CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 maggio 2019, n. 13423
Gestione commercianti INPS – Attività di collaboratore con carattere di abitualità e prevalenza – Prova – Costituzione della rendita vitalizia a copertura dei periodi di omessa contribuzione
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Ancona, con sentenza n. 516/2014, ha rigettato l’appello proposto nei confronti dell’INPS da G. F. avverso la sentenza del Tribunale in funzione di Giudice del lavoro di Macerata che aveva rigettato la domanda dello stesso F. volta ad ottenere la costituzione della rendita vitalizia a copertura dei periodi di omessa contribuzione prescritta presso la gestione commercianti dell’INPS e relativa all’attività di collaboratore, con carattere di abitualità e prevalenza, dell’azienda commerciale B. R. M. il cui titolare era il padre, regolarmente iscritto a quella gestione.
2. Ad avviso della Corte territoriale, doveva condividersi l’assunto del Tribunale che aveva ritenuto insussistente la prova idonea dello svolgimento del rapporto di collaborazione, pur tenendo conto della pronuncia della Corte Costituzionale n. 18 del 1995 che aveva ritenuto doverosa l’interpretazione che estende anche ai lavoratori autonomi l’applicabilità dell’art. 13 I. n. 1338 del 1962.
3. Avverso tale pronuncia, G. F. ricorre per cassazione con articolati motivi illustrati da memoria.
4. L’Inps resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con due motivi indicati in rubrica come insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione a fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360, primo comma n. 5, Cod. Proc. Civ.) e violazione e o falsa applicazione dell’art. 13 della legge n. 1338 del 1962, come da sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 18 del 1995, dell’art. 2 I. n. 613 del 1966 e dell’art. 2697 cod. civ. (art. 360, primo comma n.3, cod. proc. civ.) il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia del tutto ignorato o frainteso il reale oggetto del giudizio che non era quello tendente ad accertare che l’attività svolta dal padre e dal ricorrente avesse realizzato un’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis cod. proc. civ.; si trattava, invece, di accertare che G. F. aveva reso attività di coadiutore del padre nell’esercizio dell’attività commerciale di cui quest’ultimo era titolare, senza che fosse versata la prevista contribuzione ormai prescritta ed al fine di ottenere la costituzione della rendita di cui all’art. 13 I. n. 1338 del 1962.
2. Le lamentate violazioni di legge sono illustrate dal ricorrente in relazione al contenuto della sentenza della Corte Costituzionale n. 18 del 1995 che aveva inteso equiparare, per le finalità degli obblighi assicurativi, il componente del nucleo familiare al lavoratore subordinato ed il titolare dell’azienda al datore di lavoro, definito appunto debitore di sicurezza sociale. Nel caso di specie, trattandosi di impresa commerciale, la Corte d’appello avrebbe dovuto confermare che il F. aveva reso attività di collaborazione ai sensi dell’art. 2 I. n. 613 del 1966 presso l’azienda paterna, tra il 1967 ed il 1974, in modo prevalente rispetto alla frequenza del corso di studi presso l’I. M. di Camerino.
3. Il ricorrente, dunque, ritiene violato l’art. 2697 cod. civ. in ragione della errata valutazione degli esiti delle prove testimoniali rese all’udienza del 12 giugno 2012.
4. I motivi, evidentemente connessi, sono infondati.
5. Il quarto comma dell’art. 13 della legge 12 agosto 1962 n. 1338 stabilisce che, ai fini della costituzione di una rendita vitalizia pari alla pensione o alla quota di pensione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi, il datore di lavoro è tenuto a produrre all’INPS “documenti di data certa” dai quali possano evincersi l’effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro nonché la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore interessato. Il successivo quinto comma autorizza lo stesso lavoratore, quando non possa farlo il datore di lavoro, a costituire la riserva matematica provando l’esistenza e la durata del rapporto e l’ammontare della retribuzione.
6. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, nella parte in cui non prevede che la rendita vitalizia reversibile possa essere costituita anche in favore dei familiari coadiuvanti di imprese artigiane, è stata dichiarata non fondata dalla Corte costituzionale sin dal 1995, con sentenza n. 18 del 12-19 gennaio 1995.
7. La Corte Costituzionale ha ritenuto che la norma impugnata è idonea a realizzare, anche nei confronti dei familiari coadiuvanti del titolare di impresa artigiana la possibilità di un trattamento sostitutivo di quello propriamente previdenziale, vanificato da omissioni contributive “irrimediabilmente consumate” per intervenuta prescrizione.
