CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 gennaio 2020, n. 894
Tributi – IVA – Credito – Cessione da parte del fallimento a istituto di credito – Notifica della cessione all’Amministrazione – Richiesta di rimborso da parte del cessionario – Legittimità
Fatti di causa
In virtù di silenzio rifiuto avverso l’istanza del 30 novembre 2011, veniva negato il rimborso del credito IVA invocato dal Banco Popolare Società cooperativa, quale cessionaria del credito del Fallimento V. s.r.l., giusta cessione notificata all’Agenzia delle entrate in data 18 settembre 2002.
Avverso il silenzio rifiuto ricorreva il Banco Popolare Società cooperativa, adducendo la spettanza del credito IVA avuto riguardo alla sua indicazione nella dichiarazione dei redditi presentata dalla cedente il 30 aprile 2001 ed evidenziando l’avvenuta notifica della cessione all’Amministrazione.
La CTP di Roma accoglieva il ricorso della contribuente.
La CTR del Lazio ha successivamente rigettato l’appello erariale.
Il ricorso per cassazione dell’Agenzia delle entrate è affidato a due motivi. Resiste il Banco B. s.p.a., succeduta a Banco Popolare Società cooperativa, con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso principale, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 30, comma 2, e 38-bis d.P.R. n. 633 del 1972, dell’art. 5 d.l. n. 70 del 1988, del D.M. n. 384 del 1997, dell’art. 43-bis d.P.R. n. 600 del 1973 nonché dell’art. 2697 c.c., per avere la CTR invertito il riparto degli oneri probatori a svantaggio dell’Amministrazione, respingendo, altresì, la tesi dell’Ufficio tesa a rimarcare le circostanze ostative al rimborso, che impingeva tra l’altro nel divieto di cessione parziale del credito IVA esposto in dichiarazione.
Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 1283 c.c. e la violazione del d.l. n. 223 del 2006, convertito con l. n. 248 del 2006, per avere la CTR riconosciuto la debenza degli interessi anatocistici.
Il primo motivo è inammissibile e va disatteso.
È senz’altro vero che in sede di contenzioso tributario, ove la controversia abbia ad oggetto l’impugnazione del rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo, il contribuente è attore in senso non solo formale ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e provare i fatti a cui la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato, di talché le argomentazioni con cui l’Ufficio nega la sussistenza dei fatti, o la qualificazione ad essi attribuità costituiscono mere difese, non soggette ad alcuna preclusione processuale (Cass. 12291 del 2018; Cass. n. 21197 del 2014; Cass. n. 29613 del 2011).
Va, peraltro, osservato che in una fattispecie, quale quella in esame, in cui si è impugnato a monte il provvedimento di diniego per silenzio rifiuto dell’istanza di rimborso, la conseguenza della qualificazione processuale del contribuente quale attore in senso sostanziale è che ai fini del riconoscimento del diritto del contribuente al rimborso medesimo, costui fosse onerato di dare prova dei presupposti su cui si fonda la domanda proposta.
Questa linea interpretativa, tuttavia, è stata correttamente seguita dal giudice del gravame e ha costituito la ragione fondante della pronuncia; essa non è stata colta dal motivo di censura in esame, che si è limitato a prospettare ragioni di doglianza relative alla violazione delle norme sul riparto degli oneri probatori e sul divieto di cessione parziale del credito IVA poggiate su circostanze astrattamente ostative, ma affatto dimostrate e documentate dalla deducente Amministrazione.
La CTR non si è disallineata dal su riportato condivisibile avviso e non ha affatto invertito il riparto degli oneri probatori fra contribuente e fisco ai fini del rimborso dal primo invocato, in quanto ha ritenuto, sulla base di un libero apprezzamento insindabile in questa sede di legittimità, l’avvenuta prova del credito chiesto a rimborso, non solo in ragione della indicazione di esso nella dichiarazione IVA dell’anno 2001, ma di altre circostanza idonee a corroborarne sussistenza ed entità: innanzitutto, il giudice d’appello osserva come comprovata “l’avvenuta notificazione all’Amministrazione dell’atto notarile del 23 luglio 2002, ricognitivo dell’atto di cessione del credito data 18 gennaio 2000, non seguita da contestazioni in secondo luogo, esso giudice fa constare l’assenza di prova relativa alla circostanza che il credito indicato nella dichiarazione IVA del 2000 fosse stato riportato – come assertivamente dedotto dall’erario – in compensazione nell’anno 2001 e che, per quest’ultima annualità, vi fosse stata una richiesta di rimborso per la maggior somma non compresa nell’atto di cessione in quanto riferito soltanto alle annualità 1997, 1998 e 2000; inoltre, la CTR evidenzia come la sussistenza della pretesa risultasse “non negata dall’Amministrazione nella sua oggettività”.
