CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 maggio 2018, n. 12324
Licenziamento disciplinare – Appropriazione di acconti pagati dalla clientela – Audizione con l’assistenza di un sindacalista – Richiesta del lavoratore
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 128/15 il Tribunale di Forlì rigettava l’opposizione proposta da F.V. contro l’ordinanza dello stesso Tribunale che ne aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimatole il 15.2.13 per appropriazione di acconti pagati dalla clientela (fatti figurare contabilmente come sconti) del punto vendita di S.V. S.p.A., punto vendita di cui la V. medesima era responsabile.
2. Con sentenza pubblicata il 6.11.15 la Corte d’appello di Bologna, in parziale accoglimento del reclamo, pur ravvisata una giusta causa di recesso in ordine ad un episodio che aveva riguardato l’acconto pagato da una cliente del punto vendita, dichiarava il licenziamento illegittimo per violazione dell’art. 7 legge n. 300 del 1970, per non avere la società, nell’ambito dell’iter disciplinare, proceduto all’audizione personale di F.V. con l’assistenza d’un sindacalista di sua fiducia nonostante la richiesta avanzata in tal senso dalla lavoratrice; per l’effetto, ai sensi dell’art. 18, commi 5 e 6, legge n. 300 del 1970 (come modificato ex lege n. 92 del 2012) dichiarava risolto il rapporto alla data del licenziamento e attribuiva alla reclamante la mera tutela indennitaria c.d. debole determinata in otto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre F.V. affidandosi a diciassette motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
4. La V. S.p.A. resiste con controricorso e spiega ricorso incidentale basato su due motivi, cui a sua volta resiste con controricorso la ricorrente principale.
Ragioni della decisione
1.1. Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità della produzione dei nuovi documenti allegati dalla ricorrente principale unitamente alla propria memoria ex art. 378 cod. proc. civ., poiché l’art. 372 stesso codice consente il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo solo se concernenti la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso o del controricorso. I documenti prodotti dalla ricorrente principale riguardano, invece, unicamente il merito della controversia.
2.1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 69 c.c.n.I. industria calzaturiera, nella parte in cui la sentenza impugnata ha fatto decorrere il termine di decadenza ivi previsto per l’intimazione del licenziamento dalla data della lettera integrativa della contestazione (7.2.13) anziché da quella dell’iniziale contestazione con sospensione cautelare disposta (il 25.1.13) nei confronti della lavoratrice.
Il motivo, ancor prima che infondato perché il termine di decadenza di cui al cit. art. 69 per l’irrogazione del provvedimento disciplinare decorre non già dalla contestazione, ma dallo spirare del termine per la presentazione delle controdeduzioni del lavoratore, è ad ogni modo anche improcedibile per omessa produzione del testo integrale del c.c.n.I. industria calzaturiera.
Invero, per costante giurisprudenza (cfr., ex aliis, Cass. n. 4350/15; Cass. n. 2143/2011; Cass. 15.10.10 n. 21358; Cass. S.U. 23.9.10 n. 20075; Cass. 13.5.10 n. 11614), nel giudizio di cassazione l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, dall’art. 369 co. 2° n. 4 cod. proc. civ. – è soddisfatto solo con la produzione del testo integrale della fonte convenzionale, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c.
Né a tal fine basta la mera allegazione dell’intero fascicolo di parte del giudizio di merito in cui tale atto sia stato eventualmente depositato, essendo altresì necessario che in ricorso se ne indichi la precisa collocazione nell’incarto processuale (v., ex aliis, Cass. n. 27228/14), il che nel caso in esame non è avvenuto.
2.2. Il secondo mezzo deduce un vizio di motivazione là dove la Corte territoriale ha considerato l’iniziale sospensione cautelare come atto esterno al procedimento disciplinare, per l’effetto datandone l’inizio al 7.2.13.
Il motivo è infondato perché, dopo la novella dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., di cui all’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge 7.8.2012 n. 134, il vizio di motivazione rilevante è solo quello che si traduce in una vera e propria violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., che sussiste soltanto se risulta leso il c.d. minimo costituzionale della motivazione.
