CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 settembre 2020, n. 19286
Tributi – Imposte sui redditi – Distribuzione di utili derivanti dalla vendita di un bene immobile – Cessione di partecipazione della società – Minusvalenza – Indeducibilità
Fatti di causa
1. A seguito di un processo verbale di constatazione, l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Faenza, notificò alla C. s.p.a. un avviso di accertamento con il quale, rettificando la dichiarazione dei redditi modello Unico 2005 per il periodo d’imposta 2004 presentata dalla società, disconobbe la deducibilità della minusvalenza della partecipazione nella società francese B. S.A. (pari a € 9.070.000,00) realizzata a seguito della cessione di tale partecipazione nell’anno 2004 e dedotta dalla stessa C. s.p.a. in applicazione della disposizione transitoria di cui all’art. 4, comma 1, lett. d) del d.P.R. 12 dicembre 2003, n. 344.
Il disconoscimento fu operato per il fatto che, secondo l’Ufficio, la svalutazione della partecipazione – che era stata effettuata civilisticamente nel bilancio dell’esercizio 2003, ripresa a tassazione nella dichiarazione dei redditi per lo stesso 2003 e realizzata, a seguito della cessione della partecipazione, nel 2004 – si sarebbe determinata per effetto della distribuzione, da parte della B. S.A., di utili (derivanti, in particolare, dalla vendita di un bene immobile) che, ai sensi dell’art. 96-bis del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo anteriore alle modifiche di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 344 del 2003), non avevano concorso a formare il reddito della C. s.p.a., con la conseguenza che la minusvalenza da questa realizzata non rientrava nell’ambito applicativo della disposizione transitoria dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 344 del 2003 ma in quello del comma 5 di detto art. 96-bis che stabiliva, appunto, l’indeducibilità delle minusvalenze «per la quota determinatasi per effetto della distribuzione degli utili che non concorrono a formare il reddito ai sensi del presente articolo».
2. L’avviso di accertamento fu impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Ravenna (hinc anche: «CTP»), che accolse il ricorso della contribuente.
3. Avverso tale pronuncia, l’Agenzia delle entrate propose appello alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna (hinc anche: «CTR»). La C. s.p.a. propose appello incidentale avverso il capo della sentenza della CTP che aveva disposto la compensazione delle spese di giudizio.
La CTR accolse l’appello principale e rigettò l’appello incidentale.
La CTR negò anzitutto che – contrariamente a quanto sostenuto nelle controdeduzioni della società appellata – si fosse formato il giudicato interno sulla «parte della sentenza [della CTP] che, secondo il contribuente, avrebbe affermato l’annullabilità dell’accertamento perché discriminante di una medesima situazione in ambito europeo», reputando che l’Uffico avesse appellato anche tale parte.
In secondo luogo, la CTR escluse di dovere effettuare – come le era stato richiesto dalla C. s.p.a. – un rinvio pregiudiziale di interpretazione alla Corte di giustizia sulla questione se il divieto di discriminazione in base alla nazionalità previsto dall’art. 12 del Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE) ostasse a un’interpretazione dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 344 del 2003 che «consenta in via transitoria, la deduzione delle minusvalenze realizzate a seguito di cessioni di partecipazioni in PEX alle sole ipotesi di svalutazioni di società italiane sterilizzate ex art. 1 comma 1 lett. b) d.l. 209/2002 e non le consenta a fronte di svalutazioni di società comunitarie ex allora vigente art. 96-bis, comma 5 TUIR».
In terzo luogo, la CTR esaminò la questione se la svalutazione della partecipazione si fosse determinata per effetto della distribuzione, da parte della B. S.A., di dividendi non tassati (come sostenuto dall’Ufficio) ovvero per effetto della previsione di costi da sostenere per la bonifica ambientale di tre siti produttivi della stessa B. S.A. (come sostenuto dalla società contribuente).
Riguardo a tale tesi della contribuente, la CTR affermò tra l’altro che: a) dall’esame delle relazioni di società di consulenza prodotte dalla C. s.p.a. a sostegno del proprio assunto (segnatamente, tre della Golder Associates del novembre 2001 e tre della U.D.&M. del giugno 2002 su ciascuno dei siti di Frevent, Fressennevillet e Friville-Escabotin, nonché un’altra della U.D.&M. del marzo 2003 sia sui siti francesi della B. S.A. sia sui siti italiani della C. s.p.a.), emergeva che, «pur attestando l’esistenza di concreti rischi ambientali», «nessuna […] quantifica i costi potenziali della bonifica ambientale, e pertanto nessuna di esse può essere servita agli amministratori della controllante C. S.p.A. a calcolare l’importo della svalutazione della partecipazione nella società B. S.A.»; b) «se la svalutazione fosse collegata […] alle opere di bonifica, già evidenziate dalle relazioni delle società di consulenza fin dal 2001, quale motivo gli amministratori [della O. s.p.a.] avrebbero avuto per aspettare il 2003 per effettuare gli accantonamenti al fondo svalutazione»; c) «durante l’anno 2003 nel bilancio della B. S.A. il fondo rischi per la cessazione delle attività produttive negli stabilimenti di Frevent, Fressenville e Friville è addirittura diminuito da Euro 312.617 ad Euro 42.381 […]. Gli amministratori della B. hanno quindi valutato l’impatto della bonifica ambientale, ed i valori coinvolti sono molto inferiori a quelli che oggi il contribuente afferma di aver utilizzato nella controllante C. per svalutare la partecipazione della B.». La CTR concluse quindi essere «priva di pregio la tesi del contribuente […], essendo indimostrati sia i costi di bonifica, sia il * riconoscimento dell’esistenza [del] rischio [ambientale] – se non per importi del tutto irrilevanti ed inferiori ad euro 9.070.000,00 – da parte degli amministratori della controllata B.».
Secondo la stessa CTR, invece, «gli elementi contabili avall[a]no la tesi dell’Ufficio che collega la svalutazione operata nel 2003 alla cessione dell’immobile e alla successiva distribuzione dei dividendi». La CTR affermò al riguardo tra l’altro che: a) la nota integrativa al bilancio 2003, al punto 2.3.1., asseriva che «la partecipazione nella società francese B. S.A. […], per motivi di prudenza, nel corso dell’esercizio è stata svalutata per euro 9.070.000 per tener conto della riduzione patrimoniale riferita alla alienazione di alcune proprietà immobiliari»; b) «dai dati […] forniti il patrimonio netto della partecipata B., diminuisce tra il 2002 e il 2003 di Euro 13.644.682, e la sua valutazione nel bilancio della C. viene diminuita di Euro 9.070.000. Ma il patrimonio netto diminuisce solo ed esclusivamente per effetto della distribuzione dei dividendi, che sono stati tassati nella misura del 5%»; c) nella relazione sulla gestione al bilancio 2003 si asserisce che «anche nel 2003 si è proceduto ad una sostenuta distribuzione di dividendi dalla B. S.A. resisi disoponibili grazie al buon andamento economico ed alla vendita di un immobile non strumentale di valore rilevante».
