CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 ottobre 2019, n. 26614
Rapporto di lavoro – Animatori turistici – Infortunio sul lavoro – Decesso – Responsabilità solidale
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 880/2017, rigettava gli appelli proposti da I.V. s.r.l. e H.T.S. s.r.l. in liquidazione, e così confermava la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Bologna che, riconosciuta la responsabilità solidale delle società convenute per il decesso di S.G. e A.B., le aveva condannate al pagamento, in favore dei congiunti (genitori e fratelli) delle due vittime, a titolo risarcitorio per perdita del rapporto parentale, delle somme specificate nella sentenza impugnata.
1.1. Il Tribunale aveva accolto la domanda proposta iure proprio dai prossimi congiunti dei due giovani, deceduti nell’infortunio sul lavoro avvenuto la mattina di Capodanno del 2006 in Egitto, in area desertica non distante da Sharm el-Sheikh, mentre svolgevano la loro attività di animatori turistici.
2. La ricostruzione dei fatti emergente dalla sentenza di appello è, in sintesi, la seguente: il giorno 31 dicembre 2005, gli animatori, dopo avere prestato regolarmente la propria attività all’interno del villaggio, dalle ore 9,00 alle ore 12,30 e poi dalle ore 14,30 alle ore 16,30, si erano dedicati, a partire dalle ore 18,00 circa, alla preparazione dello spettacolo serale; il loro lavoro era proseguito ancora con l’animazione del cenone e con il successivo spettacolo fino alle ore 1,30 circa; successivamente il programma per i turisti della I.V. s.r.l. prevedeva discoteca e “motorata” nel deserto; su disposizione dei coordinatori – o comunque almeno del coordinatore della I.V. s.r.l., gli animatori avevano accompagnato i turisti in discoteca e quindi, dopo un tragitto in autobus, alla “motorata” con specifico riferimento alla quale la soc. I.V., pur avvalendosi di guide locali, aveva programmato l’iniziativa, curato l’organizzazione e riscosso il corrispettivo; nel deserto ai due animatori era stato dato il compito di sorvegliare la carovana e, da un certo punto in poi, di posizionarsi in coda per controllare che nessuno deviasse dal percorso stabilito; la “motorata”, con inizio alle 4:00 del mattino e termine oltre le 8:00, si caratterizzava come un’attività richiedente estrema concentrazione e attenzione, sia per la conduzione stessa di mezzi, sia per la posizione di controllo che i due animatori avevano rispetto ai turisti accompagnati, sia ancora per l’intrinseca pericolosità dell’attraversamento di strade percorse dal traffico veicolare.
3. La Corte di appello riconosceva la responsabilità delle due società sulla base dei seguenti argomenti.
3.1. Alla luce della rilettura delle risultanze testimoniali, i due animatori svolgevano l’attività sotto le direttive impartite loro dall’incaricato della s.r.l. H.T.S., ma anche dal preposto della s.r.l. I.V.. La funzione di direzione in capo a quest’ultima società risultava poi ancor più manifesta in relazione alle attività “promozionali”, esulanti dall’attività di animazione “ordinaria” all’interno del villaggio, per le quali la s.r.l. I.V. fruiva ordinariamente del servizio di animazione fornito dalla s.r.l. H.T.S.. In relazione agli obblighi di cui all’art. 2087 cod. civ., la I.V. s.r.l. assumeva una posizione simile a quella configurabile in un rapporto di appalto, soprattutto la luce dell’accertato esercizio di fatto di un potere di direzione sugli animatori.
3.2. In sostanza, le due società, in sinergia e collaborazione tra loro, si occupavano la s.r.l. H.T.S. della selezione, del reclutamento e dell’assegnazione dei ragazzi alle diverse destinazioni, mentre la s.r.l. I.V. fruiva direttamente delle prestazioni degli animatori per i propri scopi imprenditoriali. Anche non ravvisandosi un formale rapporto di appalto, in mancanza di qualsiasi evidenza contrattuale – ed anche perché l’articolazione delle due società risultava meramente fittizia, strumentale e simulata esistendo per contro un’unica organizzazione all’interno della quale vi era totale commistione di funzioni, ruoli e prerogative -, comunque la tutela antinfortunistica spetta a tutti gli addetti, anche solo di fatto, ad un’attività lavorativa, a prescindere dalla formale assunzione al lavoro e anche dall’eventuale mancato perfezionamento del contratto, purché sia provata la consapevolezza dell’imprenditore circa l’attività svolta dal prestatore d’opera, poi infortunatosi. Nella fatale escursione nel deserto, la S.r.l. I.V. aveva sugli animatori, anche di fatto, un potere di direzione diretto e non mediato dalla H.T.S., con conseguente superamento del problema di configurare l’assetto dei rapporti sottostanti tra le due imprese.
