CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 febbraio 2019, n. 4672
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Riassetto organizzativo della struttura aziendale – Soppressione della posizione lavorativa – Accertamento
Svolgimento del processo
Con ricorso notificato in data 6/05/2015, la sig.ra L. (ingegnere elettronico specializzato in sistemi di misurazione, responsabile dell’ufficio ‘Compliance’ svolgente la procedura di controllo denominata ‘STC’) adiva il Tribunale di Milano per sentir condannare la società M.I. s.r.l. – accertata e dichiarata la nullità e/o l’inefficacia e/o l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole dalla M. il 27.10.14 – alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista dalla legge, ai sensi dell’art. 18, co. 4 e 7 L. n. 300/70; in subordine, accertata la non sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, chiedeva la condanna della resistente al pagamento dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 comma V della L. 300/70; in ulteriore subordine, chiedeva il pagamento dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 comma VI della ridetta L. n. 300/70.
Si costituiva in giudizio la M. chiedendo il rigetto delle domande avversarie in quanto infondate in fatto ed in diritto.
Con ordinanza del 22 giugno 2015 il Giudice rigettava le domande della sig.ra L. ritenendo che secondo i dati allegati dalla convenuta, non adeguatamente contestati, la modificazione della normativa giapponese in materia di controlli dei prodotti aveva comportato una drastica e pressoché totale contrazione, qualitativa e quantitativa, dell’attività di controllo del c.d. STC cui l’Ufficio Compliance era destinato; che non era sostanzialmente contestato che detto riassetto organizzativo della struttura aziendale fosse effettivamente intervenuto e che, in seguito ad esso, la posizione lavorativa della ricorrente fosse stata soppressa, anche considerato che la stessa ricorrente non aveva allegato la sussistenza di nuove assunzioni di altro personale svolgente mansioni analoghe, accertando che le mansioni residue, al netto della riduzione della attività di STC erano state esternalizzate o ridistribuite tra altri dipendenti”; con riferimento all’obbligo di repechage, osservava che la ricorrente non aveva indicato posizioni vacanti cui avrebbe potuto essere utilmente addetta.
La L. proponeva opposizione avverso la menzionata ordinanza di rigetto che tuttavia veniva confermata dal Tribunale.
Avverso tale sentenza la L. proponeva reclamo; resisteva la società.
Con sentenza pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte d’Appello di Milano respingeva il reclamo, ritenendo provata la sussistenza delle ragioni poste a base del licenziamento e l’impossibilità di ricollocamento.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la L., affidato ad unico articolato motivo, poi illustrato con memoria.
Resiste la società con controricorso.
Motivi della decisione
1. – La ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 L. n. 604/66, per avere la sentenza impugnata considerato giustificato il suo licenziamento a fronte di una erronea ripartizione agli oneri di allegazione e prova.
Lamenta in particolare che la sentenza impugnata aveva deciso la causa in base all’erroneo presupposto della sussistenza di un onere a carico della dipendente di fornire la ‘dovuta collaborazione’ nell’indicare o addirittura provare, l’esistenza di altre posizioni lavorative equivalenti ed utili in senso alla società, superato dalla più recente e consolidata giurisprudenza di legittimità. Espone che la ‘Compliance aziendale’ aveva il compito essenziale di curare e consolidare l’immagine aziendale dal punto di vista della correttezza delle procedure e del rispetto delle norme legali e regolamentari, sicché tale Ufficio, oltre ai controlli STC, aveva anche il compito di controllare le norme del d.lgs n. 231/01 curando che le relative procedure venissero rispettate. A tal fine riproduce nel corpo del ricorso 81 documenti, al termine della cui rassegna, a pag. 90 del ricorso, deduce che la riduzione dei controlli STC riguardava un tempo lavorativo della dipendente inferiore al 50%, sicché la società avrebbe dovuto procedere alla scelta del personale da licenziare secondo i criteri di cui all’art. 5 L. n. 223/91; lamenta inoltre che l’unica prova offerta dalla società in tema di repechage riguardava la mancata assunzione di altri lavoratori nel semestre successivo al licenziamento.
Il ricorso, che presenta evidenti profili di inammissibilità laddove affida la sostanza delle censure in ordine alla insussistenza del g.m.o. di licenziamento ad una voluminosa congerie di documenti, demandando così, inammissibilmente, a questa Corte la selezione delle parti rilevanti e dunque una individuazione e valutazione dei fatti, preclusa al giudice di legittimità (Cass. 7 febbraio 2012 n. 1716), è per il resto infondato.
