CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 ottobre 2022, n. 30558
Licenziamento – Reati di abuso di ufficio e falso in atto pubblico – Repentina interruzione del rapporto di lavoro – Ferie non godute – Diritto alla corresponsione dell’indennità sostitutiva
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza n. 2340 del 2018, la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’impugnazione proposta da A.R. nei confronti di C. S.p.A., confermando la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto legittima la irrogazione al lavoratore del licenziamento per giusta causa in considerazione del rinvio a giudizio dell’appellante: in particolare, il R. era stato imputato per concorso nel reato di abuso di ufficio, in veste di Amministratore Delegato, in ordine ad una serie di irregolarità nella procedura di selezione di venti operatori qualificati con contratto a tempo indeterminato e cinquanta con contratto di apprendistato, secondo la delibera del C.d.A. n. 21 del 2008, nonché per concorso nel reato di falso in atto pubblico in riferimento ai verbali di commissione di esame e di formazione della graduatoria finale.
1.1. Segnatamente, la Corte aveva condiviso l’iter motivazionale del Tribunale, che aveva ritenuto infondata l’eccezione del lavoratore relativa alla tardività della contestazione disciplinare del 5 giugno 2015 – per essere decorsi tre anni dalla conclusione dell’indagine svolta da una Commissione d’inchiesta interna alla Società e relativa alla irregolarità nelle assunzioni – facendo essa seguito al rinvio a giudizio del R. del 5 febbraio 2015 e non essendo emersi elementi che deponessero per il coinvolgimento del ricorrente nella fase precedente.
1.2. Era stata, inoltre, ritenuta priva di fondatezza anche l’eccezione riguardante la genericità della contestazione e rigettata la domanda del dipendente volta al pagamento dell’indennità delle ferie non godute nell’anno 2015.
2. Per la cassazione della pronuncia propone ricorso A.R., affidandolo a quattro motivi.
2.1. Resiste, con controricorso, C. S.p.A.
3. Il Procuratore Generale ha concluso chiedendo il rigetto dei primi tre motivi e raccoglimento del quarto.
Considerato in diritto
1.Con il primo motivo di ricorso si censura la decisione impugnata, ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7, Legge n. 300 de 1970 e 2697 c.c., per aver la Corte ritenuto infondata l’eccezione di tardività della lettera di contestazione disciplinare.
1.1. Con il secondo motivo si denuncia, ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 132, n. 4 c.p.c., nonché dell’art. 118, comma 1, Disp. Att. c.p.c., con conseguente nullità della sentenza ex art. 156, comma 2 c.p.c., per avere il giudice del gravame confermato il rigetto della eccezione sulla genericità della contestazione disciplinare.
1.2. Con il terzo motivo di ricorso si allega, ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, n. 4 c.p.c. e dell’art. 118, comma 1, Disp. Att. c.p.c., con conseguente nullità della sentenza ex art. 156, comma 2 c.p.c., nonché la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e 5, Legge n. 604/1966, in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per aver la Corte ritenuto che l’assunzione irregolare di un numero superiore di unità lavorative rispetto a quelle autorizzate dal C.d.A. integrasse la fattispecie della giusta causa del licenziamento.
1.3. Con l’ultimo motivo di ricorso si contesta, ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 5, comma 8, D.L. n. 95 del 2012 (conv. Con modificazioni nella L. n. 135 del 2012) con riferimento all’art. 36, comma 3 Cost., per avere la Corte territoriale respinto la domanda diretta al pagamento dell’indennità per le ferie non godute nell’anno 2015.
2. Il primo motivo di ricorso è infondato.
2.1. Va preliminarmente rilevato, relativamente alla denunziata violazione dell’art. 2697 cod. civ., che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (exp/unMis, Cass. n. 18092 del 2020) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, in particolar modo in quanto, pur veicolando parte ricorrente la censura per il tramite della violazione di legge, essa, in realtà mira ad ottenere una rivisitazione del fatto, inammissibile in sede di legittimità.
2.1.1. G., poi, premettere che il principio di immediatezza implica che il datore di lavoro proceda alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore e, in particolare, il suo affidamento sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore di lavoro alla condotta inadempiente (fra le tante, V. Cass. n. 29627 del 2018).
