CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 luglio 2018, n. 18903
Tributi – Accertamento – Riscossione – Stato avanzamento lavori – Ritardi – Contenzioso tributario
Fatti di causa
1. Con avviso di accertamento relativo all’anno 2001 l’Agenzia delle entrate recuperava a tassazione nei confronti della (…) (G.) spa, per quel che ancora qui interessa, ai fini Ires ed Irap costi per € 939.861,17, relativi a transazioni su clausole penali contrattuali per i ritardi nell’avanzamento dei lavori, che non potevano essere dedotti, in quanto la società avrebbe dovuto procedere alla capitalizzazione ed all’ammortamento. Inoltre, l’Agenzia recuperava a tassazione ai fini Iva la somma di € 687.687,00 per il mancato assoggettamento ad Iva di prestazioni di servizio che la società aveva ritenuto non imponibili ai sensi dell’art. 9, comma 1, punto 6 del d.p.r. 633/1972.
2. Avverso tale avviso proponeva ricorso la contribuente dinanzi alla Commissione tributaria provinciale.
3. La Commissione tributaria provinciale accoglieva parzialmente il ricorso dichiarando “dovute le imposte dirette sulla liquidazione dei corrispettivi per la transazione avvenuta” anche se “al netto delle quote di ammortamento rapportate alla durata della concessione”. Riteneva non dovuta l’iva sui servizi aeroportuali.
4. Avverso tale sentenza proponeva appello la società ritenendo pienamente deducibili nel conto economico i costi straordinari a contenuto risarcitorio, derivanti dalle transazioni su clausole penali contrattuali. Non riteneva condivisibile la necessità di capitalizzazione del costo tra i beni materiali dello stato patrimoniale con la conseguente sottoposizione al processo di ammortamento.
5. Avverso la sentenza proponeva appello incidentale l’Agenzia delle Entrate evidenziando l’assoggettabilità ad Iva delle operazioni svolte presso l’aeroporto.
6. La Commissione tributaria regionale della Campania, con sentenza depositata il 4-5-2010, rigettava l’appello principale dichiarando non deducibili i costi per penali, mentre accoglieva l’appello incidentale della Agenzia delle Entrate dichiarando non deducibile l’ammortamento per € 11.317,00, rigettando “nel resto”. In particolare, in motivazione si affermava che le somme pagate per le “penali” alle ditte appaltatrici da parte della società appaltante (G. spa) rientravano in un unico corrispettivo, da corrispondere per l’esecuzione dell’intera opera, anche ai sensi dell’art. 1664 comma 2 c.c.. Pertanto, le somme pagate per penali a seguito di transazioni stipulate, anche se riferite ad eventi eccezionali, non rappresentavano autonomi costi, ma maggiori corrispettivi corrisposti alle ditte appaltatrici per l’esecuzione dei diversi contratti di appalto. Si trattava, quindi, di costi incrementativi dei cespiti, sostenuti per l’ampliamento ed il miglioramento degli elementi strutturali di una immobilizzazione, sicché erano oggetto di capitalizzazione se si traducevano in un aumento significativo e misurabile di capacità o di produttività o di sicurezza o di vita utile. Pertanto, tali costi di ristrutturazione partecipavano alla gestione dell’impresa attraverso l’imputazione al conto economico di quote di ammortamento. Inoltre, si precisava che non poteva procedersi all’ammortamento in quanto la società non aveva provveduto, all’atto della formazione del bilancio, ad effettuare la relativa capitalizzazione.
7. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione la G. spa.
8. Proponeva ricorso incidentale per Cassazione l’Agenzia delle entrate.
9. L’Amministrazione finanziaria non proponeva controricorso.
Ragioni della decisione
1. Anzitutto, si rileva che il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 cod. proc. civ., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi (Cass. Civ., 20 marzo 2015, n. 5695).
Il ricorso presentato dalla società, in quanto notificato prima, va qualificato come ricorso principale, mentre il ricorso della Agenzia delle entrate va indicato come ricorso incidentale.
Inoltre, va dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze che non ha preso parte ai precedenti gradi di giudizio.