4. Avverso tale sentenza della CTR – depositata in segreteria il 18 luglio 2011 e non notificata – ricorre per cassazione la C. s.p.a., che affida il proprio ricorso, notificato il 17 e il 18 ottobre 2012, a sei motivi.
5. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, notificato il 26 – 28 novembre 2012.
6. Sia la C. s.p.a. sia l’Agenzia delle entrate hanno depositato una memoria.
7. Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 10 febbraio 2020, nella quale il Procuratore generale ha concluso come indicato in epigrafe.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 cod. proc. civ., dell’art. 2909 cod. civ. e dell’art. 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per avere la CTR negato – nonostante la mancanza di specifici motivi di impugnazione avverso il capo della sentenza della CTP che conteneva la terza autonoma ratio decidendi della stessa che la deduzione della minusvalenza era «in linea e conforme al dettato dell’art. 12, comma 1, del Trattato sulla Comunità Europea» – che si fosse formato il giudicato interno su tale capo e per non avere conseguentemente dichiarato l’inammissibilità dell’intero appello dell’Ufficio per carenza di interesse.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., «omessa motivazione circa un fatto decisivo ai fini del […] giudizio», per avere la CTR omesso di considerare il fatto decisivo «che la partecipazione della B. S.A. era stata iscritta nel bilancio della C. S.p.A. nell’anno 2001»; con la conseguenza che la stessa Commissione non ha potuto comprendere che, poiché gli utili distribuiti dalla B. S.A. erano stati “prodotti” negli anni 2002-2003 e, pertanto, dopo l’acquisizione della partecipazione, «la diminuzione del patrimonio netto della B. S.A. da € 48.137,343,84 (nel 2001) ad € 39.067.343,84 (nel 2003) non può essere imputata (come erroneamente ed arbitrariamente fatto dalla CTR […]), alla distribuzione degli utili avvenuta nel medesimo anno 2003 (essendo lampante che tali utili – prodotti negli anni 2002-2003
– non potevano aver concorso alla formazione del patrimonio netto dell’anno 2001)».
3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., «[violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 66 e 96-bis, co. 5, del DPR n. 917/86 (nel testo vigente fino al 31.12.2003).
Inapplicabilità alla presente fattispecie dell’art. 96-bis, co. 5, del DPR n. 917/86», atteso che, premesso in fatto che gli utili distribuiti dalla B. S.A. nell’anno 2003 erano stati prodotti negli anni 2002-2003 e, quindi, successivamente all’acquisizione della partecipazione nella B. S.A. da parte della C. s.p.a., avvenuta nel 2001, la CTR: a) ha accertato la diminuzione del patrimonio netto iniziale della B. S.A. senza applicare il criterio matematico di valutazione stabilito dagli artt. 66, comma 1 – bis, e 61, comma 3, lett. b) del d.P.R. n. 917 del 1986 (in base ai quali il cosiddetto “valore minimo” della partecipazione è determinato sulla base del raffronto tra il patrimonio netto iniziale risultante dall’ultimo bilancio regolarmente approvato alla data di acquisizione della partecipazione e il patrimonio netto finale risultante dall’ultimo bilancio regolarmente approvato alla data di valutazione della partecipazione) e reputando, del tutto illogicamente, che detta diminuzione potesse essere stata determinata dalla distribuzione di utili prodotti successivamente all’acquisizione della partecipazione (e, quindi, non ricompresi nel patrimonio netto iniziale della partecipata); b) ha ritenuto applicabile il comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 – disposizione da interpretare nel senso che l’indeducibilità da essa prevista riguarda non tutte le svalutazioni/minusvalenze ma soltanto quelle che originino dalla distribuzione di riserve di utili formatesi prima dell’acquisizione della partecipazione (cioè le uniche che potessero concorrere alla formazione del patrimonio netto della società partecipata al momento dell’acquisizione) – nonostante la mancanza di quest’ultimo presupposto applicativo, avendo erroneamente reputato, come detto sub a), che la distribuzione di utili prodotti successivamente all’acquisizione della partecipazione potesse avere determinato una diminuzione del patrimonio netto iniziale della partecipata.
4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 344 del 2003, in combinato disposto con gli artt. 61, comma 3, lett. b) e 66, comma 1 – bis del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo anteriore alle modifiche di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 344 del 2003) e con l’art. 1, comma 1, lett. a) del d.l. 24 settembre 2002, n. 209, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 2002, n. 265, per avere la CTR erroneamente ritenuto che la ripresa a tassazione della svalutazione nell’anno 2003 fosse stata effettuata ai sensi del comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 – disposizione che, come illustrato con il terzo motivo di ricorso, era in realtà inapplicabile alla fattispecie – laddove la stessa ripresa era stata invece effettuata in base alle previsioni degli artt. 61, comma 3, lett b) e 66 del d.P.R. n. 917 del 1986 e dell’art. 1, comma 1, lett. a) del d.l. n. 209 del 2002, con la conseguenza che, contrariamente a quanto ritenuto dalla CTR, la contribuente ben poteva dedurre la svalutazione realizzata nell’anno 2004 in applicazione della disposizione transitoria di cui all’art. 4, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 344 del 2003.
5. In via subordinata all’accoglimento dei precedenti motivi, la ricorrente chiede alla Corte di sollevare davanti alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale «se contrasta con il principio di libertà di circolazione dei capitali prescritto dall’art. 56 della TCE (ndr. Trattato UE) e con i principi contenuti nei considerando della direttiva n. 435/1990/CEE un’interpretazione della norma italiana di cui all’allora vigente art. 96-bis, comma 5, Tuir che, implementando l’art. 4, comma 2, Direttiva Madre/Figlia prescriva l’indeducibilità automatica per ogni minusvalenza conseguita a seguito di una distribuzione di dividendi esenti», indipendentemente dal fatto che gli stessi siano relativi a utili prodotti dalla società figlia anteriormente o successivamente all’acquisizione della partecipazione.