Trattasi, come noto, di criterio relativo, poiché deve correlarsi con la specifica natura dell’illecito disciplinare, con l’avvenuta conoscenza dei fatti ascrivibili al lavoratore da parte del datore di lavoro, con il tempo occorrente per l’espletamento delle indagini e con la complessità (o meno) dell’organigramma aziendale (expurimis, Cass. n. 11933 del 2003; V., altresì, Cass. n. 35564 del 2021); in particolare, questa Corte ha affermato che il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito, che si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tenere conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale (così, Cass. n. 1248 del 2016).
2.1. L’accertamento del tempo in cui il datore di lavoro è venuto a conoscenza della riprovevole condotta del lavoratore risulta di fondamentale importanza, di talché il lasso temporale preso in considerazione non decorre dalla astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti addebitati all’imputato, ma dalla sua avvenuta conoscenza.
Invero, il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini della valutazione dell’immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall’avvenuta compiuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore di lavoro deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore, non potendosi ragionevolmente imputargli la possibilità di conoscere i fatti in precedenza e di contestarli immediatamente al lavoratore (V. Cass. n. 28974 del 2017).
Trattasi di valutazione di fatto il cui apprezzamento è riservato al giudice di merito, talché lo stesso, ove non implausibile, deve reputarsi sottratto al sindacato di legittimità (cfr. Cass. n. 11933 del 2003).
In particolare, poi, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, ove il fatto di valenza disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non è violato qualora il datore abbia scelto di attendere l’esito de gli accertamenti svolti in sede penale per giungere a contestare l’addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiano ragionevolmente sussistenti (cfr., sul punto, Cass. n. 27069 del 2018).
2.3. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi di legittimità in ordine alla immediatezza della contestazione alla luce della complessità della vicenda, con riguardo al coinvolgimento di una pluralità di persone astrattamente implicite e alla considerevole pluralità delle contestazioni, alla luce anche dell’impossibilità del datore di lavoro di poter prendere visione del fascicolo processuale penale presso la Procura della Repubblica, prima del rinvio a giudizio del ricorrente.
2.4. Segnatamente, con riguardo all’accertamento dell’avvenuta conoscenza del fatto di reato da parte del datore di lavoro, il giudice del gravame ha confermato che la Commissione d’inchiesta nominata nel 2012 per acquisire informazioni e documentazioni riguardo alla procedura di selezione oggetto di contestazione disciplinare, ha posto al centro del proprio accertamento le irregolarità e le responsabilità nell’ambito delle prove di esame e delle fasi delle selezioni e non ha sollevato alcuna questione concernente la responsabilità del ricorrente.
In assenza di emergenze in capo al R. di qualsivoglia elemento che inducesse a procedere nei confronti del lavoratore, deve ritenersi che correttamente la Corte di merito abbia individuato nel 2015 il momento cui ascrivere l’adeguata contezza del fatto, con l’avvenuta conoscenza dei fatti addebitati al dipendente per effetto del decreto di rinvio a giudizio, quando la Società ha, quindi, comunicato la contestazione disciplinare, dopo essersi costituta in giudizio come parte civile.
3. Il secondo motivo è infondato.
3.1. Quanto alla denunzia di motivazione apparente, va rilevato che questa Corte ha affermato che in caso di censura per motivazione mancante, apparente o perplessa, spetta al ricorrente allegare in modo non generico il “fatto storico” non valutato, il “dato” testuale o extratestuale dal quale esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale e la sua “decisività” per la definizione della vertenza (Cass. n. 13578 del 02/02/2020) e, d’altra parte, per aversi motivazione apparente occorre che la stessa, pur se graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consenta alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 comma 6 Cost. (sul punto, fra le altre, Cass. n. 13248 del 30/06/2020).
È, d’altro canto, consolidato l’orientamento di questa Corte che stabilisce come la validità della sentenza, la cui motivazione sia redatta “per relationem”, presuppone che essa sia autosufficiente, attraverso una valutazione autonoma e critica dei contenuti mutuati, al fine di poterne verificare la sua compatibilità logico giuridica; al contrario, deve ritenersi nulla, ex art. 360, comma 1, n. 4, la sentenza che si limiti ad indicare la pronuncia richiamata, senza evidenziare la validità delle argomentazioni assunte e della loro pertinenza e decisività, in riferimento all’oggetto del processo, così rendendo impossibile individuare la ratio decidendi della decisione (Cass. ord. 459 del 2022; Cass. ord. 22562 del 2016).
3.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale, pur avendo fatto riferimento alla sentenza del Tribunale di Roma, ne ha valutato criticamente i contenuti, diffusamente argomentando sulla denunziata assenza di specificità della contestazione.
