CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 aprile 2019, n. 10857
Rapporto di lavoro – Socia accomandataria sas – Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
Fatti di causa
1. Con sentenza pubblicata il 10 aprile 2017 la Corte di Appello di Napoli ha respinto l’appello proposto da B. Srl nonché da F.N., in proprio e nella qualità di ex socia accomandataria della B. sas di N.F., nei confronti di A.A.
La Corte ha così confermato la sentenza di primo grado che, dichiarata la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato per il periodo dal 3 settembre 2001 al 3 marzo 2004, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato alla ricorrente e condannato la B. Srl al risarcimento del danno subito dalla lavoratrice pari alle retribuzioni maturate dal recesso sino al giorno della rinuncia alla reintegra; ha inoltre condannato B. sas di F.N., B. srl e F.N., in solido tra loro, al pagamento della complessiva somma di euro 16.839,45 a titolo si spettanze retributive, oltre accessori.
2. Preliminarmente la Corte ha disatteso l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado formulata sull’assunto che sarebbe stata emessa nei confronti della B. sas di N.F. estinta nel 2004, ritenendo invece che non risultava provato in giudizio “che la società sia stata sciolta il 21.6.2004 o ancora che si sia estinta”.
Quanto alla responsabilità personale della F. la Corte napoletana ha ritenuto che la stessa fosse stata corroborata dall’istruttoria espletata.
Infine ha respinto il motivo di appello con cui si sosteneva che, essendo stato negato in radice in primo grado l’esistenza di una subordinazione, le parti convenute non avevano l’onere di provare il requisito dimensionale dell’azienda e che comunque il datore di lavoro potesse provare le dimensioni dell’impresa “avvalendosi dell’eccezione dell’indispensabilità prevista dal terzo comma dell’art. 345 c.p.c.”; secondo la Corte territoriale nella specie non ricorrevano i presupposti dell’indispensabilità e, comunque, nella fattispecie “l’allegazione del libro matricola e il giuramento decisorio” risultavano “del tutto irrilevanti” in quanto il requisito dimensionale dell’azienda, se rilevava ai fini dell’applicabilità o meno dell’art. 18 Sdl, non aveva “alcuna incidenza sulle conseguenze di un licenziamento intimato senza forma scritta”, trovando applicazione l’ordinario regime risarcitorio.
3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso le parti soccombenti in epigrafe con 3 motivi, ai quali ha resistito A.A. con controricorso.
Le ricorrenti hanno comunicato memoria ex art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2495 c.c. con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c. – error in procedendo con conseguente nullità della sentenza denunciata relativamente alla pronuncia di condanna nei confronti della società B. s.a.s. di N.F. e per essa nei confronti di quest’ultima – violazione a falsa applicazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. – vizio di ultra petizione per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. ex art. 360 n. 3 c.p.c.”.
Si eccepisce che “la sentenza denunciata ha statuito una sorta di sopravvivenza della società estinta, facendola derivare dal fatto che sarebbe risultata una notifica alla società di persone già estinta al momento della suddetta notifica e dal fatto che non era stata fornita la prova della estinzione della società stessa”; si lamenta che la società B. sas di N.F., in quanto contumace, non poteva fornire la prova della sua estinzione; si sostiene poi che la Corte territoriale sarebbe andata ultrapetita perché la A. non avrebbe mai fatto valere la propria pretesa creditoria nei confronti di N.F. quale ex socia della accomandita estinta, bensì avrebbe azionato la pretesa in via diretta nei confronti della F. in proprio.
2. Il motivo non può trovare accoglimento atteso che il decisum della sentenza impugnata sul punto si fonda, come riportato nello storico della lite, nella mancanza di prova circa l’estinzione della B. sas di F.N. e nel ricorso per cassazione non viene specificato il contenuto del documento dal quale, invece, si sarebbe dovuta evincere la prova di tale estinzione, né tanto meno si indica quando tale documento sia stato prodotto e dove il medesimo sia reperibile anche ai fini del giudizio di legittimità (cfr. Cass. SS.UU. n. 25038 del 2013; Cass., SS. UU. n. 7161 del 2010; Cass. n. 17602 del 2011; Cass. n. 124 del 2013).; tale prova certamente incombeva sull’appellante N.F. che ne aveva interesse per escludere la propria responsabilità già accertata in primo grado.
