CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 giugno 2021, n. 17358

Tributi – Credito IVA ceduto – Fallimento del cedente – Credito compensato dal cedente con debiti erariali propri – Cessionario – Rimborso

Fatti di causa

Dalla esposizione in fatto della pronuncia censurata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso un provvedimento di diniego parziale di rimborso del credito Iva, maturato in capo alla società A.C. s.p.a., in quanto lo stesso, anche se sorto prima della dichiarazione di fallimento della suddetta società, era stato compensato con debiti erariali nel corso del suddetto fallimento; avverso il suddetto provvedimento di diniego parziale aveva proposto ricorso I. s.p.a., società alla quale il credito era stato ceduto dal curatore del fallimento con atto di cessione debitamente notificato all’Agenzia delle entrate e a Equitalia Nord s.p.a.; la Commissione tributaria provinciale di Treviso aveva accolto il ricorso, avendo accertato il difetto di notifica del provvedimento impugnato; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto appello l’Agenzia delle entrate.

La Commissione tributaria regionale del Veneto ha rigettato l’appello, in particolare, ha ritenuto che: il provvedimento di diniego era stato notificato oltre il termine di decadenza di cui all’art. 57, d.P.R. n. 633/1972; il diniego di rimborso era stato, peraltro, notificato dopo che il fallimento era stato chiuso e nei confronti del curatore del fallimento già deceduto al momento della notifica; la notifica del diniego di rimborso effettuato alla cessionaria del credito era stata compiuta a mezzo pec ma era priva della sottoscrizione digitale dell’atto.

Avverso la suddetta pronuncia ha quindi proposto ricorso per la cassazione l’Agenzia delle Entrate affidato a tre motivi di censura, cui ha resistito la società depositando controricorso, illustrato da successiva memoria.

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. E.P., ha depositato le proprie conclusioni scritte in data 6 settembre 2019, con le quali ha chiesto pronunciarsi l’inammissibilità del ricorso.

Questa Corte, con ordinanza dell’1 ottobre 2019, ha disposto il rinvio a nuovo ruolo per la trattazione della causa in pubblica udienza.

I. s.p.a. ha quindi depositato ulteriore memoria.

Ragioni della decisione

Per ragioni di ordine logico sistematico si ritiene di dovere esaminare prioritariamente il secondo e terzo motivo di ricorso.

Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 57, d.P.R. n. 633/1972, per avere ritenuto che nella fattispecie, non essendo in contestazione la sussistenza del credito di imposta, operava la decadenza di cui al suddetto articolo.

Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 56, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, per non avere ritenuto che nella fattispecie, in cui opera una reciprocità di obbligazioni sotto il profilo soggettivo, la cessione del credito Iva alla società controricorrente ha comportato la mancata compensazione dello stesso con crediti dell’Agenzia delle entrate verso la società cedente fallita e la successiva richiesta di rimborso del credito, fatta valere nel presente giudizio da I. s.p.a..

I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla legittimità del diniego di rimborso del credito da parte del fallimento, successivamente ceduto alla controricorrente, sono inammissibili.

Va precisato, in primo luogo, che la questione relativa alla applicabilità della previsione di cui all’art. 57, d.P.R, n. 633/1972, quindi della decadenza dell’amministrazione in caso di diniego di rimborso, prospettato con il secondo motivo di ricorso, è stata IVI definitila da questa Corte (Cass., Sez. U., 15 marzo 2016, n. 5069), che ha enunciato il principio secondo il quale «In tema di rimborso di imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum», principio che, secondo quanto precisato da questa Corte (Cass. civ., 12 ottobre 2018, n. 25464), non contrasta “con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto tale norma garantisce tutela sul piano convenzionale ai soli crediti già accertati; nonché liquidi ed esigibili, ossia a quelli che possano ritenersi parte del patrimonio dell’individuo”.

Si tratta di un principio che, sebbene pronunciato con riferimento alle imposte dirette (specificamente, con riferimento all’IRPEG) e, come tale, ripreso anche dalla giurisprudenza successiva (si vedano, ad es., Cass. civ., 6 febbraio 2019, n. 3404; Cass. civ., 31 gennaio 2018, n. 2392; Cass. civ., 23 giugno 2017, n. 15695) è stato talvolta applicato anche in materia di Iva (Cass. civ., 1 febbraio 2019, n. 3096).

È vero che questa Corte, con ordinanza interlocutoria 30 settembre 2020, n. 20842, ha ritenuto di trasmettere gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione al fine di valutare l’opportunità di rimettere la causa alle Sezioni Unite prospettando la necessità di un intervento chiarificatore della portata estensiva del suddetto orientamento anche ai fini Iva, tenuto conto del fatto che il precedente consolidato orientamento giurisprudenziale aveva, invece, ritenuto che il decorso dei termini di decadenza comportava l’effetto di cristallizzazione o consolidamento del credito.

Tuttavia, va osservato che, con riferimento al caso di specie, la questione sulla quale parte ricorrente basa il vizio di violazione di legge si fonda sulla circostanza che il rimborso era stato negato in quanto, in applicazione dell’art. 56, legge fallimentare, il credito Iva della controricorrente, sorto prima del fallimento, avrebbe dovuto essere compensato con debiti sorti prima del fallimento.