6. Con il quinto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 TCE «e, più in generale, del principio di non discriminazione», in quanto, nell’«ipotesi in cui l’art. 4, co. 1, lett. d, del D.Lgs. n. 344/2003 dovesse essere interpretato nel senso che tale norma deve essere disapplicata ove la svalutazione realizzata nel 2004-2005 origini da dividendi comunitari (soggetti al regime dell’esenzione)», la stessa norma «sarebbe incompatibile con il diritto europeo primario […] in quanto dall’interpretazione letterale dell’art. 4, co. 1, lett. d, del D.Lgs. n. 344/2003 si evince che esso consente la deducibilità delle minusvalenze da valutazione delle partecipazioni a prescindere dal fatto che esse siano connesse a dividendi soggetti al metodo del credito d’imposta ovvero al metodo dell’esenzione».
In via subordinata all’accoglimento del motivo, la ricorrente, «stante il contrasto tra l’art. 96-bis, co. 5, del DPR n. 917/86 e dell’art.4, co. 1, lett. b) [recte: lett. d)], del D.Lgs. n. 344/2003 con l’art. 12 del […] Trattato CE», chiede alla Corte di sollevare davanti alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale se il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, di cui all’art. 12 TCE, osti alla predetta interpretazione dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 344 del 2003.
7. Con il sesto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., «[c]ontraddittorietà e/o illogicità della motivazione circa fatti controversi e decisivi del […] giudizio», per avere la CTR: a) dopo avere rilevato che dalle relazioni di società di consulenza prodotte dalla C. s.p.a. risultava «l’esistenza di concreti rischi ambientali» nei siti produttivi della B. S.A., contraddittoriamente non riconosciuto la «innegabile […] conseguente perdita di valore della partecipazione»; b) «posto il problema della “quantificazione” della “svalutazione realizzata”», laddove «tale problematica era del tutto insussistente nella […] fattispecie, in quanto la “svalutazione realizzata” poteva essere facilmente calcolata mediante il confronto tra il “costo storico” della partecipazione (pari a € 48.137.343,94) ed il corrispettivo della vendita (pari ad € 34.711.256,46)».
8. Al fine di poter meglio comprendere le questioni poste da tali motivi, è opportuno evidenziare preliminarmente i passaggi essenziali della vicenda concreta – a essi sottesa – che, alla luce della lettura del ricorso, del controricorso e delle memorie, oltre che, naturalmente, della sentenza impugnata, possono ritenersi non contestati tra le parti.
Tali passaggi sono i seguenti: a) nel 2001, la C. s.p.a. iscrisse in bilancio, tra le immobilizzazioni finanziarie, la partecipazione nella società francese controllata B. S.A. al costo “storico” di € 48.137.343,84; b) nel 2003, la C. s.p.a. percepì dalla B. S.A. dividendi per complessivi € 10.211.835,01 – di cui € 2.203,648,00 derivanti da utili dell’esercizio 2002 (distribuiti il 25 luglio 2003) ed € 8.008.648,00 da utili dell’esercizio 2003 (distribuiti, in acconto, il 19 dicembre 2003) – i quali furono esclusi da tassazione per il 95% del loro ammontare (pari a € 9.701.243,25) a norma del comma 1 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 (che stabiliva tale regime per i dividendi cosiddetti madre-figlia); c) sempre nel 2003, la C. s.p.a. svalutò civilisticamente (nel bilancio dell’esercizio), la partecipazione nella B. S.A. per l’importo di € 9.070.000,00, riprendendolo, però, a tassazione nella dichiarazione dei redditi per lo stesso 2003; d) nel 2004, la C. s.p.a. cedette la partecipazione nella B. S.A. per € 34.711.256,46, realizzando, civilisticamente, una minusvalenza di € 4.356.087,38 (avendo già svalutato la partecipazione per l’importo di € 9.070.000,00 nel bilancio del precedente esercizio 2003) e, fiscalmente, una minusvalenza di € 13.426.087,38; e) nella dichiarazione dei redditi per il periodo d’imposta 2004, la C. s.p.a, sul presupposto dell’applicabilità alla fattispecie della disposizione transitoria dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 344 del 2003 – secondo cui: «le svalutazioni delle stesse azioni o quote di cui al periodo precedente, riprese a tassazione nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2003 e nel precedente sono deducibili se realizzate entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2003» – la C. s.p.a. dedusse l’importo di € 9.070.000,00 quale svalutazione della partecipazione (nella B. S.A.) «ripresa a tassazione» nel periodo d’imposta 2003 (e, quindi, non dedotta in tale periodo) e «realizzata» nel periodo d’imposta 2004.
9. Il primo motivo non è fondato.
Questa Corte ha più volte affermato che la mancata impugnazione di una o più statuizioni contenute in una sentenza può dare luogo alla formazione del giudicato interno parziale per acquiescenza, a norma dell’art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., soltanto se le stesse statuizioni siano configurabili come capi completamente autonomi, in quanto, avendo risolto una questione controversa, che abbia una propria individualità e autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, nel senso che potrebbero conservare la propria efficacia precettiva anche se, a seguito dell’impugnazione, dovessero venire meno le altre statuizioni della stessa sentenza.
La formazione del giudicato interno parziale si deve, per contro, escludere nelle ipotesi in cui le statuizioni non impugnate non siano configurabili come capi completamente autonomi nel senso ora detto, di modo che, qualora, a seguito dell’impugnazione, dovessero venire meno le altre statuizioni della sentenza, quelle non impugnate non potrebbero conservare la propria efficacia precettiva.
L’indicata autonomia difetta, in particolare – di tal ché non può aversi giudicato – nelle mere argomentazioni, delle quali il giudice si serva per chiarire l’iter logico della motivazione ma che non si traducano in un accertamento indipendente, essendo utilizzate per sorreggere la decisione su un’altra diversa questione (Cass., 17/09/2008, n. 23747, 18/09/2017, n. 21566; similmente, Cass., 12/12/2008, n. 29227, 02/04/2007, n. 8215).
Nel caso in esame, la ricorrente asserisce che si sarebbe formato il giudicato interno parziale sul punto della sentenza di primo grado – riportato a pag. 13 del ricorso e, parzialmente, anche all’ottava pagina del controricorso – in cui la CTP affermò che «la tesi quivi sostenuta appare anche in linea e conforme al dettato dell’art. 12 co. 1 del Trattato sulla Comunità Europea […] infatti la richiamata norma, in tema di divieto di discriminazioni in base alla nazionalità, impone un principio fondamentale del diritto comunitario secondo cui non si possono trattare in ambito UE in modo diverso situazioni analoghe, a meno che non ricorrano determinate condizioni obiettivamente giustificate, le quali – tuttavia – non sussistono nella presente fattispecie».
