CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 dicembre 2020, n. 29007
Licenziamento – Reintegrazione nel posto di lavoro precedentemente occupato – Meccanismo fraudolento – Intento fittizio di ottemperare all’ordine di reintegrazione
Fatti di causa
Con sentenza n.436/2018 il Tribunale di Roma, in esito a procedimento ex lege 92/2012 instaurato da M.G. nei confronti del Gruppo C. s.p.a., dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 28/11/2016 e ordinava alla società di reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro precedentemente occupato e la condannava al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
In accoglimento del reclamo proposto in via incidentale dal lavoratore ed in parziale riforma dell’impugnata sentenza, la Corte distrettuale, con sentenza resa pubblica il 18/10/2018, respinto il ricorso principale, dichiarava la nullità del licenziamento perché intimato in frode alla legge e condannava parte datoriale alla corresponsione di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto da dì del licenziamento sino a quello della effettiva reintegra.
A fondamento della decisione, ed in estrema sintesi, la Corte territoriale osservava che la società, in esecuzione di precedente pronunzia del Tribunale di Roma n.8938/2016 – con la quale era stato annullato il licenziamento già intimato il 22 dicembre 2014 – aveva disposto la reintegra del lavoratore non presso il negozio di via C.R. in Roma ove era in precedenza occupato – e ciò in considerazione dei mutamenti strutturali e commerciali verificatisi nel punto vendita – bensì presso il punto vendita “lana” sito in Trieste.
Cinque giorni dopo la reintegra del ricorrente, in esecuzione della sentenza n. 8938/2016, il Gruppo C. aveva comunicato l’avvio di una procedura per riduzione del personale mediante licenziamento collettivo di nove dipendenti, tutti addetti all’unità produttiva di Trieste, strutturalménte esuberante rispetto alle esigenze della società.
Opinava, pertanto, la Corte che l’atto risolutivo del rapporto di lavoro, inserito nella vicenda così ricostruita, era da inquadrarsi nella categoria degli atti in frode alla legge; per essere l’operazione complessivamente realizzata, unitamente al trasferimento al punto vendita lana di Trieste, un mezzo per eludere l’applicazione delle disposizioni imperative in materia di limitazione alle facoltà datoriali di recesso e per sottrarre la società all’ordine di reintegra disposto dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 8938/2016.
In tal senso osservava, quanto alla eccezione sollevata dalla società, di decadenza dalla impugnativa del trasferimento, che, una volta impugnato in via principale un licenziamento e dedotta la frode alla legge per il collegamento con un preesistente trasferimento, così come nella specie, il giudizio aveva per oggetto entrambi i negozi anche nelle ipotesi in cui quest’ultimo non fosse stato impugnato in via diretta oppure fosse stato impugnato tardivamente.
La Corte interpretava quindi il dispositivo di reintegra nel posto di lavoro in precedenza occupato, individuando quest’ultimo nel punto vendita lana di Trieste e rimarcando al riguardo che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la chiusura dello stabilimento aziendale cui il lavoratore era addetto prima del licenziamento, non escludeva la possibilità per l’impresa di reintegrarlo nel posto di lavoro, eventualmente trasferendolo ad altre unità produttive.
Avverso tale decisione la società interpone ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi.
La parte intimata resiste con controricorso, proponendo ricordo incidentale condizionato affidato ad unico motivo.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ex art.378 c.p.c.
Considerato che
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1344, 1345, 2103 c.c. e dell’art. 41 Cost.in relazione all’art.360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si criticano gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale sul rilievo che il concetto di frode alla legge è stato previsto dal legislatore solo per i contratti e non già per gli atti unilaterali quale il licenziamento, riguardo al quale la configurabilità e la valenza del motivo illecito ex art. 1345 c.c. non può prescindere dalla prova della ritorsività o dell’inesistenza di un diverso motivo del recesso a carico del lavoratore, prova mai fornita ex adverso. In ogni caso si puntualizza, che la scelta del trasferimento del G. presso il punto vendita di Trieste, era del tutto legittima, perché esercizio dello jus variandi garantito dall’art.2103 c.c. in conformità alle proprie esigenze organizzative costituzionalmente garantite ex art. 41 Cost.