3.3. La responsabilità ex art. 2087 cod. civ. è ravvisabile nelle modalità organizzative, da ritenere carenti, essendo state previste solo due guide egiziane a fronte di un numero elevato di partecipanti, suddivisi in gruppi, contraddistinti a seconda del tour operator di appartenenza e avuto riguardo alla situazione concreta, ossia al turno notturno in deserto, percorso da strade non conosciute ad alta densità di traffico pesante, in condizioni di lavoro non rispettose degli obblighi di protezione dell’incolumità dei dipendenti, considerando anche la verosimile stanchezza fisica degli stessi per le attività lavorative pregresse. Nessuna condotta avente il carattere dell’abnormità era ascrivibile ai due animatori, essendo “al contrario emersi come elementi determinanti del sinistro mortale le loro condizioni di estrema stanchezza e la circostanza decisiva di trovarsi posizionati, conformemente alle istruzioni ricevute, in coda alla carovana, al momento dell’attraversamento dell’autostrada”.
3.4. I due animatori presero parte alla “motorata” e si trovavano in coda alla carovana per “chiuderla” in ciò con la consapevolezza, da parte di I.V., decisiva ai fini della mancata adozione delle cautele, che i due avevano “accumulato ben quattordici ore di lavoro consecutive, dalle ore 18,00 del 31 dicembre, quando avevano cominciato ad attendere ai preparativi dello spettacolo serale, e per tutta la notte sino alle ore 8,00 circa della mattina successiva, momento dello scontro”.
4. Per la cassazione di tale sentenza la s.r.l. I.V. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi, cui hanno resistito gli eredi G. e B.. Il ricorso è stato altresì notificato alla società H.T.S., condannata in solido al risarcimento dei danni.
5. Il difensore della s.r.l. I.V. ha rappresentato, mediante deposito di nota in cancelleria corredata da documenti, di avere rinunciato al mandato difensivo a suo tempo conferitogli dal legale rappresentante della società.
Ragioni della decisione
1. Preliminarmente, riguardo alla intervenuta rinuncia al mandato di cui alla nota dei difensori di parte ricorrente (corredata di documenti attestanti le comunicazioni alla società I.V. della intervenuta rinuncia al mandato difensivo con invito alla nomina di nuovo difensore), nella giurisprudenza di legittimità è stato posto in rilievo che la rinunzia al mandato da parte del difensore (come del pari la revoca della procura da parte del cliente) a norma dell’art. 85 cod. proc. civ., non fa perdere al procuratore rinunziante (o revocato) lo ius postulameli e la rappresentanza legale del cliente per tutti gli atti del processo fino a quando non si sia provveduto alla sua sostituzione con un altro procuratore, sicché per effetto del principio della c.d. perpetuano dell’ufficio di difensore la rinunzia (così come la revoca) non ha efficacia alcuna nel processo e non determina la relativa interruzione fino a quando non sia avvenuta la sostituzione del difensore (cfr. da ultimo Cass. n. 16991 del 2015, che richiama Cass. n. 9568 del 2013, n. 23324 del 2012, n. 16121 del 2009, n. 2309 del 2010, n. 11303 del 1995). Neppure è configurabile una lesione dei diritti processuali della parte con riferimento all’avviso di udienza, non essendovi necessità di effettuare la comunicazione alla parte personalmente, in quanto l’art. 377 cod. proc. civ., prevede l’avviso dell’udienza di discussione solo per le parti costituite agli avvocati di dette parti (in tal senso, Cass. n. 16121 del 2009, in motivazione).
