CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 maggio 2018, n. 12287
Tributi – Contenzioso tributario – Procedimento – Disposizioni comuni ai vari gradi del procedimento – In genere – Principio di non contestazione – Applicabilità nel processo tributario – Limiti – Fattispecie
Esposizione dei fatti di causa
1. La società A. s.r.l. impugnava due avvisi di accertamento, rispettivamente notificati il 7.07.2008 e l’8.07.2008, emessi dal Comune di Modugno, con i quali veniva rettificata la dichiarazione Tarsu, dalla predetta presentata nell’anno 2008, riconoscendo la riduzione per l’area destinata ad opificio (mq. 240 mq), escludendo l’imposizione per l’area destinata alla sede di impianti (mq. 5.812) e negando l’esenzione per l’area destinata a deposito di materia prima (1228 mq), ai sensi dell’ art. 62 comma 2 d.lgs. 507/93, sul rilievo del difetto di motivazione degli avvisi e della violazione dell’art. 62 comma 1 D.lgs 546/92.
In particolare, deduceva che, dal medesimo sopralluogo dei funzionari del Comune di Modugno, era emerso che il locale era destinato a deposito di materia prima (polveri chimiche) non produttiva di rifiuti, con la conseguente applicazione della disciplina di cui al secondo comma dell’art. 62 richiamato.
La C.T.P. di Bari rigettava i ricorsi riuniti.
Avverso la sentenza di primo grado interponeva gravame la società A., reiterando le medesime difese.
La C.T.R. di Bari rigettava il gravame, fondando la propria decisione anche sulle medesime rationes decidendi della prima pronuncia.
Avverso la sentenza n. 67/1/2011 depositata il 9.05.2011, la contribuente proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui resisteva con controricorso l’amministrazione comunale di Modugno.
Il P.G. ha concluso per l’inammissibilità del ricorso ed in subordine per il rigetto.
Esposizione delle ragioni della decisione
2. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 62 comma 1 d.lgs. 546/92 e dell’art. 360. n. 5 c.p.c..
Con riferimento ad un fatto controverso e decisivo del giudizio, lamenta che il comune di Modugno aveva l’obbligo di motivare gli atti di accertamento ed il diniego all’esenzione per i locali destinati a magazzino di materie prime, sostenendo, al riguardo, l’insufficiente motivazione dei giudici di appello per aver omesso di esplicitare i criteri di valutazione degli elementi offerti dalle parti in corso del giudizio e le modalità di ricostruzione dei presupposti alla base della soluzione della controversia.
Deduce, in particolare, che la C.T.R. non poteva sopperire alla carenza motivazionale degli avvisi di accertamento e che non aveva esplicato le ragioni per le quali gli atti risultavano motivati. In ogni caso, sostiene che “I giudici di appello non hanno motivato le ragioni per cui hanno ritenuto maggiormente idonei i fatti indicati negli avvisi e non gli elementi offerti dalla ricorrente”, aggiungendo, altresì, che la motivazione è gravemente insufficiente perché i giudici di secondo grado non hanno individuato le fonti del proprio convincimento e motivato la prevalenza di un elemento sull’altro.
3. Con il secondo motivo, deduce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 10 dello Statuto del contribuente e dell’art. 2967 c.c. e dell’art. 62 comma 1 d.lgs 546/96, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto assolto dal Comune di Modugno sia l’obbligo della motivazione degli atti impositivi sia l’onere della prova della sussistenza dei presupposti impositivi e denunciando l’omessa osservanza dei principi probatori in virtù dei quali, ad avviso della ricorrente, l’ente comunale doveva fornire la prova che nell’area in esame si producono rifiuti urbani o ad essi assimilati, circostanza che sarebbe smentita dalle risultanze del sopralluogo effettuato nei locali dai funzionari del Comune; il quale neppure avrebbe provato che gli eventuali rifiuti prodotti fossero assimilabili a quelli urbani. In altri termini, la ricorrente lamenta che i giudici di appello non abbiano deciso la questione di diritto relativa alla interpretazione dell’art. 7 dello statuto e dell’art. 2697 c.c. in modo conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte.
4. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c.e del principio di non contestazione, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver deciso la legittimità degli avvisi di accertamento, pur in assenza di contestazione in ordine agli elementi probatori dalla stessa forniti.