3.3. Per quanto concerne la censura riguardante la genericità della contestazione, va infatti rilevato che la contestazione dell’addebito prodromica al licenziamento ha la finalità di consentire al lavoratore di difendersi, dovendo fornire a quest’ultimo, secondo il principio della specificità, indicazioni necessarie ed essenziali tali per cui possa individuare, nella sua materialità, il fatto addebitatogli; per integrare la violazione del principio di specificità, dunque, è necessario che si sia sostanziata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e l’esercizio della difesa in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione (Cass. sent. 9590 del 2018).
3.4. Nella specie va evidenziato come la Corte abbia ritenuto l’assenza di qualsivoglia lesione del diritto di difesa del lavoratore, reputando essere stata la contestazione disciplinare emessa in ottemperanza del principio di specificità; in particolare, la Corte ha fatto propria la motivazione di primo grado, che ha ritenuto come la contestazione avesse chiarito quali fossero i fatti già individuati in sede penale, ritenuti disciplinarmente rilevanti ed in particolare le irregolarità in cui sarebbe incorso il dipendente nell’ambito della procedura di selezione/ammissione di personale qualificato, alla luce della mancanza di delibera del Consiglio di Amministrazione, con riferimento a 93 assunzioni, effettuate, quindi, “in eccedenza” rispetto a quanto dal Consiglio deliberato.
La contestazione, d’altro canto, non richiama genericamente solo il decreto di rinvio a giudizio, ma ne riporta le parti salienti, con la descrizione precisa dei fatti contestati; inoltre, come sottolineato dal giudice di primo grado e confermato dalla Corte d’appello, la seconda parte della lettera di contestazione chiarisce quali siano i fatti già individuati in sede penale ritenuti rilevanti dal punto di vista disciplinare come dianzi descritti, nonché il concorso nella falsificazione dei verbali di commissione in esame e nella graduatoria finale.
4. Anche il terzo motivo non può trovare accoglimento.
4.1. Va premesso che non può configurarsi in alcun modo una violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., alla luce di una motivazione che tiene conto e dà atto delle ragioni che hanno condotto la società a reputare sussistenti gli estremi della giusta causa di licenziamento, in considerazione della piena consapevolezza, da parte del dipendente, alla luce della carica rivestita di amministratore delegato nonché della sua partecipazione a tutte le riunioni del Consiglio di Amministrazione, dell’assenza di un atto autorizzativo del Consiglio ad assunzioni di personale oltre al numero consentito di 70 unità.
Va, poi, evidenziato che, secondo l’insegnamento di questa Corte (fra le altre, Cass. n. 13534 del 2019 nonché, in terminis, Cass. n. 7838 del 2005 e Cass. n. 18247 del 2009), il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo.
La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva, come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (ex plurimis, Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010).
Conseguentemente, non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).
Nondimeno, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori.
Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento. Quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).
Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (così, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonché la giurisprudenza ivi citata).
4.2. Tale distinzione, operante per le clausole generali, condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (più di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018).
E’, infatti, solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (sul punto, fra le altre, Cass. n.18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).
4.3. Nel caso di specie, appare evidente che la censura, veicolata per il tramite dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in realtà corre lungo i binari della censura fattuale in quanto mira ad una diversa ricostruzione della fattispecie, oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado.
Parte ricorrente, infatti, pur denunciando, apparentemente, una violazione di legge, chiede in realtà alla Corte di pronunciarsi sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice in ordine alle conclusioni raggiunte con riguardo alla sussistenza degli elementi posti a sostegno della giusta causa di licenziamento.
5. L’ultimo motivo di ricorso è fondato.
5.1. Va premesso in punto di ricostruzione processuale che la Corte ha escluso il diritto alla corresponsione dell’indennità per ferie affermando che C. S.p.a. aveva recepito l’art. 5 comma 8 del DL 95/12 a mente del quale “Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché le autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile”.
Orbene, come affermato dalla Corte di giustizia nella nota sentenza M.P. (CGUE del 6 novembre 2018, C 684/16) l’estinzione del diritto maturato da un lavoratore alle ferie annuali retribuite o del suo correlato diritto al pagamento di un’indennità per le ferie non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro, senza che l’interessato abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare detto diritto alle ferie annuali retribuite, arrecherebbe pregiudizio alla sostanza stessa del diritto medesimo (v., in tal senso, sentenza del 19 settembre 2013, Riesame Commissione/ Strade, C-579/12.