2. Tanto premesso, con il primo motivo si denuncia violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.). Si deduce che la società I.V. era stata citata in giudizio come gestore della struttura alberghiera e datrice di lavoro dei signori G. e B. e quindi come diretta responsabile della sicurezza dei luoghi di lavoro e non già come presunta committente di H.T.S.. La Corte di appello aveva pronunciato oltre i limiti della domanda proposta, ipotizzando una sorta di contratto di appalto tra le due società convenute.
3. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 cod. civ., nonché motivazione apparente o contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione in relazione alle modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative degli animatori, per non avere la sentenza adeguatamente chiarito se abbia ritenuto di condannare essa ricorrente in qualità di datrice di lavoro oppure in qualità di committente in un contratto di appalto o ancora come fruitrice del servizio o quale società collegata con H.T.S. e se quest’ultima sia stata ritenuta società monomandataria o articolazione fittizia e strumentale della prima.
4. Con il terzo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) in ordine alla mancata individuazione del soggetto preposto o incaricato di esercitare il potere di direzione sull’attività dei due animatori nonché in ordine alla dinamica del sinistro, atteso che la I.V. s.r.l. non avrebbe potuto adottare alcuna misura idonea a scongiurare l’incidente stradale e non potendo la società rispondere a titolo di responsabilità oggettiva.
5. Il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 2087 cod. civ., poiché, ove il ruolo della società ricorrente fosse stato – come ipotizzato nella sentenza impugnata – quello di garante dell’osservanza delle misure di sicurezza da parte del datore di lavoro, e ciò in forza del ruolo di committente nei confronti della H.T.S., comunque occorrerebbe la dimostrazione di una concreta ingerenza sull’attività dell’appaltatore oppure la configurabilità di una culpa in eligendo, tutti presupposti sui quali era mancato qualsiasi accertamento.
6. Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. in combinato disposto con gli artt. 1226, 2043, 2056, 2059, 2697, 2727 e 2729 cod. civ. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.). La sentenza del Tribunale, confermata dalla Corte di appello, ha accertato e liquidato i danni asseritamente patiti dai congiunti di B. e di G. in assenza di qualsivoglia allegazione e prova, ricorrendo alla prova per presunzioni e alla liquidazione equitativa in difetto dei relativi presupposti.
7. I primi quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto tra loro connessi. Essi sono infondati, al pari del quinto, da esaminare separatamente.
8. Innanzitutto, contrariamente a quanto sostenuto dalla odierna ricorrente, la sentenza impugnata ha accertato che i due animatori, rimasti vittima di infortunio mortale sul lavoro, eseguivano le direttive loro impartite sia dall’incaricato della s.r.l. H.T.S., sia dal preposto della s.r.l. I.V. e che, secondo le risultanze istruttorie, l’ingerenza della I.V. era ancora più pregnante in relazione alle attività “promozionali”, esulanti dall’attività di animazione “ordinaria” all’interno del villaggio turistico. In particolare, la s.r.l. I.V. esercitava sugli animatori un potere di direzione diretto e non mediato dalla H.T.S..
9. La Corte territoriale ha altresì osservato che, ai fini dell’assunzione della responsabilità ex art. 2087 cod. civ., non rilevava l’accertamento in concreto del rapporto sottostante tra le due società, che comunque operavano in sinergia e collaborazione tra loro. Era invece rilevante la commistione dei ruoli tra i preposti, atteso che la tutela antinfortunistica riguarda tutti gli addetti, anche solo di fatto, ad un’attività lavorativa, a prescindere dalla forma di assunzione al lavoro ed anche in caso di mancato perfezionamento del contratto, purché sia provata la consapevolezza dell’imprenditore circa l’attività svolta dal prestatore d’opera, poi infortunatosi.
9.1. Tale ricostruzione giuridica è conforme a diritto, in quanto, in tema di infortuni sul lavoro, quando un danno di cui si chiede il risarcimento è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta contribuisce alla produzione dell’evento dannoso, si configura una responsabilità solidale ai sensi dell’art. 1294 cod. civ. fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ciascuno di essi è chiamato a rispondere, dal momento che, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, alla luce dei principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dei danni (patrimoniali e non) da risarcire (Cass. n. 8372 del 2014).
