CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 luglio 2018, n. 19012
Rapporto di lavoro – Assunzione – Requisiti debitamente documentati – Certificato penale – Valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore – Limiti
Fatti di causa
1.1. Con ricorso al Tribunale di Roma, S.B. chiedeva la condanna di P.I. ad immetterla in servizio con le mansioni di addetta al recapito junior e ad orario parziale verticale.
La B., già inserita nella graduatoria unica nazionale dei lavoratori precedentemente assunti con contratto a tempo determinato da P.I. S.p.A., previa rinuncia della medesima ad ogni diritto, credito e pretesa derivante dai suoi pregressi rapporti di lavoro, ciò sulla base dell’adesione della lavoratrice all’accordo sottoscritto tra la società e le oo.ss. in data 13 gennaio 2006, quindi convocata per la scelta della sede, non era stata assunta in servizio per essere risultato dalla certificazione della competente Procura un carico pendente.
1.2. Il Tribunale accoglieva il ricorso ritenendo illegittimo il rifiuto di procedere all’assunzione.
1.3. La decisione veniva confermata dalla Corte d’appello di Roma.
I giudici del gravame ritenevano che la disposizione di cui all’art. 19 del c.c.n.I. prevedesse tra i documenti da presentare per l’assunzione solo il certificato penale di data non anteriore a tre mesi non anche quello dei carichi pendenti e che l’estensione della richiesta della società (che aveva poi determinato il diniego di assunzione) non potesse essere giustificata da alcun interesse dell’azienda a conoscere la storia personale della persona che si accingeva ad assumere stante, peraltro, la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 della Cost.
2. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, P.I. propone ricorso per cassazione fondato su due motivi.
3. S.B. resiste con controricorso illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ. e dell’art. 19 del c.c.n.I. per il personale non dirigente di P.I. dell’11/7/2007. Sostiene che l’espressione ‘certificato penale’ di cui al co. 5 debba essere intesa in senso ampio, comprensiva anche del certificato dei carichi pendenti perché la ratio della norma è quella di garantire il datore di lavoro nella fase dell’assunzione e rileva che la certificazione negativa dei carichi pendenti è un documento dal quale la società, per l’importanza dell’attività che svolge, non può prescindere.
1.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 421 cod. proc. civ.. Sostiene che la Corte territoriale abbia erroneamente respinto la richiesta di detrazione dell’aliunde perceptum ritenendola meramente esplorativa e non abbia utilizzato, come avrebbe dovuto, i poteri d’ufficio.
2. Il primo motivo è infondato.
Innanzitutto non è invocabile a sostegno delle ragioni della società il precedente di questa n. 12086 del 16 maggio 2017.
Nel caso esaminato in tale decisione l’obbligo di produrre anche il certificato di carichi pendenti si è fatto derivare (non dalla clausola contrattuale ma) da un <format di dichiarazione individuale posizione lavorativa di interesse recapito full time>, sottoscritto dal lavoratore con il quale quest’ultimo si era impegnato a produrre anche tale certificazione.
Dell’esistenza di un format quale quello sopra indicato non vi è traccia nel presente giudizio nel quale si discute solo della legittimità della richiesta aziendale di estendere i documenti previsti dall’art. 19 del c.c.n.I. fino a ricomprendere tra questi anche il certificato dei carichi pendenti.
Ciò precisato, i rilievi della ricorrente non solo tali da scalfire l’interpretazione dell’art. 19 del c.c.n.I. come offerta dalla Corte territoriale.
Ed infatti appare corretta la rilevanza attribuita innanzitutto al dato letterale secondo il quale tra i documenti da presentare ai fini dell’assunzione vi è il solo ‘certificato penale di data non anteriore a tre mesi’.
La disposizione predetta è assolutamente chiara nella sua formulazione e già solo questa circostanza esclude la necessità del ricorso al meccanismo dell’interpretazione integrativa integrando già un limite logico ad una interpretazione estensiva.
Né è possibile attribuire all’espressione ‘certificato penale’ (che evoca il certificato di cui agli artt. 23 e 25 del T.U. sul casellario giudiziale di cui al d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313) un significato semantico suscettibile di plurime interpretazioni.
In ogni caso si tratta di una disposizione che, condizionando (sospensivamente) l’assunzione alla presenza di determinati requisiti debitamente documentati, non può formare oggetto di interpretazione estensiva perché ciò si risolverebbe nell’introduzione di un limite ulteriore rispetto a quello che le parti contraenti hanno inteso prevedere.
Ed infatti la richiesta del certificato penale integra un limite rispetto alla previsione di cui all’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori (‘è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi […] su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore’) che si giustifica con la rilevanza ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore della conoscenza di date informazioni relative all’esistenza di condanne penali passate in giudicato.
Tale limite, in assenza di espressa previsione contrattuale, non può essere dilatato per via interpretativa fino a ricomprendere informazioni relative a procedimenti penali in corso (oggetto del certificato previsto dall’art. 27 del T.U. sopra citato), ciò specie in considerazione del principio costituzionale della presunzione d’innocenza.
Peraltro, nella specie, la Corte territoriale, non si è limitata al dato letterale, ma ha correttamente escluso la possibilità di ricomprendere tra i documenti da presentare ai fini dell’assunzione anche il certificato dei carichi pendenti evidenziando che il solo status di imputato (e cioè di soggetto che si sia venuto a trovare ad avere un procedimento penale pendente a suo carico) non è previsto nel medesimo c.c.n.I. quale motivo di giusta causa di licenziamento il che renderebbe incongrua una previsione che, invece, interpretata nel senso prospettato dalla società, attribuisca rilevanza a tale status al momento dell’assunzione.
2.2. Anche il secondo motivo è infondato.
Come da questa Corte già affermato (v. Cass. 31 gennaio 2017, n. 2499), in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative.
Inoltre, nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori (v. Cass. 12 marzo 2009, n. 6023; Cass. 23 ottobre 2014, n. 22534); in ogni caso, gli indicati poteri d’ufficio non possono essere dilatati fino a richiedere che il giudice supplisca in ogni caso alle carenze allegatorie e probatorie delle parti, in assenza di una pista probatoria rilevabile dal materiale processuale acquisito agli atti di causa (v. ex multis Cass. 6 luglio 2000, n. 9034; Cass. 9 marzo 2001, n. 3516; Cass. 8 agosto 2002, n. 12002; Cass. 21 maggio 2009, n. 11847);
3. Conclusivamente il ricorso va rigettato.
4. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
5. Va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese dello sposo del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15% da corrispondersi all’avv. G. P.M., antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
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