CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 giugno 2020, n. 11704
Lavoro straordinario – Retribuzione base – Istituti indiretti, ancorché non oggetto di espressa menzione, compresi tra gli elementi retributivi aventi carattere continuativo – Interpretazione CCNL
Fatti di causa
1. M.O., A.G. e F.L. agivano in giudizio nei confronti della C.F.P. soc. coop. a r.l., per la quale avevano prestato attività di farmacista (la O. nel periodo dal 3/9/1985 al 27/12/1991; la Grandi dall’1/2/1985 al 13/5/92; la L. dal 18/6/1986 al 30/11/1991), lamentando che il lavoro straordinario dalle stesse prestato era stato retribuito senza includere nella retribuzione base le quote orarie della 13ma e della 14ma mensilità previste dal C.C.N.L. di tempo in tempo in vigore nonché senza includere il premio di rendimento e il c.d. “contributo A.T.F.” previsti dall’Accordo aziendale del 4 aprile 1986; lamentando inoltre di avere ricevuto a titolo di compenso per il lavoro notturno corrispettivi inferiori a quelli stabiliti dalla contrattazione collettiva.
2. Le domande erano accolte dal Pretore di Parma con sentenza (parziale) poi confermata dal Tribunale della stessa sede in grado di appello.
3. La sentenza del Tribunale, proposto ricorso per cassazione da parte della Cooperativa, veniva annullata con sentenza n. 32/1998; annullata, con sentenza n. 9961/2007, era anche la successiva sentenza pronunciata in sede di rinvio dalla Corte di appello di Bologna.
4. Riassunto nuovamente il giudizio dalle ricorrenti, la causa era decisa, con il rigetto delle domande, dalla Corte di appello di Bologna con sentenza n. 1609/2014, depositata il 13 novembre 2014.
5. Avverso di essa hanno proposto ricorso per cassazione le lavoratrici, con tre motivi, cui ha resistito la Cooperativa con controricorso.
6. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo le ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e degli artt. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale e 1362 ss. cod. civ. per avere la Corte di appello omesso di motivare ovvero per avere reso una motivazione apparente o incomprensibile nel definire la portata delle disposizioni dei contratti collettivi nazionali del 1985 e del 1990 in tema di lavoro straordinario e comunque per non avere osservato i canoni legali di interpretazione: là dove la Corte aveva ritenuto che l’art. 63 del C.C.N.L. 17 dicembre 1985 (come l’art. 61 del C.C.N.L. 10 luglio 1990, di identico tenore letterale) non consentisse l’inserimento nella retribuzione di fatto, quale voce concorrente alla determinazione del compenso per le ore di lavoro straordinario, degli “elementi retributivi aventi carattere continuativo”, ai quali pure era fatto espresso richiamo nella disposizione collettiva, e ciò sul mero rilievo che essa non “menziona(va) gli istituti indiretti”; inoltre là dove la Corte territoriale aveva osservato che la disposizione, per la quale “la quota oraria della retribuzione sia normale che di fatto si ottiene dividendo l’importo mensile per il divisore convenzionale 173”, non “avrebbe senso se l’importo mensile dovesse essere previamente maggiorato di un dodicesimo della 13ma, 14ma e dei restanti premi annuali”.
2. Con il secondo motivo le ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ. nonché dell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale e degli artt. 1362 ss. cod. civ. per avere la Corte di appello omesso di motivare ovvero per avere reso una motivazione apparente o incomprensibile, e comunque per non avere applicato i canoni legali di interpretazione, là dove aveva ritenuto che gli artt. 1 e 2 dell’Accordo integrativo aziendale 4 aprile 1986 contenessero una compiuta ed esaustiva disciplina del compenso per il lavoro notturno, senza alcun rinvio alla contrattazione di livello nazionale, peraltro trascurando, in particolare, di considerare: – che nelle premesse di tale Accordo veniva esplicitamente dichiarata la volontà delle parti di attuare una regolamentazione idonea all’armonizzazione della specifica realtà operativa aziendale con le norme del C.C.N.L. del 17 dicembre 1985; – che l’art. 4 dell’Accordo lasciava ferma la disciplina contrattuale di livello nazionale con riguardo, fra altre prestazioni, al lavoro notturno e, pertanto, anche le norme stabilite per la relativa retribuzione dall’art. 25 C.C.N.L. del 17 dicembre 1985;
– che l’art. 6, lungi dal disporre l’applicazione retroattiva dell’Accordo, si limitava a prevedere un importo una tantum per un periodo di vacanza del contratto aziendale, a conferma del fatto che i trattamenti aziendali si aggiungevano a quelli determinati dalla contrattazione collettiva nazionale.
3. Con il terzo motivo le ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 12 delle Disposizioni sulla legge in generale e 1362 ss. cod. civ., nonché motivazione omessa ovvero apparente o incomprensibile, per avere la Corte di appello, ribadendo – con riferimento al periodo successivo alla vigenza del C.C.N.L. 17/12/1985 – le stesse considerazioni già in precedenza svolte in merito alla nozione di onnicomprensività della retribuzione, trascurato di pronunciare sulla questione se la retribuzione per il lavoro notturno (di fatto o normale che dovesse essere) dovesse essere corrisposta per tutte le ore di durata del servizio e se competessero o meno le maggiorazioni previste dall’art. 25 del contratto nazionale di lavoro.