1.1. Con il primo motivo di ricorso per cassazione la G. deduce la assenza di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla doglianza della contribuente sulla carenza radicale di motivazione dell’avviso di accertamento per mancata esplicitazione delle ragioni poste a suo fondamento, per violazione dell’art. 360 comma 1, n. 3, c.p.c. e dell’art. 42 del d.p.r. 29-9-1973 n. 600. In particolare, per la ricorrente non è sufficiente il mero rinvio ai rilievi formulati nel processo verbale di constatazione.
1.2.Tale motivo è inammissibile.
Invero, per la Suprema Corte (Cass.Civ., 28 giugno 2017, n. 16147), in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso.
Nella specie, è del tutto omessa la trascrizione del contenuto dell’avviso di accertamento oggetto di impugnazione.
Tra l’altro, in tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributaria, l’art. 7, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’Amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non trova applicazione per gli atti di cui il contribuente abbia già avuto integrale e legale conoscenza per effetto di precedente comunicazione – nel caso trattato dalla Suprema Corte l’avviso di accertamento era stato motivato con riferimento ad un processo verbale di constatazione, precedentemente consegnato in copia previa sottoscrizione – (Cass.Civ., 14 gennaio 2015, n. 407).
2. Con il secondo motivo di impugnazione la G. spa deduce la violazione o falsa applicazione degli articoli 103, relativo ad ammortamento di beni immateriali, 109, recante norme generali sui componenti del reddito d’impresa, e 110 comma 8 del d.p.r. 917 del 1986, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Per la ricorrente, invero, non è corretto il ragionamento della Commissione regionale che ha ritenuto che i costi per risarcimento da clausola penale non devono essere inseriti nel conto economico, ma tra le immobilizzazioni immateriali, con capitalizzazione dei costi e successivo ammortamento nel conto economico. Al contrario, trattandosi di oneri derivanti dalla definizione di transazioni aventi natura risarcitoria il costo è stato correttamente indicato nel conto economico nella voce “oneri diversi di gestione”, sottoconto “penalità diverse”, per € 942.044,47. Non si tratta di un maggiore corrispettivo liquidato alle ditte appaltatrici per l’esecuzione di opere. In effetti, si rileva che non vi è stato accrescimento della dotazione di impianti o di cespiti, e quindi della dotazione patrimoniale dell’azienda, ma solo il risarcimento in via transattiva di danni subiti dalle società appaltatrici in conseguenza dei ritardi, alle stesse non imputabili, verificatisi nella fase di realizzazione dei lavori.
Gli introiti derivanti da transazioni scaturite dalla scelta di estinguere profili di responsabilità imputabili all’imprenditore non possono essere assimilati alla nozione di “compensi aggiuntivi” per le variazioni delle opere realizzate, trattandosi, invece, di costi straordinari ed imprevedibili legati solo in modo casuale all’opera realizzata.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la violazione degli artt. 53 della Cost. e degli artt. 69 del d.p.r. 600/1973 e 163 del d.p.r. 917/1986, in quanto la Commissione regionale non si è limitata a sancire la non deducibilità dei costi nel conto economico dell’esercizio, ma ha anche impedito per il futuro la deducibilità delle quote di ammortamento annue nel conto economico, non avendo la società provveduto alla capitalizzazione dei costo nello stato patrimoniale del bilancio. Si è così violato il divieto della “doppia imposizione” ex art. 163 d.p.r. 917 del 1986. La ricorrente, in concreto, è privata del diritto di detrarre costi regolarmente sostenuti ed attinenti alla gestione imprenditoriale, non solo con riferimento all’annualità in corso, ma anche per il futuro, con impossibilità di detrarre un costo legittimo. Né ciò può costituire “accidentale ma necessitata conseguenza del principio di competenza”. L’Agenzia delle entrate avrebbe, comunque, dovuto procedere d’ufficio alla riliquidazione delle dichiarazioni che generavano la doppia imposizione (cfr. pagina 26 del ricorso per cassazione “chiarisca la Corte se…comporti l’obbligo per lo stesso Ufficio di tener conto della suddetta rettifica anche in relazione agli esercizi successivi…”), stante l’oggettiva impossibilità della ricorrente di procedere, a termini ormai decorsi, a ricostruzioni incidenti si più annualità di imposta.
4.Il secondo ed il terzo motivo di impugnazione, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati.
