CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 febbraio 2019, n. 4686
Licenziamento per giusta causa – Proporzionalità e gradualità della sanzione disciplinare – Tardività delle contestazioni – Accertamento
Fatti di causa
Con sentenza del 10 ottobre 2017, questa Corte di cassazione rigettava il ricorso proposto da D.M. avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, che, in riforma della sentenza di primo grado, ne aveva rigettato l’impugnazione di illegittimità del licenziamento intimatogli il 2 aprile 2009 dalla datrice C. s.p.a. per giusta causa (consistita nella prosecuzione di pratiche di finanziamento, con apposizione di visto di conformità, in violazione della procedura informatica di “alert”, da seguire nell’istruttoria dei finanziamenti a lui ben nota, di apposizione del visto solo all’esito di controlli, che egli attestava di avere falsamente eseguito) e le conseguenti domande di condanna reintegratoria e risarcitoria.
A motivo della decisione, la Corte riteneva l’infondatezza del primo motivo, di violazione degli artt. 2119 c.c. e 3 I. 604/1966, in relazione all’inosservanza dei principi di proporzionalità e gradualità della sanzione disciplinare e la sua inammissibilità, in riferimento al vizio di apoditticità e contraddittorietà della motivazione. Essa riteneva quindi l’inammissibilità degli altri motivi, in difetto di allegazione di tempestiva deduzione di circostanze alla base dei vizi con essi denunciati (in primo grado: di tardività delle contestazioni disciplinari del 21 gennaio e 18 febbraio 2009, con il secondo; di prassi aziendale cui conformato il comportamento del lavoratore, con il terzo; di inesistenza e mancata affissione del codice disciplinare, anche in grado di appello, con il quarto).
Con atto notificato il 10 gennaio 2018, il lavoratore ricorreva per revocazione avverso la suindicata sentenza con quattro motivi, cui resisteva la società con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omessa pronuncia sulla violazione dell’art. 7 l. 300/1970, oggetto del secondo motivo di ricorso per cassazione, sotto il profilo di tardività della contestazione disciplinare, sul rilievo, frutto di evidente errore revocatorio, della sua mancata tempestiva allegazione in primo grado, invece denunciata.
2. Con il secondo, il ricorrente deduce erronea percezione del tenore letterale del ricorso di primo grado, in riferimento alla ritenuta mancata allegazione in esso della conformazione del comportamento del lavoratore alla prassi aziendale, in riferimento al terzo motivo di ricorso per cassazione.
3. Con il terzo, il ricorrente deduce erronea percezione del tenore letterale del ricorso di primo grado, in riferimento alla ritenuta mancata allegazione in esso (e neppure in grado d’appello) dell’inesistenza e mancata affissione del codice disciplinare, in riferimento al quarto motivo di ricorso per cassazione.
4. Con il quarto, il ricorrente deduce incoerenza della pronuncia con i principi in tema di falsa applicazione della legge e di ammissibilità del primo motivo di ricorso per cassazione.
5. Tutti i motivi sono inammissibili.
5.1. Al di là della inappropriata e poco chiara formulazione dei motivi, occorre premettere che l’errore che può legittimare la revocazione di una sentenza della Corte di cassazione deve riguardare gli atti “interni” al giudizio di legittimità, ossia quelli che la Corte esamina direttamente nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili di ufficio, dovendo quindi avere carattere autonomo (Cass. 18 febbraio 2014, n. 3820; Cass. 22 ottobre 2018, n. 26643). Ed inoltre esso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 391bis e 395, n. 4 c.p.c., non può consistere in un errore di diritto sostanziale o processuale, né in un errore di giudizio o di valutazione (Cass. 11 aprile 2018, n. 8984), dovendo piuttosto manifestarsi in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti invece in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato (Cass. 11 gennaio 2018, n. 442).
5.2. Ebbene, nel caso di specie, i primi tre motivi prospettano un’erronea esclusione di tempestiva allegazione di circostanze, quali le contestazioni disciplinari del 21 gennaio e 18 febbraio 2009 (il secondo), la prassi aziendale cui si sarebbe conformato il comportamento del lavoratore (il terzo) e l’inesistenza e la mancata affissione del codice disciplinare (il quarto e questo, oltre che nel primo, anche in grado di appello), che risulta frutto, non già di un mero errore percettivo o di svista materiale, bensì piuttosto di una valutazione giuridica, basata su un’attenta ricognizione degli atti, in esito alla quale rilevata (e pure correttamente) l’assenza di una debita trascrizione della tempestiva allegazione delle circostanze suindicate nel ricorso introduttivo e non soltanto nella memoria di costituzione in appello (quanto al secondo e al terzo) o neppure in essa (quanto al quarto): così come sinteticamente ma esaurientemente argomentato dalla sentenza oggetto di revocazione (per le ragioni illustrate ai p.ti 20 e, per relationem ad esso, 21 e 22 della sentenza) ed effettivamente riscontrato dall’esame diretto dei motivi del (primo in via ordinaria) ricorso per cassazione, come anche trascritti nell’odierno ricorso per revocazione (da pg. 5 a pg. 10).
5.3. Infine, il quarto motivo consiste in una palese contestazione della valutazione giuridica operata dalla Corte di legittimità in ordine ai fatti accertati. Sicchè, è estranea all’ambito dell’errore revocatorio, in quanto censurante un errato apprezzamento di un motivo di ricorso: posto che non può essere qualificato come errore di percezione degli atti di causa un eventuale errore di valutazione sulla portata della doglianza svolta con l’originario ricorso (Cass. 15 giugno 2017, n. 14937), né pertanto essere impugnata per revocazione una sentenza della Corte di cassazione sull’assunto di una cattiva valutazione dei motivi di ricorso, perché un vizio di questo tipo costituirebbe un errore di giudizio e non un errore di fatto ai sensi dell’art. 395, primo comma, numero 4 c.p.c. (Cass. 3 aprile 2017, n. 8615).
6. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’inammissibilità del ricorso e la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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