A sua volta tale vizio può ravvisarsi – secondo costante insegnamento giurisprudenziale (espresso da Cass. S.U. n. 8053/14 e successive conformi) – soltanto per mancanza grafica della motivazione, o per motivazione del tutto apparente, oppure per motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure per manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che ciò emerga dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.
Per l’effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito.
Nel caso di specie l’iter logico della motivazione della sentenza impugnata è in sé perfettamente coerente e comprensibile.
2.3. Con il terzo motivo ci si duole di erronea o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 71, lett. b), cit. c.c.n.I. in relazione agli artt. 1362 e 1363 cod. civ., per avere la sentenza impugnata equiparato al furto (previsto dalla fonte convenzionale come giusta causa di recesso) anche la mancata emissione all’atto del pagamento del saldo dello scontrino di euro 169,00 comprensivo dell’acconto di euro 50,00, il tutto statuito nonostante la mancanza di prova del dolo.
Il motivo è infondato perché la sentenza impugnata, nell’affermare la natura meramente esemplificativa delle infrazioni disciplinari elencate nell’art. 71 cit. e nel far rientrare nel concetto di giusta causa anche la condotta addebitata all’odierna ricorrente principale, non ha in alcun modo violato i canoni ermeneutici civilistici, anzi, ha fatto corretta applicazione dell’art. 1365 cod. civ., secondo il quale, quando in un contratto si è espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali, secondo ragione, esso possa estendersi.
Premesso che l’addebito mosso a F.V. non risiede puramente e semplicemente nella mancata emissione all’atto del pagamento del saldo dello scontrino di euro 169,00 comprensivo dell’acconto di euro 50,00, ma nel fatto che tale ultimo importo non sia stato versato nella cassa aziendale: ciò equivale ad un’accusa di appropriazione indebita di denaro di pertinenza aziendale (tale, in sostanza, è l’addebito che i giudici di merito hanno ritenuto provato), concettualmente assimilabile all’ipotesi del furto di denaro o di altri beni del datore di lavoro.
Ciò può legittimamente affermarsi anche senza dover necessariamente ricorrere ai concetti penalistici di furto e appropriazione indebita (aggravata ex art. 61 n. 11 cod. pen.), atteso che, in caso di licenziamento del lavoratore per abusivo impossessamento di beni o denaro aziendali, per determinare la consistenza dell’illecito non rileva, di regola, la qualificazione fattane dal punto di vista penale né lo stabilire se l’illecito integri il delitto di furto o quello di appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 11 cod. pen. (cfr. Cass. n. 5633/01): ciò che conta è che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave e irrimediabile violazione del vincolo fiduciario proprio del rapporto di lavoro, al punto che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto ai suoi obblighi lavorativi.
Ciò è stato motivatamente asserito dalla sentenza impugnata.
Infine, con la dedotta mancanza di prova del dolo il ricorso principale sconfina sul piano del merito perché in sostanza sollecita una rivisitazione delle risultanze istruttorie, operazione non consentita in sede di legittimità.
2.4. Analoga censura, sempre sotto il profilo del vizio di motivazione circa il dolo, viene svolta nel quarto motivo.
Il motivo è infondato in base a considerazioni del tutto analoghe a quelle già svolte nel paragrafo che precede sub 2.2.
2.5. Il quinto motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 2679 (rectius: 2697) cod. civ. in connessione con l’art. 5 legge n. 604 del 1966 e con l’art. 2119 cod. civ., per avere la sentenza impugnata errato nell’attribuire alla lavoratrice la prova dell’ammanco all’origine del licenziamento, a tal fine non bastando quella del mero pagamento da parte della cliente R. d’un importo superiore a quello riportato nello scontrino.
Anche tale motivo va disatteso perché, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, in realtà sollecita soltanto una nuova delibazione nel merito del materiale istruttorio.
2.6. Analoga doglianza viene fatta valere con il sesto motivo, sotto forma di vizio di motivazione.
Il motivo è infondato in base a considerazioni del tutto analoghe a quelle già svolte nel paragrafo che precede sub 2.2.
