CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 novembre 2019, n. 29897
I.N.P.D.A.P. – Portiere di stabili – Dismissione degli immobili di proprietà dell’ente – Svolgimento mansioni di ausiliario di amministrazione – Differenze retributive
Fatti di causa
1. R. L. V., assunto dall’I.N.P.D.A.P. nell’anno 1997, con contratto che prevedeva lo svolgimento di mansioni di portiere di stabili e l’applicazione del C.C.N.L. di diritto privato per i dipendenti di proprietari di fabbricati, nel gennaio 2001, a seguito della dismissione degli immobili di proprietà dell’ente, fu assegnato allo svolgimento di mansioni di ausiliario di amministrazione presso gli uffici della Presidenza dell’Istituto.
Nonostante il mutamento di mansione, egli continuò a percepire il trattamento originario di cui al C.C.N.L. di diritto privato sopra detto fino a quando, con decorrenza dal 31.12.2003 fu collocato in soprannumero nell’Area A, posizione economica Al, dell’ordinamento dell’ente, iniziando a percepire la corrispondente maggiore retribuzione.
Egli ha quindi agito in giudizio, chiedendo il riconoscimento delle differenze retributive tra quanto corrisposto e quanto previsto per le mansioni effettivamente svolte (Area A cat. Al del C.C.N.L. degli Enti pubblici non economici) a partire dal 2.1.2001.
2. La domanda, accolta in primo grado veniva invece respinta della Corte d’Appello di Roma.
La Corte di merito riteneva, sulla base della ricostruzione dell’iter normativo riguardante i portieri degli immobili dagli enti previdenziali, la legittimità del trattamento ricevuto.
3. Il L. V. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, resistiti da controricorso dell’I.N.P.S., subentrato ex lege all’I.N.P.D.A.P., poi illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione dell’art. 43, co. 19, L. 388/2000,. quale norma che, nello stabilire che i dipendenti già addetti al portierato restavano alle,dipendenze degli enti previdenziali anche dopo la dismissione degli immobili, avrebbe a suo dire fatto venire meno ex lege la natura privatistica del rapporto di lavoro.
Il secondo motivo afferma invece, ancora ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione, nel caso di ritenuta inefficacia dell’art. 43 cit. nel senso rivendicato con il primo motivo, dell’art. 2126 c.c., per essersi determinato il sorgere di un rapporto di pubblico impiego di fatto, da remunerare, anche per ragioni di parità di trattamento, secondo quanto per esso previsto dal corrispondente C.C.N.L.
2. Il primo motivo è fondato ed assorbente.
3. In proposito, è consolidato l’orientamento di questa Corte secondo cui, pur dopo la privatizzazione del pubblico impiego, non è impedita la stipula di contratti di lavoro con la P.A destinati ad essere regolati dalla sola disciplina privatistica e non dalla normativa generale, da ultimo contenuta nel d. lgs. 165/2001.
Ciò è ammesso quando vi sia una norma che lo preveda (v. Cass., S.U., 15 aprile 2010, n. 8985) ipotesi che anzi, ove sussistente, anche dopo la contrattualizzazione dell’impiego pubblico non consente una diversa qualificazione del rapporto stesso, in ipotesi sviluppata valorizzando la natura del datore di lavoro e lo stabile inserimento nell’organizzazione amministrativa dell’ente, perché risulta essere prevalente, rispetto a detti criteri, la definizione normativa (da ultimo Cass. 22 novembre 2018, n. 30271; in precedenza, Cass., S.U., 8985/2010 cit.; Cass., S.U., 24 novembre 2009, n. 24670).
Al contempo si è altresì precisato che la disciplina generale sulla privatizzazione del pubblico impiego (qui da riferire al d. lgs. 29/1993 ed al d. lgs. 165/2001) può non essere applicata allorquando i rapporti di lavoro – ritenuti afferire a casi «marginali e sostanzialmente anomali» – siano intrattenuti per ragioni non riconducibili alle specifiche finalità istituzionali dell’ente interessato (Cass. 27 giugno 2007 n. 14809).
Tutti i casi predetti possono essere riportati al pubblico impiego (v., proprio con riferimento ai portieri degli enti previdenziali, ai fini del riparto di giurisdizione a favore del giudice amministrativo secondo le regole dell’epoca, tra le molte, Cass., S.U., 28 novembre 1990, n. 11459), ma si caratterizzano per l’eccezionale destinazione ad un regolamento negoziale di stampo esclusivamente privatistico (v., sempre rispetto ai portieri, Cass. 22 aprile 2010, n. 9555, che ha ritenuto il rapporto a tempo determinato di pubblico impiego ma soggetto a disciplina secondo le regole del rapporto privato, tra cui la conversione a tempo indeterminato).
La vicenda oggetto di causa si inserisce coerentemente in tale quadro di fondo, in quanto la sottrazione della disciplina a quella propria dei rapporti di lavoro con l’ente pubblico di riferimento fu ab origine impostata dall’art. 51 d.p.r. 411/1976, secondo cui la disciplina del rapporto di lavoro pubblico, nell’ambito qui interessato del c.d. parastato, non si applicava «ai dipendenti con rapporto di lavoro regolato da contratti collettivi di diritto privato e instaurato per lo svolgimento di attività privatistiche dell’ente o per servizi di istituto del tutto peculiari».
3.1 Vi è però necessità di definire che cosa accada, rispetto ai rapporti di lavoro così instaurati, se, dopo l’assunzione, segua (fin dall’inizio o in corso di rapporto) l’adibizione a mansioni diverse da quelle per le quali vi fu l’eccezionale instaurazione in forme privatistiche ed in particolare se vi sia assegnazione a compiti inerenti all’attività amministrativa tipica dell’ente pubblico considerato.
In proposito va intanto detto che il rapporto di pubblico impiego privatizzato, di cui al d. lgs. 29/1993 e 165/2001, sorge in stretta relazione tra una dotazione organica (art. 4 d. lgs. 165/2001, già art. 6 d. lgs. 29/1993) e lo svolgimento di procedure concorsuali o selettive (art. 35 d. lgs. 165/2001, già art. 36 d. lgs. 29/1993), secondo una dinamica indirizzata al perseguimento degli scopi istituzionali dei diversi enti e quindi tendenzialmente destinata a rimanere estranea alle ipotesi eccezionali qui in esame.
Affinché un rapporto instaurato nelle forme esclusivamente privatistiche possa evolversi in un rapporto tipico di pubblico impiego privatizzato, non è dunque sufficiente che, di fatto, vi sia svolgimento di mansioni inerenti all’attività amministrativa propria dell’ente di riferimento, occorrendo quanto meno una previsione normativa che disponga in tal senso, anche in ragione dell’eventuale assenza di un originario concorso o selezione pubblica ed in linea con la previsione dell’art. 97, u.c. ultima parte Cost.
3.2 Nel caso dei contratti di diritto privato di chi sia stato assunto come portiere di un ente previdenziale, tale previsione normativa è da ravvisare nell’art. 43, co. 19, L. 388/2000, secondo cui «i lavoratori, già dipendenti degli enti previdenziali, addetti al servizio di portierato o di custodia e vigilanza degli immobili che vengono dismessi, di proprietà degli enti previdenziali, restano alle dipendenze dell’ente medesimo».
Tale norma, prevedendo la prosecuzione dei rapporti di lavoro instaurati in forme esclusivamente privatistiche, pur con l’adibizione a mansioni diverse e dunque attinenti all’attività amministrativa propria dell’ente datore di lavoro, comporta il fuoriuscire dei rapporti stessi dall’ambito di quel riferimento ad attività «privatistiche dell’ente o servizi di istituto del tutto peculiari» che, come detto, ai sensi dell’art. 51 d.p.r. 411/1976, caratterizzava le eccezionali ipotesi di contratti di caratura esclusivamente civilistica.
Poiché non vi è dubbio che la disciplina del lavoro pubblico privatizzato, di cui al d.lgs. 29/1993 ed al d.lgs. 165/2001, costituisca /ex generalis, l’effetto dell’assegnazione ex lege a mansioni proprie dell’attività amministrativa tipica dell’ente di riferimento porta naturalmente con sé la corrispondente trasformazione del rapporto di lavoro, che resta dunque ricondotto alle forme comuni dell’impiego pubblico privatizzato.
Pertanto, anche la successiva aggiunta apportata all’art. 43, co. 19, cit. dall’art. 7, co. 4, L. 3/2003, secondo cui «si applica quanto disposto dagli artt. 33 e 34 del d. lgs. 20 marzo 2001, n. 165», costituisce precisazione normativa di uno sviluppo già insito nella pregressa disposizione dell’art. 43 nella originaria formulazione.
4. Deve dunque ritenersi che, a far data da tale trasformazione ex lege, spetti al dipendente l’inquadramento e la retribuzione secondo quanto previsto dal pertinente C.C.N.L. degli enti pubblici non economici.
5. La sentenza impugnata, essendosi discostata dai principi quali sopra ricostruiti, va dunque cassata, con rinvio alla medesima Corte territoriale, in diversa composizione, che giudicherà facendo applicazione dei principi di cui sopra.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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