8. Il predetto principio è stato ribadito dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 21/2001 e questa Corte di cassazione ha più volte riconosciuto il diritto alla costituzione della rendita vitalizia a favore dei collaboratori delle imprese familiari in virtù di un’interpretazione estensiva della norma in questione (cfr. Cass. n. 8112 e n. 8250 del 1999; n. 14393 del 2000; n. 8089 del 2001; n. 4832 del 2002), affermando la necessità di conformarsi all’interpretazione indicata dalla citata sentenza n. 18 del 1995 della Corte costituzionale, in quanto unica interpretazione dell’art. 13 della legge n. 1338 del 1962 conforme a Costituzione, posto che estendendone l’applicazione a favore dei lavoratori autonomi, il giudice delle leggi, pur non operando una indiscriminata estensione ai detti lavoratori della disciplina dei lavoratori dipendenti, ha individuato nel citato art. 13 quei connotati di generalità e astrattezza tali da consentirne l’applicazione a tutte le categorie di lavoratori non abilitati al versamento diretto dei contributi, ma sottoposti a tal fine alle determinazioni di altri soggetti.
9. L’applicazione dell’art. 13 della legge n. 1338/1962 anche a favore dei familiari coadiutori e coadiuvanti degli imprenditori artigiani e commerciali comporta, naturalmente l’estensione ai predetti soggetti del regime probatorio previsto per i lavoratori dipendenti. Da ciò consegue che l’accoglimento delle domande di costituzione di rendita vitalizia è subordinato alla presentazione di documenti di data certa dai quali possa evincersi l’esistenza dei rapporti di lavoro.
10. Infatti, come sopra rilevato, i commi 4 e 5 dell’art. 13 cit., prevedono che: «Il datore di lavoro è ammesso ad esercitare la facoltà concessagli dal presente articolo su esibizione all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale di documenti di data certa, dai quali possono evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore interessato.». «Il lavoratore, quando non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita a norma del presente articolo, può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro, salvo il diritto al risarcimento del danno, a condizione che fornisca all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione indicate nel comma precedente.».
11. Con sentenza del 13-22 dicembre 1989, n. 568, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, quarto e quinto comma, nella parte in cui, salva la necessità della prova scritta sulla esistenza del rapporto di lavoro da fornirsi dal lavoratore, non consente di provare altrimenti la durata del rapporto e l’ammontare della retribuzione.
12. La Corte costituzionale ha affermato che, con la norma in esame, il legislatore ha voluto attribuire un trattamento di favore ai lavoratori i quali, per effetto del mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro e della impossibilita del loro tardivo pagamento per intervenuta prescrizione, siano stati privati della pensione, prevedendo la possibilità di costituzione, in luogo della stessa, di una rendita vitalizia reversibile.
13. Nel medesimo tempo, il legislatore ha voluto impedire che si creassero posizioni assicurative fittizie: di qui la diffidenza per l’ammissibilità di qualunque mezzo di prova. Il necessario contemperamento degli interessi in gioco, e cioè quello del lavoratore al riconoscimento del diritto e quello dell’I.N.P.S. di limitarlo ai casi di esistenza certa e non fittizia del rapporto di lavoro, onde evitare le possibili frodi in danno dello Stato, impone di ritenere che almeno l’esistenza del rapporto di lavoro non debba apparire solo verosimile ma risultare certa, onde la necessità dell’ammissione della sola prova documentale.
14. Il Giudice delle leggi ha tuttavia precisato che, secondo logica e ragionevolezza, deve escludersi che il legislatore abbia voluto rendere la relativa prova talmente difficoltosa da vanificare detto riconoscimento o quanto meno da farlo diventare inattuabile, sì da porsi in contrasto con l’art. 24 della Costituzione, oltre che con l’art. 38, risolvendosi la difficoltà di prova nell’impossibilità del soggetto di godere della tutela previdenziale.
15. Tali principi sono stati ripresi dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass. Sez. Un. 18/1/2005, n. 840), le quali, in una fattispecie in cui erano state prospettate due fasi distinte di attività (la prima formalmente qualificata come occasionale e autonoma, e la seconda “regolarizzata” come lavoro subordinato) ha ritenuto che la dimostrazione dell’effettiva esistenza di un unico rapporto di lavoro subordinato fin da prima della formale costituzione del rapporto di lavoro dovesse essere necessariamente fornita con la prova documentale richiesta dall’art. 13 della legge n. 1332/1968, non essendo sufficiente, per il periodo antecedente, la prova scritta di un qualsiasi rapporto negoziale tra le parti (cfr. Cass. 2/3/2001 n. 3085, 5/11/2003 n. 3085).