2.7. Il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 5 legge n. 604 del 1966, 7 e 18 legge n. 300 del 1970, 115 e 116 cod. proc. civ., nella parte in cui la Corte territoriale ha ravvisato una giusta causa di licenziamento nell’episodio relativo alla cliente R. nonostante la prova meramente presuntiva dell’ammanco e l’assenza di prova del dolo e la difformità tra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza.
2.8. Tale ultima doglianza viene altresì fatta valere nell’ottavo motivo sotto forma di denuncia di omesso esame d’un fatto decisivo consistente nell’inesistenza d’un programma informatico per la registrazione degli acconti.
Il settimo e l’ottavo motivo si collocano all’esterno dell’area dell’art. 360 cod. proc. civ. vuoi perché sconfinano in valutazioni di merito, vuoi perché – quanto al vizio di omesso esame – esso è altresì dedotto in modo irrituale: infatti, sempre alla luce di Cass. S.U. n. 8053/14, in tanto può sussistere il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.) in quanto si tratti d’un fatto processualmente esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).
Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6 e 369, comma 2, n. 4 cod. proc. civ.: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.
Nel caso di specie tali oneri di allegazione e produzione non risultano rispettati.
Ove, poi, il senso della doglianza dovesse intendersi riferito non all’inesistenza d’un programma informatico per la registrazione degli acconti, ma all’esistenza o meno d’un sistema informatico aziendale, deve notarsi che la relativa circostanza risulta espressamente esaminata a pag. 8 della gravata pronuncia.
2.9. Il nono mezzo deduce vizio di motivazione in ordine alla ritenuta irrilevanza dell’elemento soggettivo relativo al fatto contestato.
La censura è inconferente, poiché dalla motivazione della Corte territoriale non emerge affatto un’asserzione del genere, ma il suo contrario, atteso che i giudici d’appello hanno ravvisato una giusta causa di recesso valutando la condotta addebitata all’odierna ricorrente principale <<soggettivamente ed oggettivamente>> (v. pag. 7 della sentenza impugnata).
2.10. Con il decimo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 cod. civ., 3 legge n. 604 del 1966, 115 e 116 cod. proc. civ., in punto di ritenuta proporzionalità tra il fatto accertato e la sanzione espulsiva applicata, considerata – in particolare – l’assenza di precedenti disciplinari a carico della ricorrente.
2.11. Doglianza sostanzialmente analoga viene fatta valere con l’undicesimo mezzo, sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.
Anche il decimo e l’undicesimo mezzo vanno disattesi, perché la proporzionalità fra illecito disciplinare e relativa sanzione è stata esplicitamente valutata e motivata con riferimento alla gravità della condotta; a tal fine i giudici del reclamo hanno considerato che la lavoratrice, occupando una posizione apicale (in quanto tale investita d’un particolare rapporto fiduciario) non era assoggettata a controlli diretti.
Quanto all’assenza di precedenti disciplinari, si tratta di circostanza fattuale che può concorrere all’apprezzamento – riservato al giudice di merito – della gravità in concreto dell’infrazione disciplinare, ma che di per sé non impedisce l’applicazione di sanzione espulsiva.
Sulla non ravvisabilità del vizio di motivazione denunciato nell’undicesimo mezzo valga – poi – quanto già detto nel paragrafo che precede sub 2.2.
2.12. Il dodicesimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2 e 5 legge n. 604 del 1966, 7 e 18 legge n. 300 del 1970, 2119 e 1362 cod. civ. e 115 e 116 cod. proc. civ., poiché la Corte territoriale, nel ritenere integrata la giusta causa di licenziamento anche soltanto grazie alla prova d’uno solo dei fatti oggetto di contestazione, non ha considerato che il recesso era stato intimato dalla società proprio in ragione dell’intenzionale e ripetuta pluralità degli ammanchi di somme addebitati alla ricorrente.
Il motivo è infondato perché anche soltanto un solo grave episodio rivelatore d’una irrimediabile lesione dell’elemento fiduciario può integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso.
Il rilievo – poi – che il licenziamento fosse stato intimato a seguito della contestazione di plurimi ammanchi (pur essendone emersa la prova solo di uno all’esito dell’istruttoria di causa), che di per sé non dimostra alcun esplicito intento datoriale di non voler licenziare la dipendente nel caso in cui fosse rimasto provato uno solo degli episodi oggetto di contestazione disciplinare, scivola sul piano del merito e, in quanto tale, non può essere delibato in sede di legittimità.