2. Il motivo non è fondato, per le ragioni di seguito esposte.
Occorre muovere in via di premessa dal principio – cui ha fatto corretto richiamo il giudice del gravame – secondo cui la peculiarità del contratto in frode alla legge disciplinato dall’art. 1344 cod. civ. consiste nel fatto che gli stipulanti raggiungono, attraverso gli accordi contrattuali, il medesimo risultato vietato dalla legge, di guisa che, nonostante il mezzo impiegato sia lecito, è illecito il risultato che attraverso l’abuso del mezzo, la predisposizione di uno schema fraudolento e la distorsione della sua funzione ordinaria si vuole in concreto realizzare (vedi Cass. 26/1/2010 n. 1523, Cass. 26/9/2018 n. 23042).
Diversamente, non si ha invece contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c.), bensì in violazione di disposizioni imperative (art. 1343 c.c.), qualora le parti perseguano il risultato vietato dall’ordinamento, non già attraverso la combinazione di atti di per sé leciti, ma mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con disposizioni di tale natura.
Nello specifico, come fatto cenno nello storico di lite, la Corte distrettuale ha bene lumeggiato il meccanismo fraudolento – perché articolato in una serie di condotte nella loro atomistica essenza, “apparentemente” lecite – posto in essere dalla società, che ha condotto alla definitiva espulsione del lavoratore, dall’assetto organizzativo aziendale.
Prima ancora che fosse disposto il trasferimento del ricorrente presso la sede triestina, nell’intento fittizio di ottemperare all’ordine di reintegrazione derivante da precedente decisione della Corte d’appello di Roma n.8238/2016, era dato acquisito alla cognizione della parte datoriale, quello relativo alla strutturale esuberanza della sede di destinazione, in perdita da anni, come del resto fatto presente dal Gruppo C. s.p.a. nella comunicazione di licenziamento.
Il giudice del gravame, con assolutamente completo e logico incedere argomentativo, ha enucleato plurimi indici sintomatici, oggettivi e soggettivi, ai fini della tipizzazione di un comportamento della società posto in essere allo scopo di eludere le conseguenze dell’ordine di reintegrazione e la disciplina di cui alla l. n. 223/1991, con una ricostruzione fattuale, del tutto congrua e come tale, esente dal sindacato di legittimità, in quanto sorretta da motivazione immune da vizi, riservata al giudice di merito (v. ex aliis Cass. 11/9/2017 n. 21042),
Si è imposta l’evidenza di uno schema fraudolento ex art. 1344 c.c., il cui accertamento è stato condotto dal giudice di merito in base ad una valutazione unitaria e non atomistica degli indici sintomatici dell’intento elusivo, che si esprime nel „collegamento negoziale fra il trasferimento presso il punto vendita di Trieste ed il licenziamento collettivo.
3. La struttura argomentativa che innerva l’impugnata sentenza, è peraltro conforme a diritto, non solo in quanto ricalca lo schema legale del contratto in frode alla legge nei sensi della interpretazione resa dai ricordati arresti, ma anche perché ha disposto applicazione degli enunciati schemi ad un atto unilaterale.
Ricordato che presupposto indefettibile affinché si possa parlare di contratto in frode alla legge è che il negozio posto in essere non realizzi quella che è una causa tipica – o comunque meritevole di tutela ex art. 1322, secondo comma, c.c. -, bensì una causa illecita in quanto finalizzata alla violazione della legge (vedi in motivazione Cass. 6/4/2018 n. 8499), non può non concludersi per la conformità a diritto degli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito la quale ha dichiarato la nullità dell’atto di licenziamento, integrante ipotesi di illiceità della causa del contratto perché finalizzata alla elusione delle norme imperative in materia di limitazione alle facoltà datoriali di recesso dal rapporto di lavoro, e, segnatamente, all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro ed al rispetto delle disposizioni che scandiscono la procedura di licenziamento collettivo ex lege n.223 del 1991; così non realizzando alcuna violazione delle disposizioni codicistiche richiamate (artt. 1344 e 1345 c.c.) applicabili chiaramente anche agli atti unilaterali (con precipuo riferimento alla norma dettata dall’art. 1345 cod. civ. vedi Cass. 19/10/2005 n.20197).
Nell’ottica descritta, del tutto inammissibile si palesa la questione sollevata da parte ricorrente con riferimento al licenziamento ritorsivo perché ispirato da motivo illecito, il cui onere probatorio si prospetta a carico della parte lavoratrice assumendosi sia rimasto del tutto inadempiuto.
Nello specifico, per quanto sinora detto, non si verte certamente in ipotesi di carenza di prova in ordine al fine illecito, avendo la Corte distrettuale ampiamente dato conto del proprio convincimento in ordine allo schema fraudolento adottato dalla società con argomentazione congrue e conformi a diritto, che resistono alla censura all’esame.
4. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, dell’art. 6 l. 604/1966, dell’art. 32 c. 1 lett. E legge n. 183/2010 nonché dell’art. 113 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si prospetta l’erroneità della statuizione con la quale la Corte di merito ha ritenuto inapplicabile, con riferimento al trasferimento ritenuto dal lavoratore illegittimo, il termine di decadenza sancito dalla disposizione di cui all’art.32 l. 183/2010. Si deduce che, non avendo il lavoratore formalmente impugnato entro il termine di decadenza ex iege previsto, il trasferimento a Trieste, nessuna pronuncia giudiziale poteva al riguardo essere emessa.
5. Il motivo è privo di pregio.
Preme al riguardo rilevare la correttezza dell’incedere argomentativo seguito dal giudice del gravame il quale ha congruamente inquadrato la vicenda scrutinata nell’ambito dello schema della fraus legis, ritenendo non vulnerati i dettami del richiamato art. 32 l. 183/2010 con riferimento al disposto trasferimento presso il punto vendita J. di Trieste, in quanto ineludibile passaggio giuridico per addivenire alla declaratoria di illegittimità del licenziamento collettivo e strumentale all’accoglimento del petitum mediato. »
Ha infatti rimarcato che il lavoratore aveva inteso conseguire una pronuncia di accertamento della illegittimità del licenziamento intimato, che si poneva in rapporto di biunivoca, necessaria relazione rispetto al pregresso trasferimento disposto presso la sede triestina. Il trasferimento integrava, infatti, un elemento della complessa fattispecie che definiva la prospettata frode alla legge, la quale costituiva oggetto di accertamento in via incidentale e strumento ineludibile per pervenire ad una pronunzia sul licenziamento.
In tale prospettiva, non era configurabile alcuna autonoma necessità di impugnazione del singolo atto costitutivo della complessa fattispecie frodatoria, considerato lo stretto legame logico-giuridico intercorrente fra i due provvedimenti (trasferimento – licenziamento collettivo) e la funzione strumentale assunta nella dinamica contrattuale, dal trasferimento stesso presso una sede che già aveva evidenziato una presenza di personale esuberante rispetto alle esigenze dell’impresa.
L’avere tempestivamente impugnato l’atto finale della condotta illecita assunta dalla parte datoriale, esonerava il lavoratore dalla necessità di contestare la legittimità del provvedimento emanato dalla società nell’esercizio dello jus variandi.
6. Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art.360 comma primo nn. 3 e 4 c.p.c.
Ci si duole che la Corte di merito abbia pronunciato ultra petita, con riferimento al luogo di reintegra del lavoratore, il quale aveva sempre invocato la ricollocazione nel posto di lavoro precedentemente occupato di via C.R. in Roma.
7. La censura palesa profili di inammissibilità.
Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione ivi stabilite, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Ne deriva che, ove il ricorrente lamenti l’errore processuale consistito nell’aver ritenuto ammissibile una domanda in violazione delle preclusioni processuali, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo alla norma processuale violata, purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa violazione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché si riferisca esclusivamente alla insufficienza e contraddittorietà della motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (vedi ex plurimis, Cass. 29/11/2016 n. 24247, Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931).
I vizi dell’attività del giudice che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato error in procedendo, con conseguente onere dell’impugnante di indicare il danno concreto arrecatogli dall’invocata violazione della norma processuale, onere che nella specie, non è stato assolto.
Non sono state enunciate le ragioni per le quali il mancato accoglimento integrale della domanda proposta dal lavoratore possa aver pregiudicato l’interesse datoriale, quando era stato riconosciuto un bene della vita inferiore rispetto a quello richiesto.
8. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso principale è respinto, restando logicamente assorbito il ricorso incidentale condizionato formulato dal G., ed avente ad oggetto la statuizione della Corte territoriale con la quale si era interpretata la sentenza di prime cure, nel senso di un “implicito rigetto della domanda incidentale sul trasferimento”.
Il regime delle spese segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata con distrazione in favore degli avv.ti P.L.P. e C.G..
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale assorbito il ricorso incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge da distrarsi in favore degli avv.ti P. e G.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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