CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2022, n. 8952
Reati – Appropriazione indebita di denaro – Somme ricevute da contribuenti per effettuare versamenti Tari – Produzione di false ricevute di pagamento – Truffa e falso
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 7 luglio 2021, la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, riqualificava la condotta contestata ad A.C. ai sensi dell’art. 640 cod. pen. nell’ipotesi di cui all’art. 646 cod. pen. e, ribadita la colpevolezza del medesimo per la condotta contestatagli al capo B ai sensi degli artt. 468 e 476 e 482 cod. pen., ne rideterminava la pena nella misura indicata in dispositivo.
Il prevenuto era accusato di essersi appropriato delle somme di denaro che alcuni contribuenti gli avevano consegnato per essere versate, a titolo di TARI (la tassa sui rifiuti) e tramite un istituto bancario, al Comune di Martina Franca, falsificando, poi, quale titolare della ditta G.S. (partner di N.) che ne curava l’effettivo versamento, gli appositi modelli F24, apponendovi le false sottoscrizioni e i timbri di ricevuta.
1.1. In risposta ai dedotti motivi di appello, la Corte osservava che:
– da plurime testimonianze era emerso come fosse stato proprio il prevenuto ad occuparsi delle pratiche contestate ed a ricevere le somme di denaro consegnate dai contribuenti affinché le versasse all’ente locale;
– l’imputato non aveva offerto alcuna versione alternativa a quanto denunciato (la sua appropriazione delle suddette somme);
– né poteva essergli riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. dal momento che egli solo in parte aveva risarcito i danni causati alle persone offese;
– la pena inflitta era proporzionata al numero delle condotte consumate ed alle precedenti condanne patite dal prevenuto, per condotte analoghe, di truffa e falso.
2. Propone ricorso l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in tre motivi.
2.1. Con il primo deduce il vizio di motivazione in relazione alla ascrivibilità al ricorrente della condotta contestata.
Non erano sufficienti le dichiarazioni di quattro su diciassette persone offese per potersi ritenere raggiunta la prova della consumazione da parte dell’imputato di tutte le condotte ascrittegli.
L’onere della prova incombeva sulla pubblica accusa e non si poteva affermare, come aveva fatto la Corte di merito, che “l’accusa non poteva provare di più”.
2.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge per non essere stata riconosciuta la circostanza attenuante dell’integrale riparazione del danno.
Comunque, il fatto che il ristoro fosse stato solo parziale avrebbe dovuto imporre la concessione delle circostanze attenuanti generiche.
2.3. Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge in relazione all’avvenuta reformatio in peius, in particolare della pena pecuniaria portata ad euro 1500 di multa a fronte degli inflitti, in prime cure, euro 1.000.
Considerato in diritto
Il ricorso promosso nell’interesse dell’imputato non merita accoglimento.
1. Il primo motivo – sulla ritenuta colpevolezza del prevenuto in ordine a tutte le condotte ascrittegli – è inammissibile perché non considera che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendosi questa Corte limitare a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, così che esula dai suoi poteri la riconsiderazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. Un., 30/4-2/7/1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944; ed ancora: Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003 – 06/02/2004, Elia, Rv. 229369 e più di recente Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).
La Corte di merito, infatti, con motivazione priva di manifeste aporie logiche, aveva concluso per la sussistenza della prova, storica e logica, della piena responsabilità del prevenuto per tutte le condotte ascrittegli sulla base di quattro testimonianze (riportate in sunto in sentenza) dalle quali doveva dedursi che era stato proprio il prevenuto ad ottenere in consegna le somme di denaro versate dai contribuenti che non erano state poi corrisposte al Comune di Martina Franca ed avevano, poi, ritirato, ancora dall’imputato, le false ricevute di pagamento.
Emergendo dalle ulteriori denunce una consimile modalità dei fatti, la Corte aveva non illogicamente ritenuto provati tutti gli addebiti. Anche considerando che il prevenuto non aveva in alcun modo contrastato, in fatto, le altrimenti pacifiche appropriazioni.
2. Il secondo motivo è inammissibile emergendo, dalla lettura della sentenza impugnata, che il ristoro delle persone offese era stato dedotto nell’atto di appello solo al fine di ottenere il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen.. Circostanza correttamente negata per la non integralità del risarcimento stesso.
L’odierna censura, relativa all’invocato recupero del parziale ristoro al fine di riconoscere al ricorrente le diverse circostanze attenuanti generiche, è pertanto inammissibile ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen..
3. Il terzo motivo è infondato.
Vero è che la pena pecuniaria inflitta all’imputato è, in assenza di appello del pubblico ministero, più grave di quella inflitta in prime cure, ma è altrettanto vero che questa Corte ha già avuto modo di precisare che non viola il divieto di “reformatio in peius” la sentenza del giudice d’appello quando riduce la pena detentiva inflitta in primo grado ed aumenta quella pecuniaria se, operato il ragguaglio di quest’ultima ai sensi dell’art. 135 cod. pen., l’entità finale della pena non risulti superiore a quella complessivamente irrogata dal giudice di primo grado (così Sez. 6, n. 27723 del 05/03/2013, Carandente, Rv. 256801; ed in analoghe fattispecie, e sempre considerando il ragguaglio fra pena pecuniaria e pena detentiva disciplinato dall’art. 135 cod. pen.: Sez. 3, n. 2833 del 09/10/2014, dep. 22/01/2015, Niang Rv. 263415; Sez. 4, n. 24430 del 10/06/2021, Rossi, Rv. 281403; Sez. 3, n. 37872 del 26/05/2004, Bombardieri, Rv. 230037).
Nel caso di specie, la Corte d’appello – derubricata la condotta ascritta all’imputato ai sensi dell’art. 640, comma 2, cod. pen. e divenuto così più grave il delitto contestato ai sensi dell’art. 468 cod. pen. – aveva rideterminato la pena in anni 1, mesi 3, giorni 24 di reclusione ed euro 1.500 di multa a fronte della sanzione inflitta in prime cure – pari ad anni 1, mesi 10, giorni 10 di reclusione ed euro 1.000 di multa – operando pertanto una diminuzione della pena detentiva tale da assorbire, largamente, con il ragguaglio fissato dall’art. 135 cod. pen., l’aumento della pena pecuniaria.
4. Al complessivo rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
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