2.13. Il tredicesimo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 18 legge n. 300 del 1970, degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e 2729 cod. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto provata la giusta causa di licenziamento facendo cattivo e incompleto governo delle risultanze testimoniali.
Il motivo è inammissibile perché, malgrado i riferimenti normativi, in realtà non ne evidenzia interpretazioni o giudizi di sussunzione erronei, ma in sostanza invoca solo una generale rivisitazione delle risultanze istruttorie, il che non è consentito a questa Corte Suprema.
2.14. Con il quattordicesimo motivo si deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere i giudici di merito omesso di pronunciarsi su uno specifico motivo di reclamo relativo alla mancata corrispondenza tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza.
2.15. Analoga censura viene fatta valere con il quindicesimo mezzo sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.
Entrambi i mezzi vanno disattesi.
Premesso che la denuncia di omessa pronuncia su un motivo di impugnazione va inquadrata non già sub specie di vizio di motivazione, ma soltanto come violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., a tale ultimo riguardo va segnalato che la doglianza risulta essere stata espressamente rigettata alle pagine 4-5 della sentenza impugnata, là dove i giudici del reclamo hanno espressamente escluso che vi sia stato mutamento alcuno rispetto ai fatti oggetto di contestazione disciplinare.
2.16. Il sedicesimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. per avere la Corte territoriale compensato per intero le spese di tutti i gradi e le fasi del giudizio di merito malgrado l’assenza di soccombenza reciproca, essendo stata infine accolta una delle domande formulate in subordine nell’atto introduttivo di lite.
Il motivo è fondato nei sensi qui di seguito chiariti.
Premesso che la totale compensazione delle spese di lite è stata disposta dall’impugnata sentenza in base alla ritenuta reciproca soccombenza e non per gravi ed eccezionali ragioni (secondo la formulazione dell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ. applicabile ratione temporis nel caso di specie), va considerato che il concetto di reciproca soccombenza è stato, nel corso degli anni, dilatato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema, in esso ricomprendendovi sia l’ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti sia quella di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorquando quest’ultima sia stata articolata in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata formulata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento (cfr., per tutte e da ultimo, Cass. n. 3438/2016).
Altro più remoto e meno nutrito indirizzo interpretativo ritiene, invece, che si possa parlare di reciproca soccombenza soltanto in caso di coevo rigetto (o coevo accoglimento) di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti e non anche in ipotesi di parziale accoglimento della o delle domande proposte dall’attore (cfr., per tutte, Cass. n. 12629/16).
È chiaro che nella vicenda in esame non si verte in ipotesi di domande contrapposte (non avendo la V. S.p.A. avanzato domanda riconvenzionale), sicché alla stregua di tale più remoto orientamento non soccorre il concetto di reciproca soccombenza, con conseguente cassazione della statuizione sulle spese contenuta nella sentenza qui impugnata.
Ma ad esito analogo si perviene anche adottando il più recente e nutrito indirizzo interpretativo che estende la reciproca soccombenza pure all’ipotesi di accoglimento parziale, indubbiamente verificatasi nel caso di specie, atteso che la Corte territoriale ha accolto la domanda di tutela meramente indennitaria c.d. debole o dimidiata di cui al vigente testo dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 e non la domanda, avanzata in via principale, di tutela reintegratoria.
In quest’ultima evenienza – infatti – tale estensione non va confusa con una pura e semplice sovrapposizione concettuale fra accoglimento parziale e reciproca soccombenza, nel senso che la soccombenza va individuata alla stregua del criterio di causalità sul quale si fonda la responsabilità del processo.
Tale criterio fa sì che il giudice individui la parte soccombente (obbligata a rimborsare all’altra – o alle altre – le spese anticipate nel processo) in quella che con il proprio contegno processuale e/o extraprocessuale abbia dato causa in misura prevalente all’instaurazione della lite o al suo protrarsi (cfr., ex aliis, Cass. n. 7307/11; Cass. n. 7625/10; Cass. n. 19456/08; Cass. n. 13430/07).
