CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 dicembre 2018, n. 32704
Contratto a termine – Sostituzione di un lavoratore – Aspettativa sindacale – Durata
Fatti di causa
La Corte di Appello di Napoli, con sentenza nr. 326 del 2017, respingeva il reclamo proposto da R.F. D.M. avverso la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (nr. 1251 del 2016) che, pronunciando su due ricorsi dallo stesso proposti nei confronti di Cassa Edile della Provincia di Caserta, ne dichiarava inammissibile uno e rigettava l’altro.
Per quanto qui solo rileva, la Corte territoriale, in via preliminare, in applicazione del principio di conservazione degli atti processuali, riqualificava il reclamo come ricorso in appello, osservando, al contempo, come tutte le doglianze in merito all’esattezza o meno del rito applicato in primo grado fossero superate dall’assenza di pregiudizi, in termini di esercizio del diritto difesa; nel merito, dichiarava legittimo il contratto a termine stipulato tra le parti, avente come causale la sostituzione di un lavoratore, assente per aspettativa sindacale, la cui durata era stata ancorata a quella della suddetta causa giustificatrice.
Al riguardo, giudicava irrilevante che il contratto, in fatto, si fosse protratto per oltre 36 mesi in quanto la modifica normativa, di cui alla legge nr. 247 del 2007, nelle more intervenuta, non era applicabile alla fattispecie di causa, trattandosi di contratto unico ed ininterrotto.
Per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso R.F. D.M., affidato a quattro motivi ed illustrato con memoria ex art. 378 cod.proc.civ.
Ha resistito, con controricorso, la Cassa Edile della Provincia di Caserta.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, è dedotta – ai sensi dell’art. 360 nr.4 cod.proc.civ. – violazione dell’art. 1, commi 47, 48 e ss, 51 e 58 della legge nr. 92 del 2012.
Parte ricorrente, nella sostanza, imputa alla sentenza di aver riqualificato il ricorso, proposto nelle forme di cui all’art. 1 della legge nr. 92 del 2012, come atto di appello.
Con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr.4 cod. proc. civ. – è dedotta violazione degli artt. 177 e 178 cod.proc.civ. e dell’art. 1 comma 51 della legge nr. 92 del 2012.
La censura afferisce alla qualificazione, operata dalla Corte di appello, dell’ordinanza conclusiva della fase sommaria in termini di ordinanza revocabile o modificabile e reclamabile; secondo la parte ricorrente, il provvedimento de quo poteva essere oggetto solo di opposizione, secondo il rito disciplinato dall’art. 1 commi 51 e ss. della legge nr. 92 del 2012 (cd. Rito Fornero).
I primi due motivi possono trattarsi congiuntamente, presentando comuni profili di inammissibilità, per difetto di interesse.
Come ripetutamente affermato da questa Corte, la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte In conseguenza della denunciata violazione.
Ne consegue che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (ex plurimis: Cass. nr. 16016 del 2014; Cass. nr. 6150 del 2011; Cass. nr. 15353 del 2010; Cass. nr. 13373 del 2008).
Nella fattispecie di causa, la parte ricorrente si duole della qualificazione dell’impugnazione come operata dal giudice di appello ma non precisa, come d’altronde già osservato dalla Corte territoriale, quali effetti pregiudizievoli, sul piano processuale e/o sostanziale, siano per ciò derivati.
Con il terzo motivo, è dedotta – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del D.lgs nr. 368 del 2001 in relazione all’art. 1 co. 48 e ss. della legge nr. 92 del 2012 nonché violazione dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale.
Parte ricorrente assume l’erronea interpretazione dell’art. 5 cit., ratione temporis applicabile, in ragione dello « sforamento» del termine massimo di durata di 36 mesi, che prescinde dalla causale di assunzione e dall’essere il contratto unico ed interrotto.
Il motivo è infondato.
Come noto, la legge nr. 247 del 2007 (art. 1 comma 40) ha apportato significative modifiche all’art. 5 del D.Lgs nr. 368 del 2001 («Scadenza del termine e sanzioni. Successione dei contratti»), così, in particolare, stabilendo:
« […]
a) al comma 2, dopo le parole: “inferiore a sei mesi” sono inserite le seguenti: “nonché decorso il periodo complessivo di cui al comma 4-bis,”;
b) dopo il comma 4 sono inseriti i seguenti (commi):
“4-bis. Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2. In deroga a quanto disposto dal primo periodo del presente comma, un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti può essere stipulato per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato […]»
Per effetto di tale intervento, il comma 2 dell’art. 5, ratione temporis applicabile, stabilisce:«Se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, nonché decorso il periodo complessivo di cui al comma 4-bis (id est: 36 mesi), ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini».
Il legislatore, tuttavia, ha dettato una disciplina transitoria per i contratti di lavoro a termine in corso alla data di entrata in vigore della legge nr. 247 del 2007.
Detta disciplina è contenuta nell’art. 1, comma 43, lett. a) della legge nr. 247 cit. che così recita:«In fase di prima applicazione delle disposizioni di cui ai commi da 40 a 42: a) i contratti a termine in corso alla data di entrata in vigore della presente legge continuano fino al termine previsto dal contratto, anche in deroga alle disposizioni di cui al comma 4-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dal presente articolo […] ».
Alla stregua di detta normativa, deriva che il contratto di lavoro a termine concluso tra le parti in causa, in quanto in corso alla data di entrata in vigore della legge nr. 247 cit., per effetto della disciplina transitoria, è rimasto insensibile alle modifiche apportate dalla legge medesima ed è, pertanto, proseguito legittimamente fino alla naturale scadenza del termine in esso previsto e coincidente con il rientro in servizio del lavoratore sostituito (id est) con la cessazione della causa giustificatrice).
La decisione della Corte di appello, dunque, seppure da correggersi, ai sensi dell’art. 384, ult. co., cod.proc.civ., nei sensi che precedono, resta conforme a diritto.
Con il quarto motivo – ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod.proc.civ. – è dedotta violazione dell’art. 6 della legge nr. 604 del 1966, degli artt. 2118 e 2119 cod.civ. e dell’art. 18 della legge nr. 300 del 1970.
Il motivo è assorbito dal rigetto del terzo motivo, in quanto relativo alla comunicazione di risoluzione del rapporto di lavoro (che la parte ricorrente assume senza giusta causa sul presupposto, qui, invece, definitivamente escluso, della illegittimità del contratto di lavoro a termine).
In conclusione, il ricorso va respinto.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.
Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, nr. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. nr. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.
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