Quanto al vizio di ultrapetizione esso non è formulato nel rispetto del canone di specificità del motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c.. (v. Cass. n. 7455 del 2013), avendo parte ricorrente omesso di indicare specificamente ed adeguatamente nel corpo di esso i contenuti degli atti processuali su cui fonda la doglianza di violazione dell’art. 112 c.p.c.. (di recente v. tra le altre Cass. n. 14301 del 2017). Né può soccorrere alla parte ricorrente la qualificazione giuridica del vizio lamentato come error in procedendo, in relazione al quale la Corte è anche “giudice del fatto”, con la possibilità di accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito. Invero le Sezioni unite della Cassazione hanno statuito che, nei casi di vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, il giudice di legittimità, pur non dovendo limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, “è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4)” (Cass. SS. UU. n. 8077 del 2012). Dunque la parte ricorrente è tenuta ad indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, affinché il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (Cass. n. 9888 del 2016; Cass. n. 19410 del 2015; Cass. n. 17049 del 2015; Cass. 26900 del 2014; Cass. n. 22544 del 2014; Cass. n. 9734 del 2004; Cass. n. 6225 del 2005), senza limitarsi a meri stralci o generici rinvii (Cass. n. 17252 del 2016).
In particolare questa Corte ha affermato che, affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente – per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio “per relationem” agli atti della fase di merito – dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi (Cass. n. 6361 del 2007; Cass. n. 21226 del 2010; Cass. n. 4220 del 2012; Cass. n. 1435 del 2013; Cass. n. 8569 del 2013; Cass. n. 15367 del 2014).
3. Con il secondo motivo si denuncia “omesso esame circa l’eccepito difetto di legittimazione passiva ad causam della Sig.ra N.F. in proprio e la illegittimità della pronuncia di condanna in solido nei suoi confronti unitamente sia alla B. sas che alla B. srl ex art. 360 n. 5 c.p.c.”.
Si critica la sentenza impugnata per aver fondato la responsabilità personale della dott.ssa F. “sulle risultanze della prova per testi espletata in prime cure”.
4. La censura, esplicitamente formulata a mente dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. non è meritevole di accoglimento in quanto la Corte territoriale non ha affatto omesso di esaminare la questione della legittimazione passiva della F. in proprio ma ha espresso su di essa un convincimento, sulla base dell’istruttoria espletata, che è difforme da quello prospettato da parte ricorrente, che propone una diversa lettura delle risultanze processuali.
Tale sindacato non è consentito a questa Corte di legittimità, tanto più nel vigore del novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), di cui parte ricorrente non tiene alcun conto in quanto, pur avendo proposto il ricorso per cassazione nel 2017, non ne rispetta gli enunciati.
5. Il terzo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ex art. 360 n. 3 c.p.c. – violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. relativamente alla pronuncia di inammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello per aver dichiarato che quelli richiesti in secondo grado non rientrassero tra le previsioni di cui al suddetto articolo, il tutto ex art. 360 n. 3 e n. 4 c.p.c. – violazione a falsa applicazione degli artt. 1362 e ss – nonché dell’art. 2697 c.c. in riferimento anche all’art. 1414 II comma c.c. nella interpretazione del co.co.co. in termini di rapporto di lavoro subordinato ex art. 360 n. 3 c.p.c. – omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c.”.
6. Il motivo, come formulato, è inammissibile, sia perché contiene promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, nonché di vizi ex art. 360, n. 5, c.p.c., senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360 c.p.c., così non consentendo una adeguata identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016 e, da ultimo, Cass. n. 26874 del 2018), sia perché non censura adeguatamente l’autonoma ratio decidendi, di per sé sola idonea a sorreggere il decisum, secondo cui la prova del requisito dimensionale era irrilevante stante la tutela di diritto comune riconosciuta in relazione a licenziamento inefficace e ciò a prescindere dalla correttezza di tale assunto.
Come noto, qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo dictum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossigli con l’impugnazione comporta che la decisione deve essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato privando in tal modo l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., ex multis, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del 2001; Cass. n. 24540 del 2009).
7. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto e le spese seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo.
Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna le parti ricorrenti al pagamento delle spese liquidate in euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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