Ne consegue che in tanto si può disporre la totale compensazione delle spese per reciproca soccombenza in quanto si attribuisca ad entrambe le parti – e nella stessa misura – la responsabilità nell’aver dato causa alla controversia, il che la sentenza qui impugnata non ha esplicitato.
2.17. La doglianza relativa al governo delle spese viene infine fatta valere anche con il diciassettesimo mezzo sotto forma di denuncia di assenza di motivazione della disposta integrale compensazione di spese.
La disamina di tale doglianza risulta assorbita dall’accoglimento del sedicesimo motivo del ricorso principale, come chiarito nel paragrafo che precede sub 2.16.
3.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale si lamenta violazione degli artt. 7 legge n. 300 del 1970 e 2697 cod. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ravvisato la prova della mancata audizione della lavoratrice nella sola testimonianza del sindacalista di fiducia di F.V., trascurando considerazioni logiche che avrebbero dovuto indurre i giudici di merito a dubitare della sua attendibilità.
Il motivo va disatteso perché, per costante insegnamento giurisprudenziale, la valutazione di attendibilità d’una deposizione testimoniale involge un giudizio sul fatto, in quanto tale riservato al giudice di merito (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 19011/17).
3.2. Con il secondo motivo del ricorso incidentale ci si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ., 416, 244 e 421 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto nulla la deposizione del teste Abate (indicato dalla società e che aveva riferito che la lavoratrice era stata effettivamente ascoltata nel corso dell’iter disciplinare) in quanto non indicato nella lista testi: obietta a riguardo la ricorrente incidentale che la Corte felsinea avrebbe, invece, dovuto consentire alla società di integrare detta lista.
Il motivo è inammissibile perché non confuta con specifiche argomentazioni anche l’altra concorrente ratio decidendi espressa a riguardo dalla Corte territoriale e cioè che, nel contrasto fra due deposizioni (s’intende, sempre che il giudice di merito non riesca a formulare un giudizio di inattendibilità e/o inaffidabilità riguardo a nessuna delle due), si applica la regola dell’onere probatorio, onere probatorio che, avendo ad oggetto il rispetto dell’iter disciplinare, gravava sul datore di lavoro.
Poiché tale ultima ratio decidendi non è stata specificamente confutata dalla ricorrente incidentale, nel caso di specie deve darsi seguito alla costante giurisprudenza di questa S.C. secondo cui, ove venga impugnata una statuizione fondata su più ragioni argomentative, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura; diversamente, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, censura che, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso la cassazione della sentenza (v., ex aliis, Cass. 25.2.13 n. 4672; Cass. 3.11.11 n. 22753 e Cass. S.U. 8.8.2005 n. 16602).
4.1. In conclusione, si accoglie il sedicesimo motivo del ricorso principale, si rigettano i primi quindici e si dichiara assorbito il diciassettesimo, si rigetta il ricorso incidentale e si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.
Decidendo nel merito ex art. 384, comma 2, cod. proc. civ. (non essendo necessari accertamenti in fatto), questa Corte definisce il governo delle spese delle fasi e dei gradi del presente processo (regolato dalle disposizioni contenute nell’art. 1, commi 48 e ss. legge n. 92 del 2012) come da dispositivo, previa compensazione per un terzo delle spese medesime in ragione del rilievo che la prevalente responsabilità nell’aver determinato la controversia va attribuita alla V. S.p.A. per aver intimato un licenziamento disciplinare pur sempre illegittimo per un vizio del relativo procedimento.
P.Q.M.
Accoglie il sedicesimo motivo, rigetta i primi quindici, dichiara assorbito il diciassettesimo, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, compensate per un terzo le spese di lite, condanna la V. S.p.A. ai restanti due terzi delle spese del doppio grado di merito, della fase a cognizione sommaria ex lege n. 92/12 e del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e 1.000,00 per compensi professionali per la fase a cognizione sommaria, in euro 100,00 per esborsi e 1.500,00 per compensi professionali per il primo grado e in euro 100,00 per esborsi e 2.000,00 per compensi professionali per l’appello, nonché – per il giudizio di legittimità – in euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall’art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.
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