È su questo passaggio di fondo dei motivi di ricorso in esame che gli stessi sono privi di specificità, in quanto in nessun modo è dato ricavare con certezza, dal contenuto degli stessi, quale fosse chiaramente la ragione del diniego del rimborso, in particolare in quale momento temporale era sorto il credito della controricorrente (nonché il credito erariale opposto in compensazione) cioè se prima o durante il fallimento.

La necessità di tale specificazione, invero, attiene proprio alla verifica, in primo luogo, su quali presupposti si era basata la richiesta di rimborso della controricorrente, se il credito della stessa era sorto prima o durante il fallimento, ciò al fine di potere apprezzare se, nella fattispecie, si trattava di un credito non contestato nella sua esistenza ma nei confronti del quale l’amministrazione finanziaria aveva opposto la compensazione di un proprio credito erariale, in modo da valutare la riconducibilità della vicenda nell’ambito della previsione di cui all’art. 56 legge fallimentare e valutare, sotto tale prospettiva, se e in che termini potesse operare la decadenza di cui all’art. 57, d.P.R. n. 633/1972. Il difetto di specificità del motivo, peraltro, si riflette anche in relazione al terzo motivo di ricorso, relativo alla ritenuta violazione dell’art. 56, legge fallimentare.

A tal proposito, va osservato che questa Corte (Cass. civ., 2 luglio 2020, n. 13467) ha affermato il seguente principio di diritto: «Nel caso in cui, in materia di concordato preventivo, l’imprenditore concordante, l’amministrazione o suoi aventi causa chiedano il rimborso di un credito IVA formatosi durante lo svolgimento della procedura concorsuale, l’amministrazione finanziaria può opporre in compensazione crediti che siano sorti successivamente all’apertura della procedura medesima, mentre al contrario – non può opporre in compensazione crediti formatisi in epoca precedente l’apertura della procedura, stante il principio richiamato dalla L. Fall., artt. 56, 169, applicabile anche ai crediti erariali».

Il suddetto principio, evidentemente applicabile anche al caso di instaurazione della procedura fallimentare, trae la sua ragione dal principio comunemente affermato secondo cui in caso di fallimento, come nel concordato preventivo, la compensazione determina, ai sensi dell’art. 56, legge fallimentare, una deroga alla regola del concorso, essendo ammessa la compensazione pure quando i presupposti di liquidità ed esigibilità ex art. 1243 c.c., maturino dopo la data di presentazione della domanda di ammissione al concordato stesso, purché il fatto genetico delle rispettive obbligazioni sia sempre anteriore alla domanda (Cass., Sez. I, 25 novembre 2015, n. 24046). Ciò che rileva, anche riguardo alla materia tributaria, è che il credito invocato dal contribuente (o dal suo avente causa) e il debito opposto in compensazione da parte dell’amministrazione finanziaria siano sorti o entrambi prima della apertura della procedura (Cass. civ., 29 settembre 2016, n. 19335), benché il controcredito possa divenire liquido ed esigibile successivamente, non determinando tale circostanza violazione del principio di neutralità dell’imposta (Cass., Sez. V, 29 maggio 2019, n. 14620) oppure entrambi siano sorti successivamente all’apertura della procedura e, in quanto tali, siano omogene.

È proprio in ordine alla sussistenza della omogeneità dei crediti (quello della controricorrente e quello dell’erario opposto in compensazione) che il terzo motivo di ricorso difetta di specificità, non essendo stato prodotto l’avviso di accertamento né specificato quando i rispettivi crediti erano sorti, non consentendo quindi a questa Corte di apprezzare le ragioni della censura prospettata. Dalle considerazioni espresse in riferimento al secondo e terzo motivo di ricorso deriva l’assorbimento del primo motivo di ricorso con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 156, comma 3, cod. proc. civ., per avere ritenuto la nullità della notifica effettuata dall’ufficio a mezzo Pec attesa la mancata sottoscrizione digitale dell’atto emesso, non avendo, invece, considerato che l’atto aveva raggiunto il suo scopo, in quanto la società I. s.p.a. lo aveva impugnato con ricorso tempestivamente notificato.

È vero che questa Corte ha precisato che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (Cass., Sez. Un., 28 settembre 2018, n. 23620; Cass. civ., 15 maggio 2020, n. 8815), e più in generale, è stato affermato che pure le notifiche a mezzo Pec opera il principio della sanatoria della nullità se l’atto ha raggiunto il suo scopo, ai sensi dell’art. 156, comma terzo, cod. proc. civ. (Cass. Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665; Cass. civ., 31 agosto 2017, n. 20625; Cass. civ., 5 ottobre 2018, n. 24568).

Nella fattispecie, è pacifico che la società contribuente ha ricevuto in data 22 novembre 2013 la notifica a mezzo Pec del diniego di rimborso, contestata sotto il profilo della mancata sottoscrizione digitale dell’atto, e si è attivata prima con istanza di annullamento in autotutela e poi proponendo ricorso con atto notificato il 21 gennaio 2014, sicché può dirsi che la stessa ha, in tal modo, sanato eventuali nullità della notifica a mezzo pec.

Tuttavia, come detto, risulta assorbente, ai fini della decisione, la dichiarazione di inammissibilità del secondo e terzo motivo di ricorso che attengono alla questione della decadenza e fondatezza del diniego di rimborso.

In conclusione, il secondo e terzo motivo sono inammissibili, assorbito il primo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente. Doppio contributo se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente che si liquidano in complessive euro 3.000,00, oltre spese forfettarie nella misura del quindici per cento ed accessori. Doppio contributo, se dovuto.