Tale punto della sentenza della CTP, tuttavia, restando anche del tutto indefinito in ordine al termine di confronto, non afferma l’invalidità dell’avviso di accertamento impugnato perché viola il divieto di discriminazione in base alla nazionalità di cui all’art. 12 TCE, ma si configura come una mera argomentazione, addotta dalla Commissione a ulteriore sostegno della decisione («la tesi quivi sostenuta appare anche in linea e conforme») circa la legittimità della deduzione della minusvalenza in base all’applicazione alla fattispecie delle norme di diritto interno. Qualora, a seguito dell’impugnazione della sentenza della CTP, fossero venute meno le altre statuizioni della stessa, tale punto non avrebbe perciò potuto – ciò che risulta, del resto, piuttosto evidente – conservare la propria efficacia precettiva. Lo stesso punto non conteneva, pertanto, una statuizione suscettibile, in quanto non impugnata, di passare in giudicato.
Da ciò l’infondatezza del motivo.
10. In ordine di priorità logico-giuridica, dev’essere ora esaminato il sesto motivo di ricorso, atteso che esso concerne il giudizio reso dalla CTR sulla fattispecie concreta, la cui sussunzione nelle norme pertinenti, correttamente individuate e interpretate (il che è oggetto del secondo, del terzo, del quarto e del quinto motivo), ne presuppone, appunto, la ricostruzione.
Il motivo non è fondato in relazione al suo primo profilo ed è inammissibile in relazione al suo secondo profilo.
La questione di merito controversa era – con le parole, sostanzialmente corrette, della sentenza impugnata – quella di «determinare se la svalutazione operata nel 2003 e dedotta nel 2004, allorquando era stata realizzata la minusvalenza attraverso la cessione della partecipazione […] fosse dovuta alla previsione di costi da sostenere per la bonifica ambientale dei siti della B., come sostenuto dal contribuente, oppure fosse dovuta alla distribuzione di dividendi non tassati, come sostenuto dall’Ufficio», effettuata a seguito della vendita, da parte della stessa B. S.A., dell’immobile dove era ubicata la propria vecchia sede di Parigi.
Con il primo profilo del motivo, la ricorrente lamenta che la CTR, nonostante avesse rilevato che dalle relazioni di società di consulenza prodotte dalla C. s.p.a. risultava «l’esistenza di concreti rischi ambientali» nei siti produttivi della Bricard S.A., contraddittoriamente non aveva poi riconosciuto la «innegabile […] conseguente perdita di valore della partecipazione».
Tale profilo non è fondato.
Il lamentato contrasto tra il rilievo che dalle relazioni di società di consulenza risultava l’esistenza di concreti rischi ambientali nei siti della B. S.A. e la mancata riconduzione a tali rischi della svalutazione della partecipazione operata dalla C. s.p.a. non sussiste.
Ciò in quanto la CTR, da un lato, ha spiegato – con un ragionamento immune da vizi logici – perché la predetta risultanza delle relazioni di società di consulenza non consentisse tale riconduzione, argomentando che: a) «nessuna delle relazioni prodotte […] quantifica i costi potenziali della bonifica ambientale, e pertanto nessuna di esse può essere servita agli amministratori della controllante C. S.p.A. a calcolare l’importo della svalutazione della partecipazione nella società B. S.A.», b) «se la svalutazione fosse collegata […] alle opere di bonifica, già evidenziate dalle relazioni delle società di consulenza fin dal 2001, quale motivo gli amministratori [della C. s.p.a.] avrebbero avuto per aspettare il 2003 per effettuare gli accantonamenti al fondo svalutazione»; c) «durante l’anno 2003 nel bilancio della B. S.A. il fondo rischi per la cessazione delle attività produttive negli stabilimenti di F., F. e F. è addirittura diminuito da Euro 312.617 ad Euro 42.381 […]. Gli amministratori della B. hanno quindi valutato l’impatto della bonifica ambientale, ed i valori coinvolti sono molto inferiori a quelli che oggi il contribuente afferma di aver utilizzato nella controllante C. per svalutare la partecipazione della B.»; d) era pertanto «priva di pregio la tesi del contribuente […], essendo indimostrati sia i costi di bonifica, sia il riconoscimento dell’esistenza [del] rischio [ambientale] – se non per importi del tutto irrilevanti ed inferiori ad euro 9.070.000,00 – da parte degli amministratori della controllata B.». Dall’altro lato, la stessa CTR ha esposto le ragioni per le quali, invece, «gli elementi contabili» – tra i quali, in particolare, quello che la nota integrativa al bilancio 2003 della C. s.p.a. asseriva che «la partecipazione nella società francese B. S.A. […], per motivi di prudenza, nel corso dell’esercizio è stata svalutata per euro 9.070.000 per tener conto della riduzione patrimoniale riferita alla alienazione di alcune proprietà immobiliari» e quello che, nella relazione sulla gestione al bilancio 2003 della stessa C. s.p.a., si asseriva che «anche nel 2003 si è proceduto ad una sostenuta distribuzione di dividendi dalla B. S.A. resisi disoponibili grazie al buon andamento economico ed alla vendita di un immobile non strumentale di valore rilevante» – «avall[ava]no la tesi dell’Ufficio che collega la svalutazione operata nel 2003 alla cessione dell’immobile e alla successiva distribuzione dei dividendi».
Il secondo dei due profili di doglianza in cui si articola il motivo è inammissibile.
Premesso che al presente ricorso si applica il n. 5) del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ. nel testo di tale articolo sostituito dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, questa Corte ha chiarito che il «fatto», controverso e decisivo per il giudizio, ivi menzionato deve essere inteso come «un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico» e non è assimilabile, in alcun modo, a una “questione” o una “argomentazione” (Cass., 08/10/2014, n. 21152, 03/10/2018, n. 24035).
Con il secondo profilo in esame, la ricorrente ha dedotto l’asserita «[c] ontraddittorietà e/o illogicità della motivazione» della sentenza impugnata con riguardo alla circostanza che la CTR ha «posto il problema della “quantificazione” della “svalutazione realizzata”», laddove «tale problematica era del tutto insussistente nella […] fattispecie, in quanto la “svalutazione realizzata” poteva essere facilmente calcolata mediante il confronto tra il “costo storico” della partecipazione (pari a € 48.137.343,94) ed il corrispettivo della vendita (pari ad € 34.711.256,46)»; cioè riguardo a elementi che, palesemente, non concretano un «fatto» nel senso storico-naturalistico precisato dal ricordato principio di diritto.
Da ciò l’inammissibilità di tale profilo di doglianza.