16. Le affermazioni delle Sezioni unite sono state poi ribadite in altre sentenze delle sezioni semplici (Cass. 19/05/2005, n. 10577; Cass. 3/02/2009, n.2600, richiamata in sentenza; Cass. 20/01/2016, n. 983; Cass., ord. 22/12/2016, n. 26666), in cui si è puntualizzata la regola secondo la quale la durata del rapporto di lavoro può essere provata con ogni mezzo ma deve essere circoscritta al caso in cui il documento comprovi l’avvenuta costituzione di un rapporto a partire dalla medesima epoca, a decorrere dalla quale è consentita la prova, con ogni mezzo, della relativa durata e della retribuzione; nel contempo si è precisato che deve escludersi che la prova testimoniale “alternativa” di cui è onerato il datore di lavoro (o il lavoratore, nell’ipotesi di cui all’art. 1, quinto comma, della citata legge n. 1338), possa investire anche i fatti da cui desumere la qualificazione del rapporto e l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, in contrasto con la regola della prova scritta dell’esistenza del rapporto di lavoro (Cass., n. 2600/2009, Cass. n. 983/2016, citt.).
17. La giurisprudenza ha dunque circoscritto chiaramente il perimetro entro il quale opera il rigore formale della prova scritta, la quale deve involgere non solo l’esistenza di un rapporto di lavoro ma anche la sua qualificazione in termini di subordinazione (o nel caso di specie di attività resa quale coadiutore del familiare commerciante), lasciando invece aperto il campo alla prova testimoniale, e quindi anche a quella presuntiva, in ordine alla sua durata e alla retribuzione.
18. Orbene, tenuto conto di tali specifici precedenti, è evidente la correttezza della decisione impugnata che dopo aver richiamato il principi appena esposti quanto al regime probatorio che caratterizza la fattispecie, ha escluso che fosse stata fornita prova dell’espletamento di attività qualificabile come prestazione resa all’interno dell’impresa del familiare con i prescritti caratteri di continuità e prevalenza rispetto all’attività di formazione scolastica resa dal F. all’epoca oggetto di causa. Non era stato dedotto neanche l’effettivo contenuto dell’affermato apporto lavorativo reso dal ricorrente e degli altri partecipanti, né la consistenza dell’impresa familiare e la sua articolazione. Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha ritenuto che le fotografie che ritraevano il ricorrente in abito da cameriere o i menu asseritamente scritti di pugno dal medesimo erano del tutto inidonei ad integrare la prova scritta richiesta dalla legge.
19. I motivi di ricorso che censurano le valutazioni di tali acquisizioni istruttorie si sostanziano in una critica della valutazione effettuata dalla Corte territoriale circa la inidoneità degli elementi probatori acquisiti a ricondurre il rapporto in esame all’area della collaborazione al familiare commerciante e nella contrapposizione di un diverso convincimento, valorizzando circostanze che invece la Corte ha ritenuto scarsamente significative. Si tratta di censure che involgono direttamente gli accertamenti fattuali condotti dal giudice del merito, il quale ha invece espresso una motivazione adeguata e sufficiente,nonché priva di errori logici.
20. Non può dunque condividersi la tesi centrale dei motivi di ricorso secondo cui la prova della prestazione del coadiutore possa essere desunta anche in forza di un ragionamento presuntivo e ciò perché, quando per legge o per volontà delle parti sia prevista, per un certo atto o contratto, la forma scritta, sia essa ad substantiam o ad probationem, tanto la prova testimoniale quanto quella per presunzioni che abbiano ad oggetto, implicitamente o esplicitamente, l’esistenza dell’atto o del contratto sono inammissibili, salvo che la detta prova non sia volta a dimostrare la perdita incolpevole del documento (Cass. 16/3/2015, n. 5165; Cass. 14/8/2014, n. 17986).
21. Il secondo comma dell’art. 2729 cod. civ., esclude l’ammissibilità delle presunzioni «nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni», con la conseguenza che diventa difficilmente sostenibile che, pur in assenza di una prova scritta da cui desumere la subordinazione, la stessa possa essere provata attraverso presunzioni.
22. In base alle svolte argomentazioni il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità.
23. Sussistono, dato l’esito del ricorso, i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2500,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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