Orbene, ancorché contrassegnate dal rango di mere difese e, in quanto tali, affatto suscettibili d’essere precluse, le deduzioni dell’Amministrazione finanziaria, tese a rimarcare profili ostativi rispetto alla sussistenza del diritto al rimborso andavano, nondimeno, probatoriamente suffragate da chi, per converso, si è limitata reiteratamente ad esporle.
In tal senso, sebbene l’Amministrazione finanziaria potesse in astratto certamente contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi nonostante fossero scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae termporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum” (Cass. sez. un. n. 5069 del 2016), essa ha esibito in corso di giudizio circostanze, a suo modo di vedere impeditive del rimborso, senza darne né una contezza formale, né una pur embrionale documentazione. In tal senso, la riproposizione di tali circostanze in sede di legittimità, lungi dal far lume su un asserito contrasto tra le decisione e le norme di legge rubricate, tende a promuovere in realtà una ricostruzione della fattispecie concreta difforme da quella accertata dai giudici d’appello rigorosamente dalla CTR e culminata nella ritenuta “dimostrazione di titolarità del diritto al rimborso richiesto”. Ma questa Corte ha più volte affermato il principio, secondo il quale “in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” se non nei limiti del vizio di motivazione come indicato dall’art. 360, comma 5, n. 5, nel testo riformulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012 (Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015).
Il giudice del gravame si è posto in una visuale di piena coerenza con l’orientamento consolidato di questa Corte (v. ex multis Cass. n. 17477 del 2007; Cass. n. 19547 del 2017), limitandosi a dare libera prevalenza ad alcuni elementi di prova al posto di altri e a offrirne idonea contezza argomentativa. Nè la parte processuale può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (da ultimo ed ex multis v. Cass. n. 29404 del 2017); con la proposizione del mezzo di impugnazione, il ricorrente non può, infatti, spingersi a contrapporre un difforme apprezzamento in fatto rispetto a quello reso dai giudici del merito, in base ad un’analisi, in sé coerente, degli elementi di valutazione disponibili, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità (Cass. n. 9097 del 2017).
Infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
Ai fini del relativo rigetto si palesa sufficiente richiamare e ribadire l’orientamento condivisibilmente già espresso da questa Corte secondo cui “In tema di rimborsi per i crediti IVA, con decorrenza dal 4 luglio 2006, data di entrata in vigore dell’art. 37, comma 50, del d.l. n. 233 del 2006 (conv., con modif., dalla l. n. 248 del 2006), non si calcolano gli interessi anatocistici sulle somme dovute a titolo di ritardato rimborso d’imposta al contribuente, mentre il principio dettato dall’art. 1283 c.c. continua ad avere pieno effetto per il periodo anteriore” (Cass. n. 15695 del 2017; Cass. n. 2823 del 2012).
Invero, la norma citata in rubrica dispone che “gli interessi previsti per il rimborso di tributi non producono in nessun caso interessi ai sensi dell’art. 1283 c.c.”. Essa è entrata in vigore il giorno stesso della pubblicazione del d.l. n. 223 del 2006, in Gazzetta Ufficiale e cioè il 4 luglio 2006.
È solo da tale data, pertanto, trattandosi di norma chiaramente innovativa di natura sostanziale, non opera più l’anatocismo in ordine alle somme dovute a titolo di rimborso d’imposta; mentre, ovviamente, la disciplina dettata dall’1283 c.c., – secondo il quale “in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi” – continua ad avere pieno effetto per il periodo anteriore.
Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato; le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura espressa in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio, liquidate in Euro 5.000,00 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed accessori di legge.
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