Si può in ogni modo osservare che, là dove si è posta un «problema d[i] “quantificazione”» della svalutazione, la CTR lo ha in realtà fatto con riguardo alla svalutazione operata dalla C. s.p.a. nel bilancio dell’esercizio 2003 (e dalla stessa C. s.p.a. ripresa a tassazione) e non con riguardo alla svalutazione «realizzata» dalla C. s.p.a. nel 2004 a seguito della cessione della partecipazione nella B. S.A. (pag. 14 della sentenza impugnata).
11. Il secondo, il terzo e il quarto motivo, attenendo tutti alla questione dell’applicabilità o no alla fattispecie di causa del comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 (secondo e terzo motivo) e, conseguentemente, della lett. d) del comma 1 dell’art. 4 del d.P.R. n. 344 del 2003 (quarto motivo), possono essere esaminati congiuntamente.
Tali motivi non sono fondati.
11.1. L’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 – aggiunto dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 marzo 1993, n. 136 (decreto che, sulla base della delega conferita al Governo con la legge 19 febbraio 1992, n. 142, ha dato attuazione alla direttiva 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE del Consiglio concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi) – prevedeva, al suo comma 1, che «[g]li utili distribuiti, in occasione diversa dalla liquidazione, da società non residenti aventi i requisiti di cui al comma successivo, se la partecipazione diretta nel loro capitale è non inferiore al 25 per cento ed è detenuta ininterrottamente per almeno un anno, non concorrono alla formazione del reddito della società o dell’ente ricevente per il 95 per cento del loro ammontare […]». È in applicazione di tale disposizione che, come si è anticipato al punto 8, la C. s.p.a. ha legittimamente escluso da tassazione, per il 95% del loro ammontare, i dividendi percepiti dalla B. S.A. (per complessivi € 10.211.835,01) nel periodo d’imposta 2003.
L’art. 4, comma 2, della direttiva n. 90/435/CEE conferiva agli Stati membri «la facoltà di stipulare che […] minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli utili della società figlia non siano deducibili dall’utile imponibile della società madre». Tale facoltà è stata esercitata dal legislatore delegante dettando il criterio direttivo dell’art. 35, comma 1, lett. d) della legge n. 142 del 1992 («disciplina del criterio e delle condizioni di deducibllità […] delle minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli utili della società figlia») e dal legislatore delegato con la previsione del comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo cui, «[a] i fini degli articoli 61 e 66, le minusvalenze non sono deducibili per la quota eventualmente determinatasi per effetto della distribuzione degli utili che non concorrono a formare il reddito ai sensi del presente articolo».
La prima questione posta dai motivi in esame (sollevata, in particolare, con il secondo e il terzo di essi) è se tale disposizione del comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 – la cui ratio chiaramente consiste nell’evitare l’ingiustificato “doppio” vantaggio fiscale (con corrispondente ingiustificato danno per l’erario) che si sarebbe determinato qualora si fosse consentito alla società madre di dedurre minusvalenze, risultanti dalla valutazione o dall’alienazione della partecipazione nella società figlia, che fossero determinate dalla distribuzione, da parte di questa, di utili che, per il 95%, non avevano concorso a formare il reddito della società madre – sia applicabile (come ritenuto dalla sentenza impugnata) oppure no (come ritenuto dalla ricorrente) alla fattispecie di causa.
A proposito di quest’ultima, occorre premettere che, stante anche il rigetto del sesto motivo di ricorso (punto 10), deve ritenersi ormai accertato, in punto di fatto, che la svalutazione della partecipazione nella B. S.A., per l’importo di € 9.070.000,00, che la C. s.p.a effettuò civilisticamente nel bilancio dell’esercizio 2003, riprese a tassazione nella dichiarazione dei redditi per lo stesso 2003 e realizzò, a seguito della cessione della partecipazione, nel 2004 era stata determinata non dalla previsione di costi da sostenere per la bonifica ambientale dei siti produttivi della B. S.A. (come sostenuto dalla società contribuente) ma dalla distribuzione, da parte della stessa B. S.A., di dividendi (non tassati, a norma del comma 1 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986) effettuata a seguito della vendita dell’immobile dove era ubicata la propria vecchia sede di Parigi.
Sempre a proposito della fattispecie concreta di causa – e con specifico riguardo al secondo motivo di ricorso – va inoltre da subito rilevato che il fatto che la C. s.p.a. avesse iscritto la partecipazione nella B. S.A. nel bilancio dell’esercizio 2001 era una circostanza (oltre che, per quanto si dirà, non decisiva) non controversa ma, al contrario, pacifica tra le parti, come risulta evidente dalla lettura del ricorso in appello dell’Agenzia delle entrate (riprodotto, nella parte che qui interessa, a pag. 18 del ricorso), là dove si afferma che «[l]a società C. spa […] nell’anno 2001 è entrata in possesso della partecipazione nella società di diritto francese B. s.a.».
Ciò detto, si deve osservare che, considerato il rinvio, da esso operato, agli artt. 61 e 66 del d.P.R. n. 917 del 1976, il comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 si riferiva, in particolare, alle minusvalenze derivanti: a) dalla svalutazione delle partecipazioni che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie (art. 61 del d.P.R. n. 917 del 1986); b) dalla svalutazione delle partecipazioni che costituiscono immobilizzazioni finanziarie (art. 66, comma 1 -bis, del d.P.R. n. 917 del 1986); c) dall’alienazione (minusvalenze realizzate) delle partecipazioni che costituiscono immobilizzazioni finanziarie (art. 66, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986).
Tanto premesso – e così giungendo al punto centrale del secondo e del terzo motivo di ricorso – si deve evidenziare che il comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 non stabilisce l’indeducibilità di tutte tali minusvalenze ma soltanto di quelle di esse «determinat[e]si per effetto della distribuzione degli utili che non concorrono a formare il reddito ai sensi del presente articolo» (in particolare, del suo comma.