In particolare, la Corte ha affermato che quando il rapporto di lavoro è cessato e la fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite non è più possibile, l’art. 7, par. 2 dir. 2003/1988 riconosce il diritto ad una indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti: tale norma osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute al lavoratore, il quale non può più fruire delle ferie annuali cui ha diritto prima della cessazione del rapporto di lavoro.
Secondo la Corte una perdita automatica del diritto alle ferie si traduce, tout court, in una lesione della sfera giuridica soggettiva de dipendente, in quanto parte debole del rapporto di lavoro.
5.1. La Corte Costituzionale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), con sentenza n. 5 del 6 maggio 2016, ha in primo luogo evidenziato, quanto al dato letterale, non essere senza significato che il legislatore correli il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie.
Secondo la Corte, il dato testuale è coerente con le finalità della disciplina restrittiva, che si prefigge di reprimere il ricorso incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie non godute.
Affiancata ad altre misure di contenimento della spesa, la disciplina in questione mira a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro.
In questo contesto si inquadra il divieto rigoroso di corrispondere trattamenti economici sostitutivi, volto a contrastare gli abusi, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole.
Questa interpretazione si colloca, secondo la Corte, nel solco tracciato dalle pronunce della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, che riconoscono al lavoratore il diritto di beneficiare di un’indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando difetti una previsione negoziale esplicita che consacri tale diritto, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di “monetizzare” le ferie (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 19 ottobre 2000, n. 13860; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 8 ottobre 2010, n. 7360).
Ad avviso del Giudice delle Leggi, quindi, così correttamente interpretata, la disciplina impugnata non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma terzo), dalle fonti internazionali (Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; direttiva 23 novembre 1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare la materia).
1 Il diritto alle ferie, riconosciuto a ogni lavoratore, senza distinzioni di sorta (sentenza 189 del 1980), mira a reintegrare le energie psico-fisiche del lavoratore e a consentirgli lo svolgimento di attività ricreative e culturali, nell’ottica di un equilibrato «contemperamento delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore» (sentenza n. 66 del 1963). Anche secondo la Corte costituzionale, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha rafforzato i connotati di questo diritto fondamentale del lavoratore e ne ha ribadito la natura inderogabile, in quanto finalizzato a «una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute» (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 26 giugno 2001, in causa C-173/99, BECTU, punti 43 e 44; Grande Sezione, sentenza 24 gennaio 2012, in causa C-282/10, D. nonché la richiamata M.P.).
La garanzia di un effettivo godimento delle ferie traspare, secondo prospettive convergenti, dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 297 del 1990 e n. 616 del 1987) e da quella europea (ex plurimis, Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza 20 gennaio 2009, in cause riunite C-350/106 e C-520/06, S. e S. ed altn).
6. Secondo la Corte, quindi, tale diritto inderogabile è violato se la cessazione dal servizio vanifichi, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore.
Sul punto anche la giurisprudenza sovranazionale è piuttosto chiara: il compenso per il mancato godimento serve a porre rimedio ad una situazione di svantaggio per la parte debole del contratto, essenzialmente nelle ipotesi in cui la fruizione del periodo di congedo sia stata impedita da malattia o morte che, per il loro repentino insorgere, non consentissero la previa pianificazione del periodo feriale.
Tali condizioni ricorrono nel caso di specie, nel quale il rapporto ha effettivamente subito una repentina interruzione del proprio corso la cui causa, dovuta al licenziamento in tronco che, proprio per il carattere del provvedimento espulsivo, non ha consentito la previa pianificazione del periodo feriale.
Va rilevato, infatti, come centrale nella valutazione circa il mancato godimento delle ferie deve reputarsi l’impossibilità, per causa sopravvenuta di pianificarne il godimento, impossibilità da cui discende necessariamente, in conformità con la giurisprudenza sovranazionale che molto se ne è occupata, il diritto a godere comunque della corrispondente indennità economica.
Nella specie, quindi, alla luce di una interpretazione costituzionalmente e conformemente orientata, deve, in particolare, farsi applicazione della decisione della Corte costituzionale che ha escluso, con una sentenza interpretativa di rigetto, l’illegittimità della norma soltanto ove interpretata nel senso di consentire il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi nelle fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie.
7. Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, respinti i primi tre motivi di ricorso, deve essere accolto il quarto, la sentenza deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa rimessa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche in ordine alle spese relative al giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Respinge i primi tre motivi di ricorso. Accoglie il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche in ordine alle spese relative al giudizio di legittimità.
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