la congruenza e inerenza dei costi dedotti dalla contribuente, non avendo la CTR valutato la documentazione prodotta dalla contribuente.
La censura è inammissibile.
Risulta infatti evidente che la critica è diretta ad ottenere una indebita rivalutazione della prova da parte del giudice di legittimità e difetta inoltre di autosufficienza. Tale ultimo requisito è prescritto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. ed è volto ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, da evincersi unitamente ai motivi dell’impugnazione: ne deriva che il ricorrente ha l’onere di operare una chiara esposizione funzionale alla piena valutazione di detti motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte di cassazione (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la cui testuale riproduzione, in tutto o in parte, è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto (cfr. Cass. Sez. 5 – , Ordinanza n. 24340 del 04/10/2018, Rv. 651398 – 01). Non sono nemmeno riprodotti i documenti oggetto del motivo, asseritamente non valutati dal giudice del merito, dunque il Collegio non è messo nelle condizioni di decidere se la censura sia decisiva o meno.
Con l’ottavo motivo -ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.- la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art.2697 cod. civ. con riferimento all’applicazione del principio generale sull’onere della prova, spettando al contribuente la prova dei presupposti per la deducibilità del costo e all’Amministrazione il disegno elusivo.
Con il nono motivo di ricorso – ai fini dell’art.360 primo comma n.3 cod. proc. civ. – la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione dell’art.19 del d.P.R. n.633 del 1972, non essendo consentito all’Amministrazione finanziaria disconoscere il diritto a detrazione sulla base dell’antieconomicità.
Con il decimo motivo – ex art.360 primo comma n.3 cod. proc. civ. – la ricorrente si duole delle violazione/falsa applicazione dell’art.109 TUIR, affermando l’ inerenza, sia da un punto di vista qualitativo, del costo correlato all’attività di impresa della società, sia quantitativo da valutare in relazione alla D.C. E S.r.l. e non alle altre società del gruppo in quanto la ripartizione dei costi non è avvenuta in modo forfettario, ma in funzione delle variabili contabili che denotano le utilità dei servizi resi dalla consolidante alla consolidata e, in ogni caso, perché non sussiste la ritenuta antieconomicità, tenuto conto che l’adesione al consolidato fiscale da parte del gruppo di cui la contribuente fa parte non ha comportato alcun risparmio fiscale.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono inammissibili.
L’ottavo motivo non è congruente con la fattispecie, in cui non si discute dell’esistenza di un disegno elusivo.
In riferimento agli altri due motivi in esame, va innanzitutto ribadita l’irrilevanza dell’adesione al consolidato fiscale ai fini della decisione sulle riprese IRAP e IVA, per le quali non vale il principio dell’imposta di gruppo, essendo distinte e singole le relative obbligazioni tributarie in capo alle consociate.
Inoltre, con riferimento all’antieconomicità, va ribadito anche nella presente fattispecie che, tanto ai fini delle imposte dirette che della ripresa IVA, lo scostamento dal “valore normale” del prezzo di transazione ex art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986 può assumere rilievo, anche per operazioni infragruppo interne, quale elemento indiziario ai fini della valutazione di antieconomicità delle operazioni sotto il profilo della carenza di inerenza dei costi eccessivi ovvero del possibile occultamento (parziale) del prezzo nel caso di profitti eccessivamente bassi (v. in tal senso Sez. 5 – , Sentenza n. 16948 del 25/06/2019 (Rv. 654388 – 02).
Infine, dietro lo schermo della prospettata violazione di legge, i mezzi di impugnazione in realtà, inammissibilmente, inducono ad una revisione dell’accertamento di fatto compiuto dalla CTR circa l’assenza dei presupposti per la deduzione e detrazione del costo in questione.
Il decimo motivo in particolare contiene una congerie di aspetti in larga parte già oggetto dei precedenti motivi ed è complessivamente diretto a contrapporre all’accertamento in fatto compiuto dal giudice d’appello la diversa prospettazione della parte, di cui viene chiesto l’accoglimento attraverso la rivalutazione del materiale probatorio in termini preclusi al giudice di legittimità.
In conclusione il ricorso dev’essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite, liquidate in Euro 2.300 oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.