Tale essendo la “causa” dell’indeducibilità delle minusvalenze richiesta dal comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986, la ricorrente, con il secondo e il terzo motivo, asserisce che essa sarebbe riscontrabile solo nel caso della distribuzione di utili prodotti prima dell’acquisto della partecipazione (id est di riserve di utili) atteso che la distribuzione di utili prodotti dopo l’acquisto della partecipazione non determina una diminuzione del patrimonio netto “storico” della società figlia (al quale tale utili non avevano concorso) né, conseguentemente, una minusvalenza da svalutazione della partecipazione (che il combinato disposto dell’art. 66, comma 1 – bis e dell’art. 61, comma 3, lett. b del d.P.R. n. 917 del 1986 – cui la prima disposizione fa rinvio – consentiva infatti «in misura proporzionalmente corrispondente alle diminuzioni patrimoniali risultanti dal confronto tra l’ultimo bilancio regolarmente approvato dalle società o enti emittenti anteriormente alla data in cui le azioni vennero acquistate e l’ultimo bilancio»). Da ciò le denunce della ricorrente che la CTR, non considerando che la partecipazione nella B. S.A. era stata iscritta dalla C. s.p.a. nel bilancio dell’esercizio 2001 – e, conseguentemente, che la stessa B. S.A. aveva distribuito utili prodotti dopo l’acquisto della partecipazione – (secondo motivo), avrebbe violato e falsamente applicato sia gli artt. 61 (comma 3, lett. b) e 66 (comma 1 -bis) del d.P.R. n. 917 del 1986 (ritenendo che la suddetta distribuzione potesse avere determinato una diminuzione del patrimonio netto “storico” della B. S.A. e accertando tale diminuzione in violazione degli invocati artt. 61 e 66), sia l’art. 96-bis, comma 5, dello stesso decreto (ritenendolo applicabile a una fattispecie di distribuzione di utili prodotti post acquisizione) (terzo motivo).
Tali doglianze non possono essere accolte.
Che la distribuzione di riserve di utili (non tassati) determinasse, come correttamente ritenuto dalla ricorrente, una minusvalenza indeducibile ai sensi del comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 non significa infatti che analoga indeducibilità non debba essere ravvisata nel caso di distribuzione di utili (non tassati) che siano stati sì prodotti dalla società figlia dopo l’acquisto della partecipazione ma che derivino – come è stato accertato in punto di fatto – dalla vendita di beni (nella specie, la storica sede di Parigi della B. S.A.) che erano presenti nel patrimonio (nell’attivo patrimoniale) della società figlia già al momento dell’acquisto della partecipazione.
Anche in tale caso, infatti, poiché il costo di acquisto della partecipazione tiene evidentemente conto della presenza di tale bene nel patrimonio della società non residente, la minusvalenza realizzata con la cessione della partecipazione, ex art. 66, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 – costituita dalla differenza tra il costo “storico” di essa e il corrispettivo della sua cessione – si determina, pro quota (nella specie, per l’importo di € 9.070.000,00), per effetto della distribuzione degli utili (non tassati) derivati dalla vendita del suddetto bene.
Da ciò – e da quanto sin qui detto – discende l’infondatezza sia del secondo che del terzo motivo, atteso che: a) quanto al secondo motivo, nella tipologia di fattispecie qui ricorrente (distribuzione di utili derivanti dalla vendita di beni presenti nel patrimonio della società figlia già al momento dell’acquisto della partecipazione), non è decisivo il quando dell’iscrizione della partecipazione nel bilancio della società madre, bensì, appunto, che i predetti beni fossero presenti nel patrimonio della società figlia già al momento dell’acquisto (e dell’iscrizione in bilancio) della partecipazione; b) quanto – in ordine di priorità logico-giuridica – al secondo profilo del terzo motivo, il comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 era applicabile anche alle minusvalenze (da valutazione o da realizzo) determinatesi per effetto della distribuzione di utili, esclusi da tassazione ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, che, ancorché prodotti dalla società figlia dopo l’acquisto della partecipazione, derivassero, come nella specie, dalla vendita di beni che erano presenti nel suo patrimonio già al momento dell’acquisto della partecipazione c) quanto al primo profilo del terzo motivo, non rileva se una siffatta distribuzione di utili avesse o no determinato una diminuzione del patrimonio netto “storico” della società partecipata e, di conseguenza, una diminuzione patrimoniale rilevante ai sensi del combinato disposto degli artt. 66, comma 1 – bis e 61, comma 3, lett. b) del d.P.R. n. 917 del 1986, atteso che – come si appena visto in relazione al secondo profilo del terzo motivo – alla fattispecie era comunque applicabile il comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986, che stabiliva l’indeducibilità assoluta delle minusvalenze (da valutazione o da realizzo) determinatesi per effetto della distribuzione di utili esclusi da tassazione ai sensi del comma 1 dello stesso art. 96-bis.
11.2. Passando all’esame del quarto motivo, è noto che, con la riforma dell’imposizione sul reddito delle società operata con l’art. 4 della legge di delega al Governo 7 aprile 2003, n. 80 e con il successivo d.lgs. n. 344 del 2003, nel contesto del nuovo assetto del rapporto tra fiscalità della società e fiscalità dei soci – basato, essenzialmente, sul criterio che il reddito deve essere tassato presso il soggetto che lo ha effettivamente prodotto – sono stati previsti, per quanto qui direttamente interessa: a) l’esenzione, in presenza di determinati presupposti, delle plusvalenze realizzate a seguito della cessione delle partecipazioni (cosiddetta partipation exemption; art. 4, comma 1, lett. c della legge n. 80 del 2003 e art. 87 del “nuovo” d.P.R. n. 917 del 1986); b) l’indeducibilità delle minusvalenze da valutazione delle partecipazioni e, in modo simmetrico all’esenzione prevista per le corrispondenti plusvalenze, l’indeducibilità delle minusvalenze realizzate a seguito della cessione delle partecipazioni con i requisiti di cui al predetto art. 87 (art. 4, comma 1, lett. e della legge n. 80 del 2003 e art. 101 del “nuovo” d.P.R. n. 917 del 1986).
Con riguardo all’applicazione nel tempo di questa normativa, l’art. 4 del d.lgs. n. 344 del 2003 ha dettato (alle lettere c e d del comma 1) delle disposizioni transitorie, riguardanti il regime applicabile alle cessioni di partecipazioni poste in essere nei primi due periodi d’imposta di efficacia della stessa normativa, quando tali partecipazioni fossero state oggetto di svalutazioni nei due periodi d’imposta precedenti.
Le menzionate lettere c) e d) del comma 1 dell’art. 4 del d.lgs. n. 344 del 2003 stabilivano che: «non rientrano nell’esenzione di cui all’articolo 87 ed all’articolo 58 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, così come modificato dal presente decreto legislativo, le plusvalenze relative alle azioni o quote realizzate entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2003 fino a concorrenza delle svalutazioni dedotte nello stesso periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2003 e nel precedente» (lett. c); «corrispondentemente le svalutazioni delle stesse azioni o quote di cui al periodo precedente, riprese a tassazione nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2003 e nel precedente sono deducibili se realizzate entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2003» (lett. d).
