CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 marzo 2020, n. 7324
Tributi – IVA – Credito – Operazioni di appalto – Istanza di rimborso – Diniego parziale – Impugnazione – Onere di prova dei fatti costitutivi della propria pretesa creditoria
Fatti di causa
1. La contribuente ricorre, con due motivi, per la cassazione della sentenza (indicata in epigrafe) di rigetto dell’appello dalla stessa proposto avverso la sentenza n. 58/34/2010 della CTP di Napoli.
Quest’ultima, a sua volta, aveva accolto solo in parte l’impugnazione del provvedimento di rigetto di richiesta di rimborso IVA 2004 (senza autorizzazione alla detrazione del credito), riconoscendo il diritto «alla detrazione» solo nei limiti del minore importo di euro 28.148,17 (in luogo di euro 144.361, 00).
2. Dagli atti di parte nonché dalla sentenza impugnata emerge quanto segue circa i fatti di causa.
2.1. La contribuente, appaltatrice dei lavori della metropolitana di Napoli, presentò (con modello VR/2005) istanza di rimborso IVA in relazione al periodo d’imposta 2004, ex art. 30, comma 3, lett. a) del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per un importo pari ad euro 144.361,00.
L’Agenzia delle Entrate («A.E.») invitò la contribuente a produrre documentazione giustificativa del credito (in particolare cinque fatture tipo, ricevute ed emesse), e, ottenuta la stessa, negò il rimborso richiesto (senza autorizzazione alla detrazione del credito).
L’Amministrazione ritenne in particolare insussistenti i presupposti di cui al citato art. 30, comma 3, lett. a), per aver la contribuente applicato «in tutte le operazioni di subappalto … l’aliquota ordinaria del 20% anziché l’aliquota agevolata, spettante per l’appalto principale» (e, quindi, applicabile anche con riferimento alle fatture emesse dalla contribuente – subappaltante – alle subappaltatrici).
3. Il provvedimento fu impugnato innanzi al Giudice tributario e la CTP riconobbe il diritto alla «detrazione dell’IVA» nei limiti del minore importo di euro 28.148,17 (in luogo di euro 144.361,00).
Il Giudice tributario, in particolare, ritenne corretta l’applicazione da parte della contribuente dell’IVA con aliquota ordinaria (del 20%) con riferimento alle spese per acquisti di beni (da soggetti terzi rispetto al consorzio contribuente) nonché per noleggio di attrezzature e prestazione di personale (da parte di società consorziate), in quanto non oggetto di contratti di subappalto, oltre che l’applicazione dell’IVA con aliquota ridotta (del 10%) con riferimento alle fatture relative ai S.A.L. emesse dal contribuente in favore delle consorziate ed in forza di subappalto.
La CTP, però, riconobbe il «diritto del» contribuente «alla detrazione dell’IVA nell’intera misura del 20% … limitatamente alle tre fatture prodotte in giudizio» (per un importo pari ad euro 28.148,17). Ciò in ragione dell’«incompletezza della documentazione», dalla quale, per il Giudice di merito, non emerse il preteso diritto a portare in detrazione l’importo di € 144.361,00, non essendo stato fornito in giudizio «il completo e necessario supporto probatorio (fatture con descrizione delle prestazioni) da esaminare e valutare ai fini della decisione».
4. Appellata dalla sola contribuente, la statuizione di primo grado fu condivisa dalla CTR (con la sentenza oggetto di attuale ricorso per cassazione) anche con riferimento al riconoscimento solo in parte della pretesa della contribuente, in ragione del mancato assolvimento dell’onere probatorio e della insussistenza, nel campo IVA di una «rideterminazione induttiva».
5. Contro la sentenza d’appello la contribuente propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi e sostenuto da memoria, e l’A.E. si difende con controricorso (instando per il rigetto delle doglianze).
In sede di discussione le parti concludono come riportato in epigrafe.
Ragioni della decisione
1. Il ricorso non merita accoglimento.
2. I due motivi di ricorso sono suscettibili di trattazione congiunta, in ragione della connessione delle questioni inerenti i relativi oggetti.
2.1. Con il motivo n. 1, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nonostante la tecnica redazionale utilizzata tanto nella rubrica quanto nella sua articolazione, sostanzialmente si deduce la nullità della sentenza per violazione del giudicato interno con riferimento alla statuizione di primo grado circa l’applicazione, nella specie, dell’IVA con aliquota ordinaria (del 20%) in merito alle forniture eseguite da soggetti terzi.