4. Il ricorso è fondato, e deve essere accolto, per le considerazioni che seguono.
5. Come precisato da questa Corte, ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza un’approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 890/2006; conformi: n. 1756/2006; n. 9113/2012).
5.1. E’ stato inoltre precisato, con riguardo alla nozione di motivazione apparente, che è tale la motivazione che, sebbene graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. U n. 22232/2016; conforme n. 13977/2019).
6. Tali principi risultano ampiamente disattesi dalla sentenza impugnata.
6.1. Essa, infatti, nell’esaminare le norme collettive in tema di “retribuzione di fatto” (art. 63 C.C.N.L. 1985; art. 61 C.C.N.L. 1990): (a) non dà conto in alcun modo delle ragioni, per le quali gli istituti indiretti, unicamente perché non oggetto di espressa menzione, non dovessero essere compresi tra gli “elementi retributivi aventi carattere continuativo”, cui le norme fanno riferimento come a componenti della retribuzione di fatto (insieme con le voci che costituiscono la retribuzione “normale”); (b) non chiarisce perché la previsione presentasse tale insufficienza esplicativa da porre la necessità di un richiamo a specifici elementi retributivi e conseguentemente da rendere indispensabile il riscontro della presenza/assenza di una loro esplicita menzione; (c) non si confronta con la seconda parte delle disposizioni in esame, con la quale l’area degli “elementi retributivi aventi carattere continuativo” è definita nella sua ampiezza anche mediante un procedimento di esclusione (“dei rimborsi di spese, dei compensi per lavoro straordinario, delle gratificazioni straordinarie o una tantum, e di ogni elemento espressamente escluso dalle parti dal calcolo di singoli istituti contrattuali ovvero escluso dall’imponibile retributivo a norma di legge”).
6.2. Quanto poi alla norma collettiva, per la quale “la quota oraria della retribuzione, sia normale che di fatto, si ottiene dividendo l’importo mensile per il divisore convenzionale 173” (per il personale la cui durata normale di lavoro è di 40 ore settimanali: art. 65 C.C.N.L. 1985; art. 63 C.C.N.L. 1990), la sentenza impugnata non dimostra, né affatto indica, gli elementi logici che l’hanno condotta a ritenere che essa “non avrebbe senso se l’importo mensile dovesse essere previamente maggiorato di un dodicesimo della 13ma, 14ma e dei restanti premi annuali”.
7. Peraltro risulta già chiarito che il divisore 173 rappresenta un mero “criterio contabile di proporzionamento della retribuzione” (Cass. n. 28937/2018), restando di conseguenza ininfluente ai fini della definizione della base di computo della retribuzione normale o di fatto e rilevando solo quando in relazione a tale retribuzione, mensilmente determinata, debba disporsi della quota oraria quale parametro per il calcolo di altre voci retributive.
8. Il ricorso è fondato anche per ciò che riguarda le ulteriori censure proposte.
8.1. In particolare, la sentenza, nella parte in cui esamina la questione della spettanza del corrispettivo per il lavoro notturno, non applica di fatto, pur dichiarando formalmente di prestarvi adesione, il criterio ermeneutico di cui all’art. 1363 cod. civ., poiché trascura di considerare sia le premesse dell’Accordo integrativo 4 aprile 1986, nelle quali le parti hanno dichiarato di tendere all’armonizzazione della disciplina aziendale con le norme collettive di livello nazionale, sia l’art. 4 dello stesso Accordo, ove è richiamato il dettato degli artt. 23-27 C.C.N.L. 1985; né la sentenza chiarisce – nel quadro complessivo di una motivazione non perspicua, disgiunta da una pur necessaria analisi testuale – le ragioni, per le quali era da ritenere che l’art. 4 dell’Accordo si limitasse a ribadire la disciplina di livello nazionale “quanto al lavoro straordinario notturno” (e cioè a questione estranea alla materia del contendere), a fronte di rinvio comprensivo dell’art. 25 C.C.N.L. 1985 relativo proprio al servizio notturno.
8.2. Ciò premesso, deve confermarsi il principio di diritto, secondo il quale, in tema di interpretazione del contratto e ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va poi verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al rispettivo coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e con riguardo a tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni parte e parola che la compone, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. n. 18180/2007, fra le molte conformi).
9. E’ poi chiaro che la sentenza impugnata, limitandosi a rinnovare – quanto al periodo successivo al C.C.N.L. 1985 – gli stessi rilievi già svolti con riferimento alla retribuzione di fatto e agli istituti indiretti, non ha preso in esame, omettendo ogni accertamento sul punto, le questioni delineate nel terzo motivo di ricorso, che, pertanto, risulta anch’esso meritevole di accoglimento.
10. In conclusione, per tutte le considerazioni che precedono la sentenza n. 1609/2014 della Corte di appello di Bologna deve essere cassata e la causa rinviata, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Firenze, la quale, nell’esaminare nuovamente la fattispecie dedotta, procederà ad una completa ricostruzione delle fonti contrattuali, della loro portata e delle relazioni tra di esse intercorrenti, applicando i principi di diritto richiamati e disponendo, ove ne ricorrano le condizioni, l’attività di istruzione eventualmente ancora necessaria.
P.Q.M.
accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Firenze.
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