Pertanto, in base a quest’ultima lett. d), nell’ipotesi di coincidenza del periodo d’imposta con l’anno solare, le minusvalenze realizzate entro il 31 dicembre 2005 erano deducibili fino a concorrenza dell’importo ripreso a tassazione delle (eventuali) svalutazioni delle stesse partecipazioni effettuate nel 2002 o nel 2003.
Con tale norma, il legislatore ha inteso tenere conto delle svalutazioni, operate nei bilanci dei due esercizi immediatamente precedenti l’efficacia della riforma, le quali, in applicazione delle previgenti disposizioni sui limiti di rilevanza fiscale delle svalutazioni civilistiche – in particolare, del combinato disposto degli artt. 66, comma 1 – bis e 61, comma 3, lett. b) del “vecchio” d.P.R. n. 917 del 1986 o dell’art. 1, comma 1, lett. a) del d.l. n. 209 del 2002 (in base al quale, ai fini della determinazione del valore minimo delle partecipazioni ex artt. 66, comma 1 -bis e 61, comma 3 del d.P.R. n. 917 del 1986, non si teneva più conto delle diminuzioni patrimoniali derivanti dalla distribuzione di riserve di utili o dalle perdite prodotte dalle società partecipate per la parte riferibile a quote di ammortamento dell’avviamento e ad accantonamenti fiscalmente indeducibili) – erano state riprese a tassazione nei corrispondenti periodi d’imposta e la cui rilevanza fiscale (id est: deducibilità della minusvalenza) era rinviata, dalla normativa previgente, al periodo d’imposta in cui la minusvalenza fosse stata realizzata. Il legislatore ha voluto quindi confermare la rilevanza fiscale di tali minusvalenze derivanti dalla cessione della partecipazione nei primi due periodi d’imposta di efficacia del regime della participation exemption, le quali, altrimenti, in base a tale nuovo regime (art. 101 del “nuovo” d.P.R. n. 17 del 1986 (ndr art. 101 del “nuovo” d.P.R. n. 917 del 1986) ) – che veniva così a essere temporaneamente derogato – sarebbero state indeducibili anche al momento della loro realizzazione; con una penalizzazione del contribuente che lo stesso legislatore ha reputato giusto evitare.
Individuata, perciò, la ratio della lett. d) del comma 1 dell’art. 4 del d.lgs. n. 344 del 2003 nell’intento di consentire temporaneamente, in deroga al nuovo regime della participation exemption, la deducibilità delle svalutazioni la cui rilevanza fiscale era stata rinviata, in applicazione della disciplina previgente, al momento della cessione della partecipazione, risulta evidente come la stessa ratio non possa ritenersi riferibile alle svalutazioni cui era comunque applicabile – come nella specie – il comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986, atteso che, come si è visto, tale disposizione non rinviava la deducibilità della svalutazione al momento della realizzazione della minusvalenza ma stabiliva, piuttosto, l’indeducibilità assoluta delle minusvalenze (tanto da valutazione quanto da realizzo) determinatesi per effetto della distribuzione di utili non tassati, al fine di evitare una duplicazione di vantaggi fiscali. Risulta quindi chiaro che, poiché anche prima che fosse applicabile il nuovo regime della participation exemption tali minusvalenze erano fiscalmente irrilevanti anche al momento della realizzazione, l’introduzione dello stesso regime non ha prodotto alcun effetto penalizzante rispetto al loro pregresso trattamento fiscale.
Ne discende l’inapplicabilità della disposizione transitoria dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 344 del 2003, per difetto della sua sopra indicata ratio, alle minusvalenze di cui all’art. 96-bis, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986 determinate da distribuzione di utili soggetti al regime cosiddetto madre-figlia, e, conseguentemente, l’indeducibilità delle stesse minusvalenze, ai sensi di quest’ultima disposizione, ancorché la svalutazione della partecipazione sia stata ripresa a tassazione nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2003 o nel precedente e sia stata realizzata entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2003.
12. Deve essere disattesa la richiesta di rinvio pregiudiziale (di interpretazione) alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE; già art. 234 TCE), avanzata dalla società ricorrente in via subordinata all’accoglimento dei primi quattro motivi di ricorso e riassunta sopra al punto 5.
A tale riguardo, è opportuno premettere che il giudice nazionale di ultima istanza «non deve rimettere la questione interpretativa alla Corte di Giustizia o quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione, o quando ritenga di essere in presenza di un acte eia ire, che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte, ovvero della “evidenza” dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale» (Cass., S.U., 24/05/2007, n. 12067; Cass., 29/11/2013, n. 26924, 07/07/2018, n. 14828).
Ciò posto, va rilevato che la questione, come prospettata, non sussiste perché, premesso che l’interpretazione del diritto interno da sottoporre all’esame della Corte di giustizia spetta al giudice nazionale, questo Collegio, quale giudice nazionale, non ha affermato che l’art. 96-bis, comma 5, del “vecchio” d.P.R. n. 917 del 1986 «prescrive] l’indeducibilità automatica per ogni minusvalenza conseguita a seguito di una distribuzione di dividendi esenti» – e, quindi (oltre che nei casi in cui tali dividendi siano relativi a utili prodotti anteriormente all’acquisizione della partecipazione), anche in tutti i casi in cui gli stessi dividendi siano relativi a utili prodotti successivamente all’acquisizione della partecipazione – ma, quanto a quest’ultima ipotesi, limitatamente alla peculiare fattispecie della distribuzione di utili che derivino dalla vendita di beni che erano presenti nel patrimonio della società figlia già al momento dell’acquisto della partecipazione (punto 11.1). Ne consegue la non ipotizzabilità di una richiesta alla Corte di giustizia su una questione fondata su un’interpretazione della norma interna che questa questa Corte non ha affermato.
13. Il quinto motivo non è fondato.
Come si è visto esaminando il quarto motivo (punto 11.2), l’inapplicabilità della disposizione transitoria dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 344 del 2003 alle minusvalenze di cui all’art. 96-bis, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986 determinate dalla distribuzione di utili esenti in quanto soggetti al regime madre-figlia è dovuta al fatto che, poiché per tali minusvalenze era prevista un’indeducibilità assoluta, in relazione a esse non ricorre la ratio di detta disposizione transitoria di consentire temporaneamente, in deroga al nuovo regime della participation exemption, la deducibilità delle svalutazioni la cui rilevanza fiscale era stata solo rinviata in applicazione della disciplina previgente. Da ciò l’indeducibilità di dette minusvalenze, ai sensi del comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986, ancorché la svalutazione della partecipazione sia stata ripresa a tassazione nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2003 o nel precedente e sia stata realizzata entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2003.