Invero, è circostanza pacifica che i costi in questione siano sorti a seguito di transazioni relative alla operatività di clausole penali per i ritardi nella esecuzione dei lavori da parte delle società appaltatrice a causa di condotte della appaltante G. spa.
Secondo la Commissione regionale, invece, in tale ipotesi, non si sarebbe in presenza di costi deducibili nel conto economico, ma di corrispettivi versati per l’esecuzione dell’intera opera nel suo complesso. In tal modo tali somme, pagate per penali a seguito di transazioni, anche se riferite ad eventi eccezionali, non rappresentano autonomi costi, ma maggiori corrispettivi versati alle ditte appaltatrici per l’esecuzione dei contratti di appalto. Si tratterebbe di costi incrementativi dei cespiti, che si sono sostenuti, quindi, per l’ampliamento, l’ammodernamento e il miglioramento degli elementi strutturali di una immobilizzazione, con un aumento significativo e misurabile di capacità o di produttività o di sicurezza o di vita utile.
Nel conto economico, quindi, dovrebbero essere ricomprese solo le quote di ammortamento, a seguito di capitalizzazione delle immobilizzazioni immateriali nello stato patrimoniale. Nella specie, peraltro, non avendo provveduto la società a tale capitalizzazione in bilancio, sarebbe impossibile detrarre le quote di ammortamento.
Nell’art. 102 comma 6 del d.p.r. 917 del 1986, infatti, vi è la disciplina delle spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione dei beni materiali strumentali. Si distinguono, quindi, le spese di manutenzione ordinaria, che sono imputate al conto economico, ed incidono, dunque, sul risultato dell’esercizio nel corso del quale sono sostenute, e quelle di manutenzione straordinaria, di ammodernamento o di trasformazione di cespiti. Queste ultime servono, infatti, ad innalzare la produttività ed a prolungarne la vita utile, spiegando effetti positivi anche sugli esercizi successivi a quello in cui sono state sostenute. Tali spese devono, allora, essere capitalizzate, quindi portate ad incremento del costo dei cespiti cui si riferiscono e, poi, ammortizzate unitamente al costo originario.
Tuttavia, a tale soluzione osta il costante orientamento della Suprema Corte sul punto (Cass. Civ., 5 luglio 2017, n. 16561; Cass.Civ., 27 settembre 2011, n. 19702), per cui, in tema di imposte dei redditi, sono deducibili dal reddito d’impresa le penalità contrattuali per ritardata consegna alla clientela, stabilite in base all’art. 1382 c.c., in quanto, per la natura di patto accessorio del contratto, inidoneo ad interrompere il nesso sinallagmatico, non hanno finalità sanzionatone o punitive ma, assolvendo la funzione di rafforzare il vincolo negoziale e predeterminare la misura del risarcimento in caso d’inadempimento, sono inerenti all’attività d’impresa.
In queste decisioni, infatti, era oggetto di discussione la questione in ordine alla sussistenza del requisito di “inerenza” dei costi sostenuti per clausola penali (“penalità per ritardata consegna ai clienti”) con il reddito di impresa, per la natura “sanzionatoria” delle penali. La correlazione tra costo e reddito di impresa è stata esclusa solo però con riferimento al pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente (per le infrazioni stradale cfr. Cass.Civ., n. 7071 del 2000). Ciò perché la condotta illecita “spezza” il nesso di inerenza. La sanzione, quindi, non può costituire un costo deducibile dal reddito, in quanto così ragionando si vanificherebbe la ratio punitiva delle sanzioni pecuniarie, trasformandole in un risparmio di imposta, e quindi in un premio per le imprese che hanno agito in violazione di norme imperative. Diversamente le penalità contrattuali di cui all’art. 1382 c.c., per le ritardate consegne ai clienti, hanno solo la finalità di determinare preventivamente il risarcimento del danno. Trattasi di un patto accessorio del contratto con funzione sia di coercizione all’adempimento, sia di predeterminazione della misura del risarcimento.
La tesi della società, quindi, deve essere condivisa, essendo, appunto, pacifico tra le parti che le transazioni hanno avuto ad oggetto esclusivamente il diritto al risarcimento dei danni derivante da clausole penali per il ritardo nella esecuzione delle opere, senza alcun riferimento alla esecuzione di ulteriori opere rispetto a quelle già previste nel contratto di appalto.