Occorre in primo luogo considerare che non sussiste nella sentenza impugnata alcuna effettiva inversione degli oneri probatori in materia, posto che la Corte di merito è giunta alla più che ampiamente motivata conclusione dell’esistenza del giustificato motivo di licenziamento dopo una meticolosa ricostruzione delle circostanze di causa dedotte e provate dalla società. E lo stesso dicasi quanto al repechage ove la sentenza impugnata, pur sembrando rilevare, in un inciso a pag. 8, che ‘spettava alla ricorrente quanto meno additare, anche in modo sommario o impreciso’ gli elementi da cui poter evincere la possibilità di una sua utile ricollocazione in azienda, afferma con chiarezza che tale onere grava unicamente, ex art. 5 L. n. 604/66 sul datore di lavoro, esaminando quindi le ragioni per cui a suo avviso tale ricollocazione era stata dimostrata.
Ciò premesso occorre osservare che secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 25201/16, Cass. n. 10699/17, Cass. n. 24882/17 e successiva conforme giurisprudenza), ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, seppure l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, è piuttosto sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa. E’ dunque in sostanza sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost.
La pronuncia n. 8973/18 di questa Corte ha in particolare osservato che in tema di g.m.o. di licenziamento “al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore”, restando “saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso”, accertamento in fatto che tuttavia resta affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui al novellato n.5 dell’art. 360 c.p.c., che, com’è noto, limita il controllo sulla motivazione all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, limitando così il controllo sulla motivazione al “minimo costituzionale” (motivazione solo apparente o apodittica, Cass. sez.un. 7 aprile 2014, n. 8053). L’omesso esame di elementi istruttori, dedotti ancorché inammissibilmente dalla L., non integra inoltre di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez.un. 22 settembre 2014 n. 19881).
Nella specie il ricorso non rispetta il novellato n. 5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza, anche a sezioni unite, di questa Corte.
La sentenza impugnata ha peraltro evidenziato che la lavoratrice, inserita nell’impresa M.I. con la qualifica di quadro grazie alla sua particolare professionalità di ingegnere specializzato in metrologia, aveva assunto la posizione di responsabile del predetto ufficio ‘Compliance’ ivi esercitando la qualificante funzione di responsabile del controllo STC relativo ad una sofisticata serie di apparecchiature per misurazioni industriali della massima precisione, funzioni che, anche a causa della incontestata abrogazione della severa normativa giapponese in materia in materia di controlli, vennero man mano scemando, così come il venir meno del dell’incombente di verifica, con conseguente cessazione dell’Ufficio Compliance e l’attrazione della gestione del sistema qualità presso altra sede europea della Compagine nipponica e l’assegnazione ad una impresa esterna della gestione della sicurezza sul luogo di lavoro, in uno con una forte contrazione delle procedure di controllo STC e chiusura del relativo ufficio.
A ciò aggiungasi che la censura, infondata quanto alla dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., finisce per censurare (accurati) accertamenti di fatto svolti dal giudice di merito, in contrasto, per giunta, con quanto stabilito dall’art. 348 ter, co. 4, c.p.c.
2. – Quanto all’assolvimento dell’obbligo di repechage, certamente gravante sulla datrice di lavoro, come in sostanza chiaramente affermato dalla sentenza impugnata (pag. 8), deve rilevarsi che questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 10435/18) ha osservato che, trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro ha sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale. Nella specie a fronte della ampiamente ed esaurientemente argomentata sussistenza di ragioni di carattere organizzativo e produttivo, valutata anche la peculiare specializzazione della Lazzaro, la Corte di merito ha valutato che per molti mesi dopo il licenziamento la società non aveva assunto altri dipendenti, ad eccezione del Bini, con qualifica di impiegato e con contratto a termine, avvenuta a distanza di ben sette mesi (25.5.15) dal licenziamento de quo, e connesso alle dimissioni di altro impiegato nel marzo 2015, pervenendo al convincimento del raggiungimento della prova dell’insussistenza di una diversa collocabilità della Lazzaro in mansioni equivalenti (sul rilievo a tal fine, e sempre valutando il contesto d’impresa dato, della mancanza di nuove assunzioni cfr. Cass. n. 27079/18, n. 10435/18).
Trattasi comunque sempre di valutazioni in fatto, incensurabili in questa sede, oltre che in base al novellato n.5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c. anche in base al principio cd. della ‘doppia conforme’ di cui all’art. 348 ter c.p.c.
3. – La doglianza inerente il mancato rispetto dei criteri di scelta di cui all’art. 5 L. n. 223/91 non risulta menzionata dalla sentenza impugnata, sicché vale il principio che qualora una determinata questione giuridica non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che proponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. n. 8206/16, Cass. n. 25546 del 2006).
4. – Il ricorso deve essere dunque rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la L. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.200,00 per esborsi, € 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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