9.2. La questione dell’esatta configurabilità del rapporto sottostante tra le due società è di scarso rilievo, atteso che, anche ove si dovesse configurare in capo alla attuale ricorrente una posizione committente, comunque resterebbe applicabile la tutela di cui all’art. 2087 cod. civ. – che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all’imprenditore l’adozione di misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro -, poiché anche il committente è tenuto al dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori pure se non dipendenti da lui, ove egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico – organizzativi dell’opera da eseguire (Cass. n. 17092 del 2012, n. 21694 del 2011, 22818 del 2009).
9.3. Il principio sopra esposto è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, per cui, ai sensi degli artt. 2087 cod. civ. e 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, che disciplina l’affidamento di lavori in appalto all’interno dell’azienda, il committente, nella cui disponibilità permanga l’ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell’impresa appaltatrice, e che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l’appaltatrice nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata (Cass. n. 5419 del 2019, n. 798 del 2017).
9.4. Risulta dal complesso motivazionale della sentenza e alla luce degli accertamenti di merito che l’attuale ricorrente si era resa garante della vigilanza relativa alle misure di sicurezza da adottare in concreto, essendosi riservata i poteri tecnico-organizzativi del servizio turistico da eseguire.
10. Per quanto attiene agli elementi costitutivi della responsabilità per la morte del lavoratore, il requisito soggettivo della colpa è integrato dalla violazione, da parte del datore di lavoro, delle regole cautelari di prevenzione evocate dall’art. 2087 cod. civ., strettamente correlate, in termini di ragionevole prevedibilità, alla verificazione dell’evento in quanto fondate, se non sulla certezza scientifica, sulla probabilità o possibilità – concreta e non ipotetica – che la condotta considerata determini l’evento (Cass. n. 5813 del 2019).
10.1. Nell’accertamento condotto dalla Corte di appello alla stregua delle risultanze di causa, è stata ravvisata la prevedibilità dell’evento nelle modalità organizzative, da ritenere carenti e non adeguatamente calibrate alle condizioni di tempo e di luogo, avuto riguardo alla situazione concreta, ossia al turno notturno nel deserto, su percorso costituito da strade non conosciute e ad alta densità di traffico pesante, in condizioni di lavoro non rispettose degli obblighi di protezione dell’incolumità dei dipendenti. Nessuna condotta abnorme era ascrivibile ai due animatori, atta ad interrompere il nesso causale tra condotta colposa ed evento, mentre al contrario il giudizio aveva fatto emergere come elementi determinanti del sinistro mortale le condizioni di stanchezza accumulata dalle giovani vittime, l’orario notturno e lo stato dei luoghi nonché la carente organizzazione della escursione.
11. In ordine alla denuncia di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, giova ribadire che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. S.U. n. 8053 del 2014).
11.1. Orbene, non è stato chiarito innanzitutto quali sarebbero i fatti decisivi omessi, tenuto conto che la Corte di appello ha compiutamente esaminato i fatti di causa fornendone una logica e coerente lettura interpretativa alla luce delle risultanze istruttorie. Nel contestare tale soluzione, parte ricorrente denuncia un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini di una alternativa ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di sollecitare una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal giudice del merito.
12. Nessun vizio di extrapetizione ex art. 112 cod. proc. civ. è ravvisabile nella specie. La domanda di risarcimento dei danni proposta iure proprio dai congiunti delle due vittime, quali portatori di un autonomo diritto che ha la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 cod. civ., pone a suo fondamento il nesso eziologico tra decesso cagionato da colpa datoriale per inadempimento contrattuale ed evento lesivo, costituito dalla perdita del congiunto. Tanto l’elemento della colpa quanto il nesso di causalità, elementi costitutivi del diritto azionato, sono stati accertati nella sentenza impugnata, con giudizio immune da vizi logici o giuridici.
13. In merito alla prova del danno, la sentenza impugnata ha dato atto che il primo giudice era ricorso alla prova presuntiva ex art. 2727 cod. civ. considerato che, secondo un criterio di normalità, tra i più stretti congiunti e la vittima, esiste, oltre al legale di parentela, un profondo legame affettivo, sul quale il fatto luttuoso va ad incidere, determinando un grave perturbamento dell’animo. Su tale base ha poi ritenuto che la prova specifica e rigorosa è richiesta solo quando, oltre al danno da lesione del rapporto parentale, inquadrato nell’ambito della categoria giuridica del danno non patrimoniale e identificabile nella sofferenza morale indotta dall’evento luttuoso, siano dedotte ulteriori, diverse ed autonome voci di danno, quali ad esempio il danno biologico o il danno correlato ad altre perdite di ordine morale soggettive, richieste non avanzate dagli attori.