Nel ricorso principale per Cassazione, infatti, si legge che “tali ritardi nei tempi di completamento delle opere, scaturiti da fatti non prevedibili – quali la sopravvenuta richiesta di varianti ai progetti da parte di soggetti istituzionali terzi presenti nel perimetro aeroportuale, l’esigenza di bonifica delle aree da ordigni esplosivi, etc. – sono alla base delle richieste di risarcimento formalizzate, con riserve, dalle ditte”.
La società, dunque, ha indicato correttamente gli importi tra i costi deducibili.
La Commissione tributaria regionale deve, quindi, in sede di giudizio di rinvio, adeguarsi al principio di diritto qui indicato.
5. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la illegittimità della sentenza impugnata per mancata rilevazione della non irrogabilità delle sanzioni con violazione, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., dell’art. 6, commi 1 e 2, del d.lgs. 18-12-1997 n. 472/1997. In particolare si chiede di accertare la sussistenza delle cause di non punibilità per l’applicazione delle sanzioni in presenza di obiettive ragioni di incertezza, determinate anche da pronunce contrastanti delle Commissioni tributarie.
5.1. Tale motivo deve ritenersi assorbito, in ragione dell’accoglimento dei motivi secondo e terzo, con conseguente nuova valutazione dei fatti da parte del giudice del rinvio.
6. Con ricorso incidentale l’Agenzia delle Entrate censura la sentenza della Commissione regionale per omessa motivazione ai sensi dell’art. 36 comma 2 n. 4 del d.lgs. 546/1992, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.
In particolare, con l’appello incidentale l’Agenzia delle entrate ha impugnato la decisione della Commissione provinciale che aveva ritenuto non dovuta riva sui servizi aeroportuali. La Commissione regionale si è limitata a statuire “rigetta nel resto” senza alcuna motivazione.
6.1. Tale motivo è fondato.
6.2. Inoltre si evidenzia che il motivo, contrariamente a quanto dedotto dalla società nel controricorso, è ammissibile, anche con riferimento al richiamo dell’ipotesi di cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c..
Invero, per la Suprema Corte, in tema di ricorso per cassazione, è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4, e non con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziale, ovvero del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (Cass.Civ., 18 giugno 2014, n. 13866).
Ben diversa è l’ipotesi in cui la motivazione di un punto della decisione sia completamente assente, come è avvenuto nella specie, in cui nel dispositivo si legge “rigetta nel resto”, ma nella motivazione non v’è alcuna motivazione sulla questione.
In tal caso per la Suprema Corte, è integrata l’ipotesi di assoluta carenza di motivazione, quando appunto la sentenza, in violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e 118, primo comma, disp att. cod. proc. civ., manca delle argomentazioni atte a palesare le ragioni della decisione, perché una siffatta carenza, incidendo sul modello della sentenza descritto da tali disposizioni – costituenti attuazione del principio costituzionale (art. 111 Cost) secondo il quale tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati -, ne determina la nullità, prevista come motivo di ricorso per cassazione dall’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. (Cass.Civ., 2 luglio 2004, n. 12114).
Nella specie, come dedotto dalla Agenzia, ricorrente incidentale, manca qualsiasi motivazione in ordine al motivo di impugnazione proposto con l’appello incidentale dall’Agenzia, ove si chiedeva di riformare la sentenza della Commissione provinciale che aveva escluso il pagamento dell’Iva per le operazioni all’interno degli aeroporti.
Né è possibile, come richiesto dalla G. nel controricorso pronunciare nel merito, in quanto la questione involge accertamenti in fatto, che vanno demandati al giudice di merito, in sede di rinvio.
7. La decisione va cassata con rinvio alla Commissione regionale della Campania in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi al principio di diritto enunciato in motivazione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso nei confronti della Amministrazione dell’Economia e delle Finanze dello Stato.
In accoglimento del secondo e del terzo motivo del ricorso principale, rigettato il primo ed assorbito il quarto, e in accoglimento del ricorso incidentale della Agenzia delle entrate, cassa la sentenza, con rinvio alla Commissione regionale della Campania in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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