Tale indeducibilità è dunque conseguenza dell’indeducibilità assoluta delle minusvalenze determinate dalla distribuzione di utili soggetti al regime madre-figlia già prevista dal comma 5 dell’art. 96-bis del d.P.R. n. 917 del 1986. Un’indeducibilità assoluta che non era invece prevista per le minusvalenze determinate dalla distribuzione di utili non soggetti al regime madre-figlia e che – come si è visto al punto
11. 1 – fu introdotta dal legislatore italiano esercitando una facoltà conferitagli dal diritto comunitario, in particolare, dall’art. 4, comma 2, della direttiva n. 90/435/CEE, secondo cui «[o]gni Stato membro ha la facoltà di stipulare che […] minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli utili della società figlia non siano deducibili dall’utile imponibile della società madre».
La denunciata disparità di trattamento nella fase transitoria dei primi due periodi d’imposta di efficacia della nuova normativa sulla participation exemption dipende dunque dalla diversità della previgente disciplina delle minusvalenze soggette al regime madre- figlia rispetto alle minusvalenze non soggette a tale regime; diversità che, come si è detto, era consentita e, quindi, prevista come possibile dallo stesso diritto comunitario.
Ne consegue che la denunciata disparità di trattamento nella fase transitoria era obiettivamente giustificata dalla diversità della disciplina previgente la quale, per quanto riguarda quella delle minusvalenze derivanti dalla distribuzione di utili soggetti al regime madre-figlia, era stata introdotta dal legislatore italiano nell’esercizio di una facoltà conferitagli dallo stesso diritto comunitario.
Sotto un altro autonomo – e più radicale – profilo, va osservato che la discriminazione denunciata concernerebbe, in realtà, la diversità di trattamento tra società residenti che chiedano di dedurre minusvalenze determinate dalla distribuzione di utili soggetti al regime madre-figlia e società residenti che chiedano di dedurre minusvalenze determinate dalla distribuzione di utili non soggetti a tale regime e, quindi, una disparità di trattamento tra società residenti e non tra società residenti e non residenti, come presuppone l’applicabilità dell’art. 12 TCE.
L’evidenza di tali ragioni, oltre a confermare l’infondatezza del motivo, rende altresì inutile il rinvio pregiudiziale richiesto dalla ricorrente in via subordinata all’accoglimento dello stesso.
14. Con la memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, la ricorrente ha chiesto che, nel caso di rigetto del ricorso, questa Corte: a) dichiari l’inapplicabilità delle sanzioni ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, per l’esistenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della normativa tributaria; b) in via subordinata, applichi – sempre con riguardo alle sanzioni, in virtù del principio del favor rei di cui all’art. 3, comma 3, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 – lo ius superveniens «di cui all’art. 15, co. 1, lett. b), n. 1), del D.Lgs. n. 158/2015 che ha modificato l’art. 2, co. 2, del D.Lgs. n. 471/1997».
14.1. La prima richiesta di disapplicazione delle sanzioni è inammissibile, giacché non poteva essere formulata per la prima volta in sede di legittimità.
Questa Corte ha infatti statuito – con un orientamento che è ormai consolidato – che il giudice può dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni per violazione di norme tributarie, anche in sede di legittimità, qualora abbia accertato che tale violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle stesse norme, solo se vi sia una specifica domanda del contribuente, avanzata nei modi e nei termini processuali approprati, la quale non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello o nel giudizio di legittimità (Cass., 24/10/2008, n. 25676, 12/11/2014, n. 24060, 14/07/2016, n. 14402).
14.2. Quanto alla richiesta subordinata di applicazione dello ius superveniens, si deve preliminarmente rilevare che, per un evidente errore materiale, la società ricorrente ha indicato, quale più favorevole ius superveniens applicabile, l’art. 15, co. 1, lett. b), n. 1) del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 – il quale ha modificato l’art. 2 (comma 1) del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, che riguarda le violazioni, estranee alla fattispecie in esame, relative alla dichiarazione del sostituto d’imposta – anziché l’art. 15, comma 1, lett. a) dello stesso d.lgs. n. 158 del 2015, che ha sostituito l’art. 1 del d.lgs. n. 471 del 1997 e, con esso, anche il comma 2 di tale articolo, cioè la disposizione sanzionatola effettivamente applicata dall’Ufficio di Faenza dell’Agenzia delle entrate (come risulta dal brano dell’avviso di accertamento relativo al «provvedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative» riportato dalla stessa ricorrente nella memoria).
Premesso che la richiesta deve quindi considerarsi più esattamente riferita all’applicazione dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 471 del 1997, come sostituito dall’art. 15, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 158 del 2015 – la società ricorrente ha peraltro indicato in modo esatto il minimo (novanta per cento) e il massimo (centottanta per cento) edittali stabiliti da tale disposizione – la stessa deve essere accolta.
Con un orientamento che si è anch’esso ormai consolidato, questa Corte ha chiarito che le modifiche apportate dall’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015 al d.lgs. n. 471 del 1997 non operano in modo generalizzato in senso favorevole al reo, con la conseguenza che la mera affermazione di uno ius superveniens più favorevole non rende sic et sipliciter la sanzione irrogata illegale, in mancanza della specifica deduzione dell’applicabilità in concreto di una sanzione tributaria inferiore alla stessa (Cass., 12/04/2017, n. 9505, 28/06/2018, n. 17143, 30/11/2018, n. 31062).
Nel caso di specie, peraltro, la società ricorrente ha trascritto nella memoria lo stralcio dell’avviso di accertamento dal quale risulta sia la violazione accertata («Ires – Presentazione di dichiarazione indefedele per l’indicazione di un reddito imponibile inferiore a quello accertato o di un’imposta inferiore a quella dovuta …a) art. 1, comma 2, D.Lgs 18.12.1997 n. 471») sia la sanzione in concreto irrogata (corrispondente al minimo edittale, allora stabilito nella misura del 100 per cento della maggior imposta dovuta) e ha altresì rideterminato l’inferiore sanzione che sarebbe da irrogare in applicazione dello ius superveniens (corrispondente al “nuovo” minimo edittale, stabilito nella misura del 90 per cento della maggior imposta dovuta).
Da ciò l’accoglimento, nei termini indicati, della richiesta subordinata di applicazione dello ius superveniens dell’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015.
15. In conclusione, i motivi di ricorso devono essere rigettati. In applicazione dell’indicato ius superveniens dell’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione, affinché ridetermini le sanzioni e provveda, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Rigetta i motivi di ricorso; pronunciando in merito alle sanzioni, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione, per la quantificazione delle stesse, oltre che per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
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