Con il motivo n. 2, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (ratione temporis applicabile nella sua formulazione antecedente alla sostituzione operata dall’art. 54, comma 1, lett. b, del d.l. n. 83 del 2012), si deduce l’insufficienza motivazionale della sentenza impugnata in merito a fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostanzialmente ritenendosi la contribuente non tenuta a provare l’esatto diritto al rimborso da lei richiesto in quanto «discrezionalmente determinato», da se stessa, «in sede di compilazione della dichiarazione dei redditi unificata UNICO/2005 (relativo all’anno d’imposta 2004) nei limiti del più ampio credito IVA derivante dalla liquidazione annuale 2004 (C 151.141,00) …».
2.2. I due motivi sono infondati, oltre che inammissibili per talune regioni.
Dalla lettura della sentenza impugnata non emerge alcuna violazione del giudicato interno circa l’applicabilità, nella specie, dell’IVA con aliquota ordinaria (del 20%) in merito alle forniture da soggetti terzi (motivo n. 1). Per converso, dal tenore della statuizione impugnata emerge la totale adesione alla sentenza di primo grado, impugnata dal solo contribuente, il quale, peraltro, in questa sede (inammissibilmente) non evidenzia il nesso causale tra l’asserita violazione del giudicato interno e l’asserita nullità della sentenza, visto che con essa la Commissione regionale non ha statuito in termini difformi da quelli della CTP.
Parimenti infondata è la pretesa insufficienza motivazionale, dedotta con il motivo n. 2.
La CTR, al pari della CTP, ha difatti motivato il perché del limitato riconoscimento del diritto della contribuente nei termini di soli euro 28.148,17, in forza dell’assenza di prova invece incombente in capo alla contribuente.
Nello statuire nei detti termini, peraltro, il Giudice d’appello ha fatto corretta applicazione di quanto già statuito da questa Corte, con orientamento dal quale non vi sono motivi per discostarsi. Nel processo tributario, difatti, il contribuente, ove impugni il provvedimento di diniego dell’istanza di rimborso, è tenuto alla dimostrazione dei fatti costitutivi della propria pretesa creditoria (ex plurimis: Cass. sez. 5, 23/01/2019, n. 1822, Rv. 652366-01; Cass. sez. 5, 18/05/2018, n. 12291, Rv. 648374-01; Cass. sez. 5, 07/07/2014, n. 15026, Rv. 631523-01; Cass. sez. 5, 01/1072014, 20693; Cass. sez. 5, 18/04/2014, n. 8998, Rv. 630299-01).
Il motivo in esame è peraltro inammissibile nella parte in cui prospetta in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. un (preteso) un vizio di ultrapetizione, invece sindacabile ex n. 4 della detta norma e quale vizio di nullità della sentenza, sostenendo che la CTR si sarebbe dovuta limitare a statuire in merito alla sussistenza dei presupposti per la richiesta di rimborso (di cui all’art. 30, comma 3, lett. a, del d.P.R. n. 633 del 1972). Peraltro, la sentenza della CTR, in merito, è in linea con la sentenza di primo grado, appellata (non per vizio di ultrapetizione) anche sul punto inerente la mancata prova del diritto alla detrazione (se non nei limiti di euro 28.148,17), così determinandosi il thema decidendum in secondo grado.
Quanto innanzi esplicitato circa il fondamento della statuizione impugnata (l’assenza di prova da parte del contribuente) oltre che i rilevati diversi profili di inammissibilità rende prive di pregio le argomentazioni di cui alla memoria depositata dal ricorrente ex art. 378 c.p.c. Esse, comunque, prospettano per la prima volta in sede di legittimità, peraltro con memoria e, quindi inammissibilmente, un profilo di (pretesa) «illegittimità parziale» (sopravvenuta) del provvedimento di diniego di rimborso IVA, nella parte in cui nega l’autorizzazione alla detrazione. Tale doglianza, mossa all’atto impositivo nel presente giudizio di legittimità ed in assenza di profili di illegittimità prospettati in sede di merito, si fonda comunque sulle «modifiche introdotte all’art. 6, comma 6, secondo periodo, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471,» in tema peraltro di sanzioni amministrative, «dall’art. 1, comma 935 della I. 27 dicembre 2017, n. 205, come modificato dall’art. 6, comma 3 bis, d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (conv., con modif., dalla l. 28 giugno 2019, n. 58)».
3. In conclusione, il ricorso non merita accoglimento ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, che si liquidano, in applicazione dei parametri applicabili ratione temporis, in complessivi euro 7.300,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del comma 1 quater dell’art. 13, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (aggiunto dall’art. 1, comma 17, della I. 24 dicembre 2012, n. 228), deve darsi atto dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto (ex art. 18 della medesima l. n. 228 in quanto procedimento civile di impugnazione iniziato dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della citata l. n. 228 del 2012, cioè a decorrere dal 31 gennaio 2013), cresta o sa ve future modifiche per il caso di ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato (attualmente all’esame delle Sezioni Unite Civili).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, che si liquidano in euro 7.300,00, oltre alle spese prenotate a debito, dando atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norme dal comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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