CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 febbraio 2020, n. 3903
Licenziamento per giusta causa – Registrazione vendita di biglietti del gioco “Gratta e Vinci” in luogo di prodotti acquistati dai clienti – Testimonianze – Agenzia investigativa incaricata dei controlli
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 695/2017, pubblicata il 16 ottobre 2017, la Corte di appello di Salerno, in riforma della decisione di primo grado, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a P.M. da A. b.p.A., con lettera il marzo 2011, per avere lo stesso registrato la vendita di biglietti del gioco “Gratta e Vinci” in luogo dei prodotti realmente acquistati dai clienti, al fine di appropriarsi delle eventuali vincite.
2. La Corte territoriale ha ritenuto dimostrati i fatti contestati e certa l’identificazione del lavoratore, sulla base delle testimonianze rese dai dipendenti dell’agenzia investigativa incaricata dei controlli e di quelle dei dipendenti della società, nonché proporzionata la sanzione inflitta, esclusa qualsiasi violazione del diritto di difesa del lavoratore nel corso del procedimento disciplinare, anche per essere privo di rilevanza decisiva il fatto che ad una prima contestazione, in cui si dava atto della confessione del M., era seguita una seconda lettera di addebito, in cui tale riferimento risultava soppresso.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il M. con tre motivi, cui ha resistito la società con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente, deducendo il vizio di cui all’art. 360 n. 4 in relazione agli artt. 132 n. 4 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata per avere ritenuto dimostrata la condotta infedele del lavoratore senza dare conto, se non in apparenza e con motivazione incomprensibile, oltre che contraddittoria, delle ragioni sottese a tale convincimento.
2. Con il secondo, deducendo la violazione degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 cod. proc. civ. nonché vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver omesso di rendere alcuna motivazione sul punto, controverso tra le parti e decisivo, concernente la consegna al lavoratore di due distinte lettere di contestazione disciplinare e i motivi di tale consegna.
3. Con il terzo, deducendo la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 5 I. n. 604/1966, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto legittimo il licenziamento senza che la datrice di lavoro avesse fornito la prova della sua fondatezza, anche con riferimento all’identificazione del ricorrente stesso come effettivo autore delle condotte addebitate: in particolare, il ricorrente si duole che la Corte abbia omesso di valutare il materiale istruttorio nella sua interezza, affermato fatti e circostanze privi di riscontro ed inoltre attribuito rilevanza probatoria alle dichiarazioni dei dipendenti della agenzia investigativa, trascurando di considerare la mancanza nella specie di qualsiasi documentazione che le potesse corroborare.
4. Il primo motivo è infondato.
5. E’, infatti, “apparente”, dando luogo a nullità della sentenza per error in procedendo, la motivazione che, sebbene graficamente esistente, “non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (Sez. U n. 22232/2016; conforme Cass. n. 13977/2019).
6. A tale vizio si sottrae, con tutta evidenza, la pronuncia impugnata, la quale, con ampia motivazione (cfr. pp. 8-15) e sulla base di un diffuso e analitico esame delle risultanze probatorie acquisite ai giudizio, ha chiarito le ragioni, per le quali dovesse considerarsi dimostrato sia l’effettivo compimento della condotta addebitata, sia l’identificazione del ricorrente quale autore della stessa, sia l’assenza di qualsivoglia lesione del diritto di difesa del lavoratore nel procedimento disciplinare, come di indebite pressioni o minacce della società per indurlo a confessare o a dimettersi.
7. Non può egualmente trovare accoglimento il secondo motivo di ricorso.
8. Al riguardo, è sufficiente rilevare che, diversamente da quanto dedotto con il motivo in esame, la sentenza impugnata ha specificamente preso in esame il fatto dell’avvenuta redazione di due lettere di contestazione, sottolineando come la prima di esse, recante menzione della confessione del lavoratore, fosse priva di rilevanza ai fini della regolarità del procedimento disciplinare, in quanto soltanto con la seconda, in cui la società datrice di lavoro aveva eliminato il richiamo alla confessione, il procedimento stesso poteva dirsi legittimamente avviato (cfr. pp. 14-15).
9. D’altra parte, fermo restando che – come già accennato (sub n. 6) – la Corte di merito ha escluso, sulla base delle dichiarazioni dei testi escussi, la realizzazione da parte della società di iniziative o condotte intimidatorie verso il proprio dipendente, il ricorrente non dimostra in alcun modo come, e in quali esatti termini, il comportamento del datore di lavoro precedente alla redazione della seconda lettera, quale effettivo e legittimo atto di impulso del procedimento disciplinare, debba ritenersi caratterizzato da “decisività” (e cioè non da una qualsiasi, ipotetica rilevanza, ma dalla concreta attitudine a determinare un esito diverso della controversia: in tal senso Sez. U. n. 8053 e n. 8054 del 2014), a fronte dell’approfondita e puntuale ricostruzione dei fatti svolta in sentenza.
10. Il terzo motivo risulta inammissibile.
11. Si deve, infatti, ribadire in proposito il principio, secondo il quale, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 cod. civ. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. n. 26769/2018, fra le molte conformi); mentre le censure, che con il motivo in esame vengono proposte, lungi dal relazionarsi al paradigma delle norme citate, si sostanziano in una rivisitazione del merito della causa e cioè in un’operazione elaborativa e valutativa che è estranea alla sede di legittimità ed è invece propria del giudice di merito, a cui spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere dal complesso delle risultanze del processo quelle più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. n. 6288/2011, fra le numerose conformi).
12. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
13. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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