13.1. Tale ordine argomentativo è conforme a diritto, in quanto nel giudizio risarcitorio instaurato dagli eredi, nonché prossimi congiunti di un lavoratore deceduto a seguito di infortunio sul lavoro, la prova del danno non patrimoniale da sofferenza interiore per la perdita del familiare può essere fornita mediante presunzione fondata sull’esistenza dello stretto legame di parentela riconducibile all’interno della famiglia nucleare, superabile dalla prova contraria, gravante sul danneggiante, imperniata non sulla mera mancanza di convivenza (che, in tali casi, può rilevare al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione), bensì sull’assenza di legame affettivo tra i superstiti e la vittima nonostante il rapporto di parentela (Cass. n. 29784 del 2018).
13.2. Tale pronuncia si innesta nell’orientamento di questa Corte secondo cui la sussistenza del danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva, che deve essere cercata anche d’ufficio, se la parte abbia dedotto e provato i fatti noti dai quali il giudice, sulla base di un ragionamento logico-deduttivo, può trarre le conseguenze per risalire al fatto ignorato (Cass. n. 17058 del 2017). Nel contesto di tale indirizzo, si è affermato che l’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 cod. civ., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra foro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo (Cass. n. 3767 del 2018). Dunque, il danno può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta (Cass. n. 11212 e 2788 del 2019).
13.3. A fondamento di tale orientamento sta la considerazione che è ben vero che in linea generale spetti alla vittima d’un fatto illecito dimostrare i fatti costitutivi della sua pretesa, e di conseguenza l’esistenza del danno; tuttavia, tale prova l può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, ovvero invocando massime di esperienza e l’ id quod plerumque accidit. Per cui, nel caso di morte di un prossimo congiunto, l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza e, di norma, connaturale all’essere umano. Naturalmente si tratterà pur sempre d’una praesumptio hominis, con la conseguente possibilità per il convenuto di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite (cfr. Cass. 3767 del 2018, in motivazione).
13.4. Secondo tale orientamento, condiviso dal Collegio, non spettava ai congiunti delle due giovani vittime provare di avere sofferto per la morte dei rispettivi figli e fratelli, ma sarebbe stato onere di parte convenuta provare che, nonostante il rapporto di parentela, fosse insussistente un legame affettivo. Nel caso in esame, la prova gravante sulla parte danneggiante non è stata in alcun modo offerta – e invero neppure allegata -, come indirettamente si evince non solo dall’ordine argomentativo della sentenza impugnata, ma anche dal tenore dello stesso ricorso per cassazione.
14. In ordine alla quantificazione del danno non patrimoniale, la sentenza impugnata ha evidenziato come il giudice di primo grado non fosse incorso in alcuna indebita duplicazione di voci di danno. Ha poi argomentato che la liquidazione “si dimostra assolutamente congrua ed equilibrata, in relazione alle circostanze del caso concreto, quali l’età delle vittime, il grado di parentela e le particolari condizioni della famiglia, debitamente prese in considerazione e assunte a riferimento della quantificazione equitativa delle somme dovute” (sent. imp.).
14.1. In tema di risarcimento del danno per fatto illecito, la liquidazione del danno non patrimoniale, consistente nell’ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato in conseguenza dell’illecito, sfugge necessariamente ad una precisa valutazione analitica e resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice del merito, come tali non sindacabili in sede di legittimità (Cass. n. 6519 del 2004). La liquidazione del danno morale iure proprio sofferto per il decesso di un familiare causato del fatto illecito altrui (nella specie, per sinistro stradale) sfugge necessariamente ad una previa valutazione analitica e resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito, come tali non sindacabili in sede di legittimità, perché, nonostante l’inquadramento del diritto all’integrità psicofisica della persona nell’ambito esclusivo del combinato disposto degli artt. 2059 cod. civ. e 32 Cost. (nonché delle altre norme costituzionali poste a presidio della detta integrità personale), rimangono validi tutti i principi generali elaborati in tema di quantificazione del danno morale, oltre che di quello biologico (Cass. n. 23053 del 2009).
15. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
16. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.