5. Infine con il quarto motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ex art. 360 n. 4 c.p.c. richiamato dall’art. 62 D.Lgs. 546/92, censurando la sentenza impugnata per violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, in quanto i giudici di appello avrebbero omesso di pronunciarsi in merito alla dedotta violazione dell’art. 62 d.lgs. 597/93, essendo l’area oggetto di accertamento esclusa dall’assoggettamento a Tarsu, non solo per la sua destinazione particolare, la quale osta alla produzione di rifiuti urbani o ad essi assimilabili, ma anche perché, ai sensi del comma 3° del medesimo articolo, la predetta area, per specifiche caratteristiche strutturali, produce rifiuti speciali allo smaltimento dei quali la società provvede in via autonoma.
Ribadisce, inoltre, che il comune di Modugno non ha mai contestato che nei suoi locali si producessero polveri chimiche riconducibili ai rifiuti speciali smaltiti a mezzo di ditte specializzate e lamenta l’omessa valutazione della prodotta perizia giurata, concludendo per la violazione da parte del giudice d’appello dell’obbligo di decidere sulla scorta delle prove acquisite ex art. 115 c.p.c.
6. Con il quinto motivo si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex artt. 62 comma 1 d.lgs. 546/92 e 360 n. 5 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver omesso di decidere sul diritto dell’ente ricorrente alla esenzione dalla Tarsu, deducendo il vizio di insufficiente motivazione per omessa individuazione dei criteri di valutazione degli elementi probatori offerti dalle parti.
7. Il primo motivo del ricorso è infondato.
Ebbene, con detto motivo la ricorrente si duole genericamente, senza nemmeno descrivere gli elementi probatori trascurati, del fatto che i giudici di appello abbiano ritenuto adeguatamente motivati gli avvisi di accertamento, omettendo di indicare le fonti del loro convincimento, ritenendo la prevalenza di taluni elementi(genericamente indicati) piuttosto che di altri. La doglianza, oltre che genericamente dedotta, non risulta correttamente formulata, atteso che laddove si lamenti l’omessa individuazione delle fonti probatorie poste a sostegno del proprio convincimento, il ricorrente per cassazione non può limitarsi a denunciare il vizio di omessa motivazione, giacché altrimenti la censura postulerebbe la caducazione della decisione non per una concreta lesione sofferta dalla parte stessa, bensì solo per ragioni formali, ma ha l’onere di denunciare in maniera specifica che, contrariamente a quanto asserito dal giudice, nell’ambito degli elementi probatori non ne esistono di idonei a giustificare il convincimento espresso; detto vizio sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 2017/1593; Cass. 6288/2011).
8. Il secondo motivo – relativo alla violazione dell’art. 7 (e dell’art. 10 che ha introdotto la tutela dell’affidamento e della buona fede) dello statuto del contribuente nonché dell’art. 2697 c.c. ex art. 360 n. c.p.c. – difetta del requisito dell’autosufficienza, poiché, quando si censura la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – il quale non è atto processuale, bensì atto amministrativo – è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass. 16147 del 2017; Cass. n. 2928 del 2015; Cass. n. 22003 del 2014; Cass. n. 8312 del 2013; Cass. n. 9536 del 2013). La mancanza della trascrizione dell’avviso impedisce il vaglio di codesta Corte.
Peraltro, i giudici di appello hanno esplicitamente affermato che l’atto impositivo conteneva elementi – quali la superficie dei locali, destinazione e tassazione – utili e precisi per comprendere i motivi della pretesa e per consentire al contribuente di difendersi compiutamente, come inferibile dalle difese svolte da entrambe le parti.
9. Con riferimento alla violazione dell’art. 2697 c.c., dedotto con il secondo motivo, è stato osservato che incombe sull’impresa contribuente l’onere di fornire all’amministrazione comunale i dati relativi all’esistenza ed alla delimitazione delle aree che, per il detto motivo, non concorrono alla quantificazione della complessiva superficie imponibile; infatti, pur operando anche nella materia in esame – per quanto riguarda il presupposto della occupazione di aree nel territorio comunale – il principio secondo il quale l’onere della prova dei fatti costituenti fonte dell’obbligazione tributaria spetta all’amministrazione, per quanto attiene alla quantificazione della tassa è posto a carico dell’interessato (oltre all’obbligo della denuncia, D.Lgs. n. 507 del 1993, ex art. 70) un onere di informazione, al fine di ottenere l’esclusione di alcune aree dalla superficie tassabile, ponendosi tale esclusione come eccezione alla regola generale secondo cui al pagamento del tributo sono astrattamente tenuti tutti coloro che occupano o detengono immobili nel territorio comunale (Cass. nn. 4766 e 17703 del 2004, 13086 del 2006, 17599 del 2009, 775 del 2011; n. 1635/2015; n. 10787 del 2016; n. 21250/2017).
Con la conseguenza che alcuna illegittima inversione dell’onere probatorio è stata disposta dalla C.T.R. pugliese.
10. In mancanza di illustrazione del motivo con riferimento alla violazione dell’art. 62 cit. ex art. 360 n. 3 c.p.c., non è dato individuare le censure che attingono sul punto la motivazione impugnata.
11. Parimenti infondato risulta il terzo motivo con cui si lamenta l’inosservanza da parte dei giudici di seconde cure del principio di non contestazione degli elementi probatori offerti a fondamento del gravame.
In disparte la genericità e la disorganicità della rubricazione e della illustrazione del motivo, la doglianza risulta in contrasto con quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, laddove i giudici di appello hanno compiutamente valutato gli elementi probatori offerti dalla contribuente e, precisamente, la denuncia Tarsu del 2008 e la perizia giurata allegata, desumendo da essi che anche le aree destinate all’immagazzinamento delle materie prime sono soggette ad imposizione ex art. 62 comma 1, prima parte, D.lgs. 507/1993.
Al riguardo, osserva la Corte che il processo era stato instaurato per affermare l’esenzione dalla Tarsu, contrastata dall’amministrazione già mediante l’atto impositivo, volto ad affermare l’assoggettamento dei locali alla predetta imposta. Sicché a nessun onere aggiuntivo (di allegazione o di contestazione) l’amministrazione avrebbe dovuto adempiere al fine di affermare, contrastato nel processo, il nesso di consequenzialità tra il fatto significante ex adverso dedotto – deposito di materie prime – e il significato asserito come discendente, l’esenzione dalla imposta.
Non è revocabile in dubbio che il principio di non contestazione, di cui all’art. 115, primo comma, cod. proc. civ., si applichi anche nel processo tributario, ma, attesa l’indisponibilità dei diritti controversi, esso riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e sempreché il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l’esistenza (Cass. n. 1384/2016; Cass. 2015 n. 2196; Cass. n. 13834/2014). E nella specie, come riscontrabile dagli stessi stralci degli scritti difensivi delle parti, l’Ente impositore ha sempre negato in radice il diritto alla esenzione, non ritenendone provati dal contribuente i presupposti, laddove, peraltro e prima ancora, l’oggetto della non contestazione riguarda la denuncia Tarsu rettificata dallo stesso Comune e la perizia giurata che oltre a non essere vincolante, è estranea alla sfera cognitiva di quest’ultimo.
12.. Anche il quarto motivo è infondato.
Con esso, la società ricorrente lamenta l’omessa valutazione da parte della C.T.R. del dedotto auto-smaltimento dei rifiuti, della natura di polveri chimiche del materiale depositato nei locali e della produzione di rifiuti speciali, sotto il profilo della omessa corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
La censura non coglie nel segno, atteso che i giudici di appello hanno valutato non solo la normativa citata sia nell’intero contesto della motivazione che a pagina 6 della sentenza, includendo nelle aree soggette a tassazione anche i locali destinati a magazzino di materie prime, ma hanno ritenuto l’irrilevanza della auto-smaltimento, respingendo il ricorso sulla base degli elementi probatori, ritenuti contraddittori, forniti dalla stessa società ricorrente (dichiarazione Tarsu anno 2008 e perizia giurata).
In altri termini, i giudici di appello non sono incorsi in errores in procedendo, avendo motivato in merito alla natura dei rifiuti, alla destinazione dei locali e all’applicabilità dell’art. 62 cit., pervenendo a conclusione difformi da quelle prospettate dalla contribuente.
13. In ogni caso, questa Corte ha recentemente precisato che “i rifiuti prodotti in un deposito o magazzino non possono essere considerati residui del ciclo di lavorazione, per cui risulta ininfluente che possano essere qualificati o meno come rifiuti assimilati agli urbani”. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la esenzione o riduzione delle superfici tassabili deve intendersi limitata a quella parte di esse su cui insiste l’opificio vero e proprio (onere che grava sul contribuente), perché solo in tali locali possono formarsi rifiuti speciali, per le specifiche caratteristiche strutturali relative allo svolgimento dell’attività produttiva, mentre in tutti gli altri locali destinati ad attività diverse, i rifiuti devono considerarsi “urbani” per esclusione (salvo che non siano classificati rifiuti tossici o nocivi) e la superficie di tali locali va ricompresa per intero nell’ambito della superficie tassabile (uffici, depositi, servizi, ecc.), inoltre, tale classificazione costituisce accertamento di fatto, riservato al giudice del merito (Cass. n. 1242/1996, 15857/2005, ord. n. 12443/2014; Cass. 26725/2016).
L’impossibilità di produrre rifiuti deve dipendere da fattori oggettivi e permanenti e non dalla contingente e soggettiva modalità di utilizzazione dei locali. Questa Corte ha precisato che: «La situazione che legittima l’esonero si verifica allorquando l’impossibilità di produrre rifiuti dipende dalla natura stessa dell’area o del locale, ovvero dalla loro condizione di materiale ed oggettiva inutilizzabilità ovvero dal fatto che l’area ed il locale siano stabilmente, e cioè in modo permanente e non modificabile, insuscettibili di essere destinati a funzioni direttamente o indirettamente produttive di rifiuti. La funzione di magazzino, deposito o ricovero è invece una funzione operativa generica e come tale non rientra nella previsione legislativa» (Cass. n. 19720 del 2010).
Al riguardo, questa Corte, con sentenza n. 2814 del 2005 ha esplicitamente affermato che «I magazzini, qualora siano destinati al ricovero di beni strumentali o delle scorte da impiegare nella produzione o nello scambio, concorrono all’esercizio dell’impresa e vanno perciò riguardati come aree operative, al pari degli stabilimenti o dei locali destinati alla vendita». Va aggiunto che, nella fattispecie, non si vede sotto quale profilo l’adibizione dell’area a deposito di materiale chimico( materia prima) potrebbe farlo considerare escluso dalla possibilità di produrre rifiuti, trattandosi di un’area adibita a deposito per la quale la normativa non contempla alcuna ipotesi di esenzione (v. anche Cass. 2017/26637).
14. Anche l’ultimo motivo non coglie nel segno, atteso che, come già illustrato, l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio non può attenere all’esistenza del diritto azionato, vale a dire del diritto all’esenzione, ma ad un accadimento naturalistico, non riconducibile a questioni o argomenti.
Se, invece, la censura di cui al quinto motivo dovesse riguardare – tenuto conto della non chiara esposizione della doglianza – l’insufficiente motivazione in ordine alla natura e al particolare uso dell’area destinata a deposito di materie prime, essa risulterebbe comunque infondata alla luce delle considerazioni che seguono.
I giudici di appello – sulla base della denuncia Tarsu anno 2008 presentata dalla ricorrente e della perizia giurata prodotta in giudizio – hanno rilevato la contraddittorietà tra i due atti; nella dichiarazione l’area, pari a 1.228 mq, viene qualificata come “deposito momentaneo di materia prima destinata alla trasformazione e alla lavorazione”, per svanire, invece, nella perizia, in cui viene configurata come parte integrante di una struttura produttiva, pari mq 5.812.
I giudici di secondo grado hanno ritenuto che i contraddittori elementi probatori offerti dalla contribuente non consentissero di accertare che l’area denunciata presentasse quelle caratteristiche strutturali o quella destinazione che consentono di affermare che in essa si formano prevalentemente rifiuti speciali, tossici o nocivi, evidenziando che la destinazione dell’area a magazzino di materie prime non è esclusa dalla tassabilità di cui all’art. 62 cit.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna la ricorrente alla refusione delle spese processuali che liquida in euro 5.000,00, per compensi, oltre rimborso forfettario